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da Le Monde Diplomatique Novembre 1999 -

Vittime della guerra, dimenticati dalla pace

La cacciata degli zingari dal Kosovo Nella cittadina di Usti, nella Boemia del nord, dalla metà di ottobre un muro alto due metri e lungo sessantacinque separa i "Bianchi" dai "Neri" vale a dire dagli zingari. Questa scandalosa iniziativa, peraltro condannata da Praga, simbolizza la ghettizzazione dei rom cechi, già vittime di un apartheid sociale e, spesso, di violenze razziste. La situazione è ancora peggiore nel Kosovo, da cui hanno dovuto fuggire quasi tutti gli zingari per sottrarsi alle vessazioni di elementi più o meno controllati dall'Uck. In compenso, l'Ungheria, non senza difficoltà, apre la via a una certa integrazione.

dal nostro inviato speciale Jean-Arnault Dérens*

 

E' nella frazione di Turjak, a pochi chilometri dalla cittadina di Rosaje, che la polizia montenegrina blocca i profughi che fuggono dal Kosovo. Prima di dover controllare serbi e montenegrini, gli uomini delle unità speciali hanno visto sfilare decine di migliaia di albanesi. Pochi giorni dopo dopo il ritiro delle forze serbe dalla provincia e dall'ingresso delle truppe Nato, una sterminata fila di auto private, di autotreni e di trattori ha iniziato la sua lunga attesa al posto di controllo montenegrino. Le macchine vengono perquisite e sono sistematicamente sequestrate le armi che poliziotti o paramilitari allo sbando, che si dichiarano rifugiati, portano con sé. Per Miroslav Lazarevic, un contadino serbo di una cinquantina d'anni, è il secondo esilio. Nel maggio 1998 ha dovuto fuggire dal suo villaggio occupato dagli uomini dell'Esercito di liberazione del Kosovo (Uck) per sistemarsi in una baracca alla periferia del borgo di Klina. Oggi, se ne va in direzione del Montenegro ma, oltre a sua moglie e ai quattro figli, ha sistemato sul trattore una famiglia zingara che viveva in un capanno vicino al suo, a Klina. Questi rom kalderash, sedentari e musulmani, parlano spesso più volentieri l'albanese che il serbo. La loro lingua è il romaneshti, ma padroneggiano bene le lingue correnti dell'ambiente in cui vivono. "Gli albanesi e i serbi ci disprezzano, eppure noi volevamo vivere in amicizia con tutti. Ce ne andiamo perché ci hanno detto che l'Uck uccide i rom", spiega il capo famiglia. Solo l'amicizia spingerebbe questa famiglia rom a condividere il viaggio con una famiglia serba, anche se un accordo di tipo economico non è da escludere. Per i serbi il viaggio si concluderà a Berane, a una trentina di chilometri da Rozaje, dove vive un cognato di Lazarevic. I rom, invece, pensano di proseguire fino a Podgorica. Vogliono raggiungere gli accampamenti di Cemovsko Poje o di Vrela Ribnicka, alla periferia della capitale montenegrina. Contano sull'aiuto di Isem Gasi, presidente di varie associazioni montenegrine di difesa dei diritti della persona e membro di organizzazioni internazionali rom. Come confidava un rom, nell'estate 1998, Isem Gasi è il capo della comunità rom del Montenegro "perché è ricco e generoso". Infatti, Gasi è solito distribuire generosamente banconote a ogni suo passaggio nei campi. Rozaje e Podgorica sono le due tappe principali dei rom nel Montenegro. Dall'inizio della guerra in Kosovo, nel marzo 1998, fino ai primi bombardamenti occidentali, nel marzo 1999, le tende sono sempre rimaste lì, all'ingresso di Rozaje, pronte ad accogliere il flusso ininterrotto di rom che fuggono dalla provincia. Oggi, parecchie migliaia di loro vivono ancora nei pressi di Rozaje. Alcuni hanno preso il posto dei profughi albanesi che vivevano ammucchiati nella ex-vetreria "Kristal". In effetti, l'esodo dei rom continua senza tregua da diciotto mesi ed è drammaticamente cresciuto dopo l'arresto dei bombardamenti occidentali e il rientro degli albanesi che erano stati cacciati dal Kosovo. I campi sistemati nella periferia di Podgorica accoglievano già quasi 4.000 persone al tempo dei bombardamenti Nato (1).Questa popolazione, difficile da quantificare, si rinnovava continuamente. Molti rom lasciavano rapidamente il Montenegro per raggiungere parenti in zone più fortunate. Alcuni passavano attraverso la Bosnia-Erzegovina , altri tentavano di attraversare clandestinamente l'Adriatico per raggiungere l'Italia. Poiché il Montenegro è stato a lungo trascurato dalle organizzazioni umanitarie internazionali, i profughi rom ricevevano pochissimi aiuti, anche se le tradizionali strutture di solidarietà cercavano di ovviare a queste carenze. I rom sistemati nel Montenegro non sono meno soggetti a ostracismo. Una volontaria italiana, Marcia Kuker, spiega che durante la primavera 1999 i bambini dei campi sono stati cacciati dalla scuola elementare Bozidar Vukovic di Podgorica dove era iniziata la loro scolarizzazione. Il campo di Vrela Ribnicka dispone di un unico punto di approvvigionamento d'acqua. Paradossalmente, i bombardamenti Nato hanno provocato un certo miglioramento delle condizioni di vita dei rom in Montenegro, grazie a maggiori investimenti da parte delle organizzazioni internazionali, e in particolare dell'Alto Commissariato per i profughi che ha fornito grandi tende e garantisce il fabbisogno alimentare essenziale. Poiché sono molti i rom che si sono rifugiati presso parenti in particolare in Macedonia, dove la comunità è molto importante o che hanno preferito continuare a fuggire lontano dal conflitto, non si riesce a sapere esattamente quanti siano stati cacciati in seguito alla guerra del Kosovo. Secondo l'organizzazione Romani Baxt, prima del grande esodo di giugno, 10.000 rom sarebbero già stati costretti a trasferirsi a causa del conflitto, anche se né in Montenegro, né in Macedonia, né in Albania, si è mai proceduto a un censimento specifico dei rom nei campi profughi. Dalla registrazione parziale di quelli giunti in Albania, fatta da Romani Baxt, risulta l'arrivo di 860 persone, in maggior parte sistemate in un campo vicino a Korçæ (2). Strategie di sopravvivenza I profughi rom che vivono in Macedonia, all'incirca 35.000, sono minacciati di espulsione. Alla fine di agosto 1999, il ministro macedone dell'interno, Pavle Trajanov, si è pubblicamente pronunciato a favore del rimpatrio immediato in Kosovo, provocando la reazione del Centro europeo per i diritti dei rom (Errc). Alcuni rom installati nei campi profughi evitano di precisare la propria identità, per paura di subire discriminazioni da parte delle organizzazioni umanitarie, e preferiscono dirsi albanesi. Vari incidenti hanno segnato la vita dei campi, il più grave dei quali si è verificato il 5 giugno nel campo di Stenkovec, in Macedonia. Un gruppo di profughi albanesi ha attaccato alcuni rom, anch'essi rifugiati, affermando che uno di essi si trovava fra i soldati serbi che avevano ucciso, alcune settimane prima, due giovani in Kosovo. L'inchiesta condotta da Romani Baxt dimostra che la principale vittima di questa aggressione, Veli Maliqi, non aveva partecipato direttamente a questo duplice assassinio. Peraltro Maliqi era fuggito dalla caserma dell'esercito iugoslavo di Nis, dove faceva il servizio militare, prima di essere arrestato e costretto a reintegrarsi nella sua unità. Contrariamente agli albanesi, i rom del Kosovo svolgevano effettivamente il servizio militare e gli albanesi li accusano di avere a più riprese fatto da ausiliari alle forze serbe. Ad esempio, durante l'estate 1998, si potevano vedere rom all'opera durante il saccheggio dei villaggi albanesi nel Kosovo ovest, fra Decani e Djakovica. Secondo un piano accuratamente prestabilito, deciso dopo parecchi giorni di perlustrazioni, i poliziotti serbi saccheggiavano per primi i villaggi che attaccavano, portando via i televisori e gli oggetti di valore. Poi arrivavano i civili serbi. I rom erano gli ultimi a servirsi e saccheggiavano ciò che i ladri precedenti avevano trascurato. Numerose testimonianze confermano che i rom erano spesso usati dalla polizia serba per compiere i "lavori sporchi", come quello di seppellire i cadaveri dopo i massacri collettivi. L'accusa di collaborazionismo con il regime serbo è dovuta anche all'atteggiamento dei rom negli anni che precedettero il passaggio al conflitto aperto. "Dovevamo per forza essere dalla parte del Partito socialista di Serbia (Sps, al potere a Belgrado). In Kosovo, non avevamo scelta. Per i serbi, era più facile, anche se erano costretti ad essere membri dell' Sps per trovare un lavoro", spiega Halil Ibrahim, originario di Kosovska Mitrovica (3). In effetti, il potere serbo aveva buon gioco nel manipolare questa comunità fragile. In genere, solo al prezzo di una lealtà politica di facciata i rom del Kosovo riuscivano a comprare la propria sopravvivenza. Tuttavia essi hanno potuto ottenere certi vantaggi dalla situazione di non-diritto nella quale era stata precipitata la maggioranza albanese della popolazione della provincia. Poiché, già dalla fine degli anni Ottanta, molti albanesi erano stati cacciati dagli impieghi pubblici, per i rom era facile trovare lavoro in Kosovo piuttosto che altrove a causa della carenza di manodopera che ne derivava. La manipolazione politica dei rom del Kosovo ha raggiunto il punto più alto al momento dei negoziati di Rambouillet sul futuro della provincia, nel febbraio 1999. Il regime serbo, nel tentativo di denunciare le volontà "egemoniche"della comunità albanese, aveva mandato avanti le piccole comunità nazionali della provincia, slavi musulmani, goranci o rom. La delegazione "serba" ai negoziati lasciava molto spazio a questi gruppi. Di conseguenza i rom erano rappresentati ai negoziati, così come gli "egiziani", che pur essendo rom hanno scelto questo nome esotico in occasione dei censimenti iugoslavi per i quali la dichiarazione di cittadinanza era libera. Secondo i dati del censimento del 1994, gli "egiziani" erano numerosi quasi quanto i rom che si dichiaravano tali nella Macedonia ex-jugoslava. Agli occhi di molti albanesi, la partecipazione, al fianco dei serbi, di rappresentanti rom ed "egiziani" ai negoziati di Rambouillet ha definitivamente compromesso e screditato i rom del Kosovo. Autunno 1998, Drenica, nel cuore del Kosovo. Un uomo dal forte colorito bruno è di guardia vicino alle rovine del villaggio di Murgæ, che segna il limite del territorio controllato dall'Uck. I suoi compagni d'arma elogiano il coraggio di Luan: "E' il capo dell'unica famiglia rom di Murgæ, ed è il miglior combattente del villaggio". L'intera popolazione di Murgæ è albanese, tranne l'unica famiglia zingara, e l'impegno di Luan nei ranghi dell'esercito indipendentista sembra naturale: "Non ho altro paese che il Kosovo, devo lottare con i miei vicini e i miei amici per difenderlo". A cinque chilometri da Murgæ, il villaggio di Kijevo, sulla nazionale che collega Pristina e Pec, offre una ben diversa situazione. Completamente assediato quando l'Uck controllava quasi tutta la regione, nell'estate 1998, questo villaggio si presenta come un ridotto serbo. Alcuni contadini serbi dei villaggi vicini si erano infatti rifugiati con mucche e maiali a Kijevo, ma la maggior parte dei nuovi abitanti di Kijevo era anch'essa rom. Una famiglia numerosa si è sistemata in una vecchia scuola. I due figli più grandi sono orgogliosi della nuova divisa di poliziotti. "Noi non abbiamo nulla contro gli albanesi, ma ci difendiamo dai terroristi: come possono gli albanesi pretendere di creare uno stato? Qui siamo in Serbia, dobbiamo sempre rispettare le leggi e lo stato!". Queste scelte politiche contraddittorie non dipendevano da differenze tribali o confessionali fra i rom del Kosovo, quasi tutti musulmani. Potevano invece essere assunte da diversi membri di una stessa famiglia, il che permetteva di garantirsi il domani, quali che fossero le evoluzioni del rapporto di forze fra serbi e albanesi. Gli stessi rom potevano partecipare alle elezioni "legittime" e votare con molta naturalezza per l'Sps di Slobodan Milosevic, ed esprimersi anche nelle elezioni "clandestine"della "Repubblica del Kosovo" , autoproclamata dalla comunità albanese, come quelle del marzo 1998. In questo caso, votavano per il "presidente"Rugova Queste abili strategie di sopravvivenza non hanno salvato i rom del Kosovo. Manipolati dal potere serbo, sono costretti a un esilio massiccio da quando l'esercito iugoslavo e la polizia serba hanno lasciato la provincia. L'Institute for War and Peace Reporting (Iwpr) di Londra valuta che 120.000 rom sarebbero fuggiti dal Kosovo dalla metà del giugno 1999 (4). Che pensare di questa cifra enorme paragonata ai dati del censimento del 1991 che contava soltanto 49.000 rom e "egiziani" nella provincia? Molti rom del Kosovo non si erano dichiarati come tali e avevano preferito dirsi albanesi o "musulmani", nell'accezione nazionale che il termine può avere in Jugoslavia. Secondo l'Iwpr, prima delle ostilità vivevano in Kosovo 150.000 rom e soltanto 10.000 di essi vi si trovavano ancora alla fine del mese di luglio 1999. Nel Kosovo "liberato", l'espulsione dei rom "collaboratori" ha assunto un andamento sistematico. A Vucitrn, una cittadina a metà strada fra Pristina e Kosovska Mitrovica, sono state incendiate tutte le case rom del centro della città, già largamente distrutto con l'esplosivo e i bulldozer dalle forze serbe. "Erano gli ausiliari dei serbi, hanno saccheggiato le nostre case, noi non facciamo altro che riprenderci i nostri beni", così si giustifica un albanese, mentre alcuni ragazzi escono da una casa incendiata, le dita alzate a V in segno di vittoria e le spalle cariche di tappeti rubati. Nella casa vicina, stanno staccando a colpi d'ascia gli infissi e i rivestimenti in legno, in modo da non lasciare alle fiamme nulla che possa essere recuperato. Soldati francesi della Kfor assistono tranquillamente alla scena e si giustificano spiegando che "non possiamo mettere una guardia davanti a ogni casa". Nella città di Kosovska Mitrovica, suddivisa in un "settore serbo" e uno "albanese", une decina di case serbe e rom venivano incendiate ogni giorno durante il mese di giugno. I profughi giunti in Serbia o nel Montenegro parlano di violenze e di assassinii, anche se i casi di esecuzioni sommarie pare siano rimasti fortunatamente circoscritti. Nella loro fuga, i rom devono inoltre confrontarsi con l'arbitrio delle autorità serbe. Un rom di Pec, Dz. I., citato dall'Iwpr, afferma che la polizia serba ha installato un posto di blocco a Rudare, nel sud della Serbia. Per passare, i rom devono pagare una "tassa" di 200-300 marchi a persona. Se non hanno soldi, devono consegnare i loro gioielli. Il presidente del gruppo Rom di Belgrado, Dragan Stankovic, accusa la Croce Rossa serba, finanziata dal governo, di non prestare alcun aiuto alla popolazione rom. Ogni giorno, varie centinaia di persone fanno la coda fin dall'alba davanti all'ufficio di Stankovic, nella speranza di ricevere i pacchi di cibo forniti dalle Organizzazioni non governative. Tutte le organizzazioni internazionali insistono sulla necessità impellente che la Kfor e la Missione delle Nazioni unite in Kosovo (Minuk) accordino una protezione specifica alla comunità rom. Tuttavia il capo della Minuk, Bernard Kouchner, non sembra preoccuparsi affatto di associare i rappresentanti di questa comunità nell'amministrazione della provincia. Durante la conferenza "Pace e sicurezza per i rom dei Balcani", svoltasi a Sofia il 18 e il 19 giugno 1999, l'organizzazione Romani Baxt invitava anche i governi a includere un programma specifico destinato ai rom nell'ambito del patto di stabilità dell'Europa del sud-est. Una richiesta che appare tanto più logica in quanto i rom presenti in tutti i paesi della regione sono molto interessati alla creazione di uno spazio balcanico aperto. Oggetto di un razzismo condiviso sia dai serbi sia dagli albanesi, manipolati dal regime di Belgrado, vittime di una pulizia etnica sistematica da parte degli albanesi di ritorno nelle loro case, i rom del Kosovo appaiono come le vittime assolute e tragiche della guerra. Le loro sottili strategie di sopravvivenza non hanno resistito davanti allo scontro frontale fra le due comunità dominanti. Molti di loro, a cominciare da quanti hanno, in un momento o nell'altro, portato la divisa dell'Uck o quella della polizia serba, devono oggi condividere la saggezza dei vecchi Rom Lovara, di cui parla Jan Yoors: "I gadje i non zingari sono pazzi e soltanto i pazzi amano la guerra" (5).

note: * Giornalista, Cetinje (Montenegro)

(1) Leggere "Rosmki izbeglicki kamp kod Podgorice" in Monitor, 4 giugno 1999

(2) Dichiarazione di Romani Baxt alla Conferenza "Pace e sicurezza per i rom dei Balcani", Sofia, 18-19 giugno 1999. Testo disponibile sul sito del Courrier des Balkans, http://bok. net/balkans/.

(3) Citato nel rapporto n&oord 61 sulla crisi dei Balcani dell'Institute for War and Peace Reporting (IWPR). Si veda Le Courrier des Balkans.

(4) Rapporto n&oord 61 dell'IWPR, op. cit.

(5) Jan Yoors, Tziganes, trad. dall'inglese in francese di J. Meunier e P. Rumeux, Phébus, Parigi, 1990 poi Payot, 1995.

(Traduzione di M.G.G.)