RITORNO DELLE TRIBÙ, FETICISMO DELLE ETNIE: NON
CURIOSITÀ FOLKLORISTICHE MA MINACCE PER IL FUTURO
Piccoli passi verso la barbarie di Enzo Bianchi (Priore
della Comunità Monastica di Bose)
da 'La Stampa' - 28/2/2003 - Sezione: Cultura
Pag. 23 - www.lastampa.it
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Per Mattéi, l'uomo contemporaneo si è separato dalla trascendenza del senso e ha così generato le forme più aberranti di frammentazione psicologica e sociale. La barbarie che avanza - come il deserto di Nietzsche - segna il fallimento dell'universale nell'im-mondo moderno ed è riconoscibile da quattro elementi: «il misconoscimento della bellezza di un'opera, cioè l'ignoranza; il diniego di ciò che è elevato, cioè la pretesa; l'incapacità di compiere un gesto creatore, cioè l'impotenza; la volontà confusa di distruzione, cioè la regressione» (pp. 6-7). Queste analisi, oltre che cupe perché prive di sbocchi, non sono schermaglie di idee al di sopra delle nostre teste e del nostro vissuto quotidiano, ma la lettura di realtà che viviamo giorno dopo giorno e del modo in cui le affrontiamo, e sono esse che determinano la vitalità o meno della nostra cultura e della nostra convivenza sociale. Barbarie, infatti, è ciò che non è ancora o non è più «coltivato», ciò che rimane o ritorna allo stadio della pura emotività, dell'istinto animale, ciò che degenera e inselvatichisce per mancanza di criteri e di valori che permettano di discernere cosa è bello e buono per il singolo individuo e per l'umanità intera. Si può essere membri di una società senza coltivare un certo senso dell'appartenenza, senza cercare anche un'identità collettiva? Solo con una memoria comune e un'appartenenza plurale ma condivisa si può edificare un avvenire comune. Invece sembriamo incapaci di una politica di una memoria, giusta, elaborata nel confronto: l'esempio della barbarie manifestatasi nel disfacimento della Jugoslavia dovrebbe farci capire che memoria non è fissazione sui torti subiti nel passato né deformazione degli eventi, ma rielaborazione condivisa delle ferite inferte o ricevute. È invece la caricatura della memoria, la ghettizzazione della storia che forniscono gli alibi alla barbarie: assistiamo così al ritorno delle tribù, ai miti del sangue e della razza, alla tirannia di gruppi chiusi su se stessi che si autodefiniscono contro l'unità della società e della nazione. Xenofobie tribali e feticismo delle etnie non sono allora amene curiosità folkloristiche, bensì una minaccia per il futuro dell'Europa e una premessa ideologica alle pulizie etniche. Anche per questo diventano importanti quei «piccoli passi» su cui concentra la sua attenzione Guy Coq: gesti apparentemente insignificanti, compiuti senza pensarci troppo o, magari, convinti che «non sono poi così gravi», ma che di fatto avvelenano la nostra convivenza civile, svuotano la democrazia, sviliscono la politica, favoriscono la violenza privata e istituzionale, minano il concetto stesso di giustizia, deformano la libertà. Gli ambiti di questa lotta tra barbarie e civiltà vanno dal personale al collettivo, dal locale all'universale e investono i rapporti familiari come il sistema scolastico, l'erosione della democrazia come la bioetica, i diritti dell'uomo e la pace, la risposta al terrorismo e la ricerca di una speranza non utopica. Analisi insieme lucide e amare, che si devono però tradurre in un vibrante appello alla vigilanza, al non rassegnarsi alla parcellizzazione dell'individuo, al lavorare con rinnovato vigore alla custodia dei rapporti interpersonali e sociali. Coq ci mette in guardia contro «il rischio di credere che sono gli altri e non noi a poter cadere nella barbarie» e demistifica la credenza in una società perfetta, rifiutando così ogni utopia, ma invitando nel contempo a resistere contro la barbarie: questa resistenza - possibile, necessaria e doverosa - potrà allora «animare una nuova cultura dell'impegno». Occorre la vigilanza di uomini e donne che non rinunciano a pensare, occorre l'impegno di «sentinelle» - come Giovanni Paolo II ha voluto chiamare i cristiani in quest'ora difficile: sentinelle del dialogo, del confronto, dei diritti, della pace. Sì, perché la barbarie non è una fatalità. |