il manifesto
18 Ottobre 2008
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CULTURA & VISIONI

taglio medio
RICERCHE La mappa dei migranti in Italia
Sparpagliati oltre le rive del Po
Giovanna Pajetta

Insultati, bistrattati, malmenati, pestati a sangue o addirittura a morte per una scatola di biscotti. Cronache di ordinario razzismo, puntellate dagli allarmi, addirittura di Giorgio Napolitano. Eppure, in questo crescendo d'autunno, la vera novità non sta nel comportamento degli italiani, ma in quello dei loro nuovi concittadini. Decisi, forse per la prima volta, a denunciare i maltrattamenti subiti per decenni, a manifestare nelle piazze e, soprattutto, a rimanere a vivere in Italia. Patria d'elezione per più di due milioni di uomini e donne, forse persino amata, anche quando a noi fa spavento. Perchè il primo dei tanti paradossi della presenza straniera nel nostro paese sta proprio nella scelta dei luoghi dove abitare, portare le proprie famiglie, iscrivere i bambini a scuola. Visto che, come racconta Fabio Amato in questo «Atlante dell'immigrazione in Italia», la maggioranza di loro, ben il 59,6 per cento preferisce percorrere le strade della pedemontana padana. Sopravvive, anzi forse si trova a suo agio, dove più ruggisce la xenofobia leghista. Regalando il primato, in numeri assoluti e in percentuale, a paesi e cittadine della bergamasca, del bresciano, del comasco o addirittura del trevigiano tanto caro allo sceriffo Gentilini.
Costruite incrociando i dati del rilevamenti Istat del 2006 con le analisi della Caritas del 2007, le mappe che illustrano il libro curato dalla Società geografica italiana, non lasciano dubbi. Se all'inizio, quando negli anni Ottanta si aprirono le porte alle prime ondate migratorie, si andava d'estate a tirare le reti sui pescherecci siciliani o a raccogliere pomodori nel casertano, adesso tutti, compresi tunisini e marocchini, preferiscono prendere la via del Nord. Certo, è lì che c'è più possibilità di trovare lavoro, magari stabile anche se poi ci pensa il costo della vita a ridimensionare il salario. Ma a differenza di dieci anni fa, non si emigra solo per questo.
Nei progetti di vita, tra le motivazioni per vivere in Italia c'è ora anche la famiglia, al primo posto per il 35,6 per cento nei questionari della «Caritas migranti». È quella che Fabio amato chiama «una tendenza all'inserimento assimilativo», un vero e proprio radicamento il cui segnale più forte viene dalla presenza dei bambini e dei ragazzini, che erano solo 35mila nel 1996 e sono diventati ben 638mila nel 2006. Sono loro, assieme alle loro famiglie i protagonisti dei primi tentativi di una «appropriazione territoriale», che comincia per l'appunto nelle terre sopra il Po.
Se la media nazionale parla infatti di un timido 5 per cento di immigrati, vicino peraltro ai dati del resto d'Europa, per le strade della pavese Rocca de' Giorgi o della vicentina San Pietro Mussolino, si respira tutt'altra aria. Qui infatti «loro» superano il 20 per cento degli abitanti, e certo si vede, visto che parliamo di piccoli paesi, come la comasca Veleso, dove su 300 residenti ben 70 vengono da altrove. Casi tutt'altro che isolati, visto che dei 450 comuni italiani in cui si supera la media del 10 per cento di immigrati, 170 sono lombardi e 100 sono veneti (37 solo nel trevigiano). In gran parte non si tratta di città ma di paesi, perché l'altro paradosso sta qui, nella preferenza per la cosiddetta «piccola Italia». Se si guardano i numeri assoluti, ovviamente la fanno da padroni le metropoli, Roma, Milano o Napoli, ma questa scelta di vita dei nostri immigrati conferma quella che, da sempre, è stata una peculiarità degli insediamenti italiani.
A differenza di quello che accade nei paesi di più antica immigrazione, in Francia, Gran Bretagna o anche in Germania, nel nostro paese infatti non si sono mai formati dei ghetti, persino i cosiddetti «quartieri etnici» come Braida a Sassuolo o Serenissima a Venezia, si contano sulle dita di una mano. Per il resto, per citare il titolo di un capitolo del libro, i nostri immigrati preferiscono vivere «sparpagliati», forse non solo perché le loro comunità (in Italia ci sono ben 180 nazionalità diverse) sono piccole. Anche questo è un segno di un processo di integrazione, che va di pari passo con il fenomeno che più è cresciuto in questi anni, l'imprenditorialità.
Oggi in Italia ci sono 140mila imprese in cui il titolare è un immigrato, nel 2006 sono state oltre un terzo delle nuove nate, e per lo più sono situate guarda caso nel Nordest (il 37 per cento) e nel Nord ovest (27 per cento). È un fenomeno che si è già realizzato in buona parte d'Europa, ma favorito per una volta dalle leggi italiane. Se infatti c'è chi è più generoso di noi sul piano ad esempio dei diritti sociali, come la Germania, è grazie alla legge 40 del 1998 che gli immigrati regolari possono aprire ditte individuali o diventare soci di cooperative. Per ora chi lo fa, in Toscana in primo luogo, sono soprattutto i cinesi e i marocchini, così come la gran parte delle imprese sono commerciali, piccoli negozi o ristoranti. Ma non è detto che, a furia di vivere nel regno del lavoro autonomo e delle partite Iva, senegalesi o indiani non decidano nel prossimo futuro di diventare loro i nuovi «padroncini» della Padania.
FABIO AMATO, ATLANTE DELL'IMMIGRAZIONE IN ITALIA, CAROCCI, PP. 139, EURO 13,50

 
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