il manifesto
30 Aprile 2008
vai a
 
CULTURA

apertura
Movimenti di vite invisibili fra le braci della banlieue
Tra le grandi case popolari della periferia parigina è ambientato «Ahlème, quasi francese», secondo romanzo di Faïza Guène, appena uscito per Mondadori
Francesco Vietti

Sono passati due anni e mezzo da quando le periferie francesi andarono a fuoco, bruciando con sé l'illusione di un'integrazione riuscita e il mito assimilazionista francese. Più o meno lo stesso tempo è trascorso dall'uscita di Kif kif domani, il romanzo d'esordio della giovane scrittrice Faïza Guène, che oggi torna a far sentire la sua voce con Ahlème, quasi francese, uscito per Mondadori nella traduzione di Luigi Maria Sponzilli (pp. 128, euro 14). Se tra le pagine del suo primo libro si potevano vedere nitidamente le scintille che di lì a poco avrebbero infiammato la banlieue, in questo secondo romanzo (intitolato nell'originale Du rêve pour les oufs, «Sogno per i pazzi») tutto pare crepitare come brace sotto la cenere di quel rogo. Nel frattempo tutto è cambiato, e nulla è cambiato. Quel «domani è sempre lo stesso» tanto caro a Doria, la giovane protagonista di Kif kif domani, nello stesso tempo è stato confermato e smentito dall'angelo della storia che ha sconvolto Ivry, Pantin, Clichy-sous-Bois e le altre periferie parigine, lasciando immutata la difficile quotidianità di chi vi abita.
L'alter ego di Faïza Guène si chiama questa volta Ahlème, «sogno», e con l'autrice condivide non solo l'età (poco più di vent'anni), i natali algerini e la residenza nei casermoni della banlieue, ma anche lo sguardo acuto e la lingua tagliente, capace di raccontare in modo coinvolgente e dare un senso a una vita precaria. Alla voce «progetto di vita» degli infiniti questionari che deve compilare nelle agenzie di lavoro interinale Ahlème non sa cosa scrivere, eppure ogni giorno si sveglia presto e cerca di cavarsela in una città gelida, anonima, mischiata «ai suoi fratelli», che come lei hanno freddo e che «negli occhi hanno qualcosa di diverso, si capisce che vorrebbero essere invisibili, stare altrove».
La Parigi di Ahlème è una città di invisibili, nascosti tra i grandi palazzi popolari in cui sono naufragati i sogni di edilizia sociale degli anni Sessanta: muratori invalidi - come il padre di Ahlème, il Grande Capo, caduto da un ponteggio in un cantiere in cui era costretto a lavorare senza alcuna norma di sicurezza; giovani immigrati di seconda generazione, rifiutati dalla scuola francese, assimilati culturalmente ma senza alcuna possibilità di essere integrati nel mercato del lavoro di un paese che ha perso le colonie ma che non si è mai veramente decolonizzato al suo interno - come Foued, il fratello di Ahlème, perfetto rappresentante di quella schiera marginale di ragazzi che per Sarkozy sono solo «feccia» da eliminare; parrucchiere senegalesi emigrate invano, alla ricerca dell'albero dei dollari, su cui i soldi crescono facili in ogni stagione dell'anno - come Tantie Mariatou, madre di quattro figli, confidente di Ahlème, a cui fa da madre, da sorella e da amica; ragazzi slavi arrestati mentre sono in coda per il rinnovo del permesso di soggiorno ed espulsi nel giro di poche ore - come Tonislav, imbarcato insieme al suo amore per Ahlème sul primo aereo per Belgrado; e con loro tanti altri «quasi francesi».
Tra le mille difficoltà di tutti i giorni Ahlème si arrangia come può, affrontando delusioni, soprusi, soddisfazioni e piccole vittorie con ironia, rabbia e tenerezza. Passando da un lavoro all'altro, da un ufficio stranieri a un commissariato di polizia, da un litigio con il fratello a un pomeriggio con le amiche o con l'amore di turno, la vita di Ahlème scorre sino a che la nostalgia e le pressioni dei parenti non divengono troppo grandi, e la famigliola non decide di intraprendere un breve viaggio nella natia Algeria, nel villaggio dove una decina d'anni prima la madre di Ahlème era stata uccisa insieme a tanti altri in un atto di terrore contro la povera gente e dove né il marito né i due figli avevano più potuto e voluto tornare.
Il «ritorno a casa» diventa il momento reale e simbolico in cui tutti i grandi temi sommersi della vicenda emergono con chiarezza: le incomprensioni intergenerazionali tra la prima generazione di immigrati, che, nonostante le discriminazioni e le delusioni patite per quarant'anni ancora oggi «si tolgono il cappello, sorridono e dicono: Grazie Francia!», e i loro figli, che pur essendo «perfetti esempi di integrazione» non hanno alcuna vera cittadinanza e si sentono stranieri tanto in Francia quanto nel paese d'origine della propria famiglia; la ricerca di identità delle «seconde generazioni», le visioni distorte che i parenti rimasti nei villaggi del Nord Africa hanno della vita dei loro emigrati e della Francia vista solo in televisione, la consapevolezza che un muro, o meglio un mare, divide un giovane algerino franssaoui (nato o cresciuto a Parigi) dal suo «compaesano» che ancora sogna di partire per scoprire come sia la vita «dall'altra parte», senza immaginare che in realtà si tratti di un «sogno per i pazzi».

 
Pubblicità