nche se il silenzio è vasto, sulle misure di sicurezza
adottate in fretta da Berlusconi, c’è stato chi ha provato sgomento grande,
apprendendo che il ministro dell’Interno Maroni aveva messo all’ordine del
giorno, come provvedimento risolutivo, le impronte digitali imposte ai
bambini Rom: hanno protestato insegnanti impegnati in difficili tentativi di
inserzione, e pensatori, storici, politici d’opposizione. Ma le parole più
nette, più indipendenti, meno nebbiose son venute dall’interno della Chiesa.
Aveva cominciato l’arcivescovo di Milano Tettamanzi, denunciando gli
sgomberi dei campi Rom in aprile («Si è scesi sotto il rispetto dei diritti
umani»). Poi hanno parlato sacerdoti, vescovi, la Fondazione Migrantes.
Infine è giunto l’editoriale di Famiglia Cristiana: un periodico
che vende più copie di tutti i giornali (3 milioni di lettori) ed è presente
in ogni chiesa.
L’editoriale del direttore, Antonio Sciortino, non usa eufemismi. Parla di
«misure indecenti», di un governo per cui «la dignità dell’uomo vale zero».
Enumera verità giuridiche elementari: l’accattonaggio non è reato, la patria
potestà tolta quando i genitori Rom sono poveri o in condizioni difficili
viola la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia, firmata dall’Italia. Ma
soprattutto, ricorda il male scuro dell’Italia, tra i più scuri in Europa.
L’Italia porta nel proprio bagaglio il fascismo con le leggi razziali e
tuttavia questa «tragica responsabilità» finge di non averla: «Non ce ne
siamo vergognati abbastanza». Anche questo crea sgomento: questo passato che
non solo non passa, ma sembra dissolto in un acido, come se le revisioni di
Fini a Fiuggi non si fossero limitate ad affrancare Alleanza nazionale ma
fossero andate oltre, consegnando al nulla tutto un brano di storia
nazionale. Il periodico obbedisce al motto del fondatore, Giacomo Alberione:
«Famiglia Cristiana non dovrà parlare di religione cristiana, ma
di tutto cristianamente».
T
uttavia l’ossessione dello straniero sospetto sin dalla
nascita non è solo italiana. In questi giorni si discute di schedatura
dell’infanzia in Francia («progetto Edvige»), anche se l’elaborazione di
identikit - il profiling - non riguarda le etnie. Ma anche qui
si pensa agli stranieri, e il significato è lo stesso: si predispongono
liste di sospetti, in nome di uno stato d’emergenza infinita. Il modello
d’integrazione del dopoguerra, chiamato in Francia protezionista, viene
sostituito da un modello repressivo, dal populismo penale, da un
inarrestabile proliferare di reati, dal profiling del diverso.
Muta il mondo che abitiamo sempre meno generosamente, meno umanamente: una
sorta di catastrofismo antropologico s’insedia negli spiriti e nei governi,
che giudica l’uomo malvagio, incendiario. Che abolisce la fiducia:
quest’apertura all’altro che scommette sul mutare della persona e non sugli
immoti dati del suo corpo e della sua genetica.
Questa politica della sfiducia è iniziata prima dell’11 settembre, ma dopo
il 2001 ha impastato sicurezza interna e antiterrorismo, importando dalla
guerra le parole, le pratiche, le norme d’eccezione. Un libro uscito
quest’anno in Francia, a cura di Laurent Mucchielli, descrive la frenesia
della sicurezza impadronitasi dei governanti come dei giornali e spiega
bene, in un saggio di Mathieu Rigouste, la militarizzazione delle menti.
Anche qui riaffiorano automatismi, si son disperse vergogne o memorie.
Rigouste, in un libro d’imminente uscita (L’ennemi intérieur, La
Découverte) ricorda che linguaggio e azioni sono radicati nelle repressioni
coloniali. Si parla di «contro-insurrezione», di «zone grigie dove
s’annidano minacce di guerriglia», di «guerre di bassa intensità permanente»
nelle banlieue. Ci sono consiglieri governativi (il colonnello
de Richoufftz, il generale Henry Paris) che si fanno forti delle esperienze
in Bosnia, Kosovo, perfino in Algeria.
A forza d’impastare il civile e il militare sono tanti i confini che
sbiadiscono: tra ordine e emergenza, pace e guerra, e anche tra l’età
maggiorenne (in cui diveniamo imputabili, incarcerabili) e quella minorenne,
da tutelare e correggere con l’integrazione. Il bambino e l’adolescente
diventano incubo, primo anello di catene devianti. Il XX secolo fu marchiato
dalla foto del bambino con le braccia alzate, nel ghetto di Varsavia
sopraffatto. Quell’immagine rivive: a Guantanamo, in Palestina, in Europa
stessa. Chi ha contemplato il tremendo nel prodigioso film di Ari Folman
(Waltz With Bachir), ricorderà la scena in cui l’autore, ebreo
israeliano, racconta i palestinesi massacrati a Sabra e Chatila e vacilla
perché quel che ha visto e quel di cui s’è reso complice gli fa venire in
mente il bambino di Varsavia.
Chi difende le leggi Berlusconi difende cause apparentemente buone, e
accusa i cristiani dissidenti di cecità: «Voi non andate nelle terre di
desolazione e ignorate l’angoscia di tanti italiani», lamentano. Dicono che
la legge è fatta per dare ai bambini un’identità che non hanno, per
verificare se vanno a scuola, hanno case decenti, son sfruttati. Ma i
bambini sfruttati e non scolarizzati in Italia sono ben più numerosi dei
Rom, e questo conferma la discriminazione negativa di un’etnia (sono
selettivi anche alcuni termini: commissario per la questione Rom,
emergenza-Rom). Conferma una visione del male che non insorge perché società
e istituzioni barcollano, o l’integrazione fallisce. Il male comincia nel
genetico, nel corpo del bambino. Tanto più se diverso: Rom, musulmano,
povero.
Sono anni che la delinquenza minorenne ossessiona, e un primo bilancio
può esser fatto delle risposte date fin qui in Europa. I più repressivi sono
stati i governi inglesi, poi il francese e l’italiano; mentre a Nord è
sopravvissuto il modello integrativo. I risultati non confortano i fautori
di ghetti. Con le repressioni inglesi, la delinquenza minorile è
spettacolarmente aumentata: la sua parte nel crimine globale raggiunge
percentuali senza eguali in Europa (20 per cento). Mentre in Norvegia, dove
son preservate istituzioni solidali, i minorenni sono meno del 5 per cento
della criminalità globale. Molte misure tecnologiche presentate come
miracoli sono inefficaci. E in nome delle vittime o delle paure singole, è
l’idea di una società coesa che si sfalda, è la sfiducia nelle istituzioni
collettive che si attizza. Le impronte digitali, infine, accendono
risentimento. Pierre Piazza, autore in Francia di una storia della carta
d’identità, evoca afghani in cerca d’asilo che si son bruciati le dita, per
protestare contro la schedatura.
I tempi d’azione affrettati e concitati, il rifiuto dei vecchi modi -
più lenti - di curare le radici del male anziché estirparle: tutto questo
mostra che insicurezza e paura sono spesso considerate una soluzione, più
che un problema. Son usate e alimentate come uno strumento utile al potere.
Sono la fuga nella politica delle emozioni, dell’annuncio declamatorio, del
culto totemico di cifre continuamente contraffatte. A partire dal momento in
cui, se un bambino ruba una bici, conta più la bici che la storia del
bambino, il salto qualitativo è fatto: il salto nei nuovi reati (di
accattonaggio o clandestinità); il salto nel sequestro del corpo, tramite
biometria. L’habeas corpus, che è la facoltà di disporre del
proprio corpo senza che esso sia manomesso o derubato, si perde.
I cittadini alle prese con lo spavento sono comprensibili. Ma la civiltà ha
sue ragioni, che l’individuo impaurito non conosce o sottovaluta. Sono
ragioni che riguardano anche lui. Il pastore Martin Niemoeller lo rammenta,
in una poesia scritta a Sachsenhausen e Dachau, oggi esposta in un manifesto
nelle vie di Roma. All’inizio deportano gli zingari, e tu taci. Poi gli
ebrei, i sindacalisti, e sempre taci. Alla fine vengono per prender te. Non
c’è più nessuno per protestare.