il manifesto
03 Novembre 2007
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Prostituzione
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Prostituzione

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Prostituzione Dalla Nigeria a un marciapiede italiano. Una ex prostituta si racconta
«Sognavo l'Italia, non la schiavitù»
In strada arrivano anche i pazzi e i violenti, e ogni sera a una di noi capita una rapina o uno stupro Otto clienti va bene, dieci è meglio, da dodici in su fisicamente sei distrutta. Con cinque non c'è lavoro
Isoke Aikpitanyi

Gladys piange. Ha sì e no vent'anni ed è magra come un filo d'erba. Magra, sporca, con un incisivo spaccato a metà. Dice che gliel'ha rotto un cliente, con un pugno. Dice: «Voleva indietro i soldi e io ho detto di no, e allora mi ha picchiata e poi violentata e poi si è preso i soldi e mi ha lasciata lì». Gladys piange. E' arrivata un anno fa dalla Nigeria, ha camminato e camminato per diciannove mesi, l'hanno fatta passare attraverso il Libano e ora si ritrova qui, a sbattere sulle strade intorno a Orte. L'ha fatta arrivare sua cugina. Le aveva promesso una casa e un lavoro in cambio di 60 mila euro, e poi le ha dato un paio di mutande e poi l'ha messa qui, sulla strada. Gladys ha il permesso di tornare a casa solo il fine settimana, e solo se porta abbastanza soldi. Gli altri giorni vive in strada. Dorme, si cambia, si lava in treno, andando da un paese all'altro, da un marciapiede all'altro. Lavora 15, 16, 17 ore al giorno. Piange. «Non è vita, non è vita, aiutami tu».
Io, Isoke. Cosa posso fare, io, se non raccontare la sua storia? Che poi è anche la mia, è la storia di tutte le migliaia di ragazze che partono da Benin City piene di speranza e poi eccole, le vedete sulle vostre strade giorno e notte, su quei tacchi ridicoli, con quella carne di fuori. Sette giorni su sette, per dieci-dodici ore al giorno, per 365 giorni l'anno. Per due-tre anni, fino a che non hanno pagato i 50-60 mila euro del debito. Trattate come schiave. E credetemi: non sto inventando niente. Io, Isoke Rose Ovbhokan Aikpitanyi, di anni 28, non avrei mai potuto inventare una storia così. La mia stessa storia. Terza di otto figli, con genitori separati. In casa non c'era mai da mangiare per tutti. Io guardavo la televisione e sognavo il paradiso, l'Europa dei bianchi dove tutto, dicevano, era così bello e così facile. Guardavo i manifesti dentro le agenzie turistiche. Sognavo. Avevo vent'anni. E un giorno sono entrata.
«Vuoi partire?» «Non ho soldi». «Un modo c'è, se sei una ragazza sveglia». Il modo c'era. Un'organizzazione trovava casa e lavoro in Europa, bastava impegnarsi a pagare i soldi del servizio. Per me erano 30 milioni, otto anni fa. Avrei fatto la commessa in un supermercato a Londra. «Ti va bene?» «Benissimo». A Londra mi hanno tenuto rinchiusa per settimane, insieme a molte altre. Del lavoro non c'era traccia. Però c'erano le telefonate: «La merce è arrivata, manda i soldi»; «se non la prendi tu, la vendiamo a qualcun altro». Parigi, Amsterdam, Berlino... Merce? Quale merce? Noi quasi impazzivamo per la paura. Cosa stanno vendendo? A chi? E soprattutto: perché?
Mi hanno detto che il mio lavoro era a Torino e mi hanno messo su un pullman. Sono scesa alla stazione di Porta Nuova. Dopo una settimana mi hanno dato un paio di mutande e un paio di scarpe coi tacchi altissimi. «Sul posto di lavoro si mette questo» hanno detto. Il posto di lavoro era un marciapiede. C'era la neve. «Non è possibile non è possibile non è possibile». Riuscivo solo a pensare questo: non è possibile. Ma ero senza soldi e senza documenti, e l'unica parola che sapevo di italiano era vaffanculo. Avevo il debito da pagare e si sa cosa succede alle ragazze che non vogliono pagare. Come la mia compagna di stanza, Itohan. Le hanno ammazzato un fratello in Nigeria perché lei non voleva stare sul marciapiede. Ha tenuto duro. Dopo un mese è sparita. Un cane l'ha trovata che era morta già da tempo, un cadavere mangiato dai topi dentro un capannone abbandonato alla periferia di Torino. Ditemi che cosa potevo fare d'altro. Ho chinato la testa, come tutte le altre, e ho cominciato anch'io la mia vita in Italia.
Su quel marciapiede sono rimasta quasi tre anni, prima di riuscire a scappare. Ora vivo ad Aosta, ho un compagno italiano, insieme abbiamo creato un'associazione contro la tratta che si chiama «La ragazza di Benin City». Sto pensando di sposarmi e anche di avere un figlio. Sei fortunata, mi dico. Ma le mie compagne sono ancora lì, a battere. Anche adesso che mi state leggendo, a migliaia, sono in giro per l'Italia e battono su quel pezzo di marciapiede per cui gli fanno pagare anche 250 o 300 euro al mese. Se non guadagnano abbastanza, sono botte. Se non vogliono lavorare, sono botte. Vanno al lavoro con i denti rotti, con gli occhi pesti. E in strada la gente gira gli occhi o gli tira l'immondizia, grida degli insulti. «Tornatene a casa, sporca negra». In strada arrivano i clienti e non gliene frega niente. «Quanto vuoi?»
In strada arrivano anche i pazzi e i violenti, e ogni sera a una di noi capita qualcosa, una rapina o uno stupro. Ma a chi importa? Vai all'ospedale quando proprio sei in fin di vita, e non è che ti trattino molto bene. Arriva il piantone, prende svogliatamente una denuncia che già sai finirà in niente. Poi a te danno il foglio di via. Sei la vittima e vieni trattata come un colpevole, spazzatura da cui ripulire le strade, e chissenefrega del tuo destino.
Da quando sono in Italia, ho fatto il conto con i giornali e con la tivù, almeno 200 ragazze nigeriane sono state trovate morte, uccise dai clienti o dal racket. E parlo solo di quelle che hanno trovato; di quelle sparite nel nulla non so dire niente. Non so dire neanche quante sono state rimandate a casa col rimpatrio forzato, in mutande e con le scarpe ridicole, così come le hanno prese sulla strada. So però che molte sono finite in prigione, e che le famiglie si vergognano di loro talmente tanto che neanche vanno a pagare la multa per liberarle. Anzi, le maledicono.
Così, quando escono dalla galera, l'unica cosa che possono fare queste ragazze è andare a sbattere intorno agli alberghi dei ricchi per pagarsi un altro viaggio verso l'Italia. Noi non lo sappiamo, quando partiamo da Benin City piene di speranza. Non sappiamo che il nostro è un viaggio dentro la schiavitù e dentro l'orrore, ma soprattutto un viaggio da cui non c'è possibilità di ritorno.
In Italia la nostra vita è battere. Prigioniere.Casa-marciapiede-casa-marciapiede. Mai un cinema, una discoteca, un supermercato. Noi non dobbiamo mescolarci ai bianchi, gli ordini sono chiari. Con i bianchi l'unico scambio possibile è «quanto vuoi», «venticinque euro». In certe zone d'Italia sono solo dieci, o anche cinque. «Va bene, sali». E tu sali. «Quanto hai guadagnato stasera? Quanti clienti hai fatto?»
Otto clienti va bene, dieci è meglio, da dodici in su fisicamente sei distrutta. Cinque clienti vuol dire che non c'è lavoro. Così quando qualcuno ti offre il doppio per farlo senza preservativo, pur di non prendere le botte dici di sì. Se poi rimani incinta ti fanno abortire in casa, a tuo rischio e pericolo. Ma a volte qualcuna decide di tenere il bambino, e la fanno rimanere sulla strada fino a poche ore prima di partorire. «Non sei mica incinta nelle mani» dice la maman che la controlla. E per le donne incinta i clienti fanno la fila. Anche se hanno la pancia così e le caviglie gonfie: c'è la fila. Poi finalmente partoriscono, ovviamente in casa, di nascosto, e questo figlio diventa la catena peggiore. Non pensano più a scappare o a ribellarsi, pensano solo a lavorare e a fare soldi e a correre a casa. Se non portano abbastanza soldi, il figlio non glielo fanno neanche vedere. Inutile piangere. Inutile.
Io una via d'uscita l'ho cercata, e come me le tante ragazze di Benin City che di questa vita di Italia non ne possono più. Un cliente che era una persona per bene (ce ne sono tanti, dovete credermi) mi ha portato in due associazioni a cercare aiuto. Hanno detto che c'era l'articolo 18, che se denunciavo i miei sfruttatori potevo avere il permesso di soggiorno. «Ma io non posso fare la denuncia, quelli hanno già minacciato la mia famiglia. Non voglio che ammazzino mia madre o i miei fratelli». «Si vede che non sei ancora decisa. Torna il mese prossimo». Il mese dopo sono tornata. «Allora, questa denuncia?» «Non posso». «Pensaci ancora. Ci vediamo tra un mese». Alla fine non sono tornata più.
Oggi ho un permesso di soggiorno come colf, sono riuscita ad averlo con l'ultima sanatoria. Ma di pulizie ne faccio poche. Il mio lavoro vero, ormai, è quello di andare in giro a parlare, a raccontare, a spiegare. A dire: la schiavitù esiste, vedete, e io ero una schiava. Una prostituta schiava. Le prime volte mi mancava la voce, quasi morivo dalla vergogna e dall'imbarazzo. Oggi non più. Guardo la gente in faccia e penso a Gladys, a Itohan, alla ragazza che ero e alla trappola in cui tutte siamo finite. Ascoltateci, dico. Una storia come la nostra non si cancella. Non si dimentica, non si supera, non ci si viene mai a patti. E non basta lasciare la strada, trovare un compagno, chiudere la porta di casa e andare a letto, per tenere fuori dal cuore i ricordi e il dolore. Per questo io, Isoke, ho deciso di alzarmi in piedi e parlare. Di dire a tutti: adesso vi racconto cos'è la tratta. Io l'ho vissuta. Sono una sopravvissuta. Ascoltatemi.
Sono la prima che in vent'anni ha avuto il coraggio di farlo, mettendoci il nome e il cognome e la faccia. Ho portato la mia faccia persino da Bertinotti, che mi ha stretto la mano, e da Ferrero, che per un'ora ha ascoltato la mia storia. Ho messo la mia faccia e il mio nome anche sulla copertina di un libro, «Le ragazze di Benin City», e ora la porto in giro in tutta Italia, a parlare nelle scuole e nelle librerie, nelle associazioni di donne e ai seminari di Amnesty. Ogni volta in sala vedo che qualche donna, ascoltandomi, si mette a piangere. E' giusto, dico. Abbiamo pianto tanto anche noi.
Gladys piange a Orte. Osas piange a Torino. E Stella, e Rosemary, e Jessica, e Pamela... Quante ce ne sono. Quante. Troppe. Vengono a cercarmi spaventate, si passano il mio numero di telefono l'una con l'altra. Chiedono aiuto. «Di te mi fido» dicono. Ma cosa posso fare, io, se non raccontare le loro storie? Posso solo dire, a chi mi ascolta: liberatele. Date loro i documenti, e la scuola, e un lavoro. Tiratele via dal marciapiede, oggi, subito, prima che muoiano dentro; prima che dicano, come in tante hanno già detto: «Il mondo gira così, che cosa vuoi farci».
Allora, una volta finito di pagare il debito, compreranno anche loro una ragazza, o due, o tre, e poi faranno i soldi sulla carne fresca in vendita. E' così difficile da capire? Sì. Forse è difficile. Così difficile che, da anni, inutilmente io cerco di aprire una piccola casa d'accoglienza ad Aosta. Una casa per le vittime, gestita dalle ex vittime, per le tante Gladys ed Essohè e Jessica che aiutandosi l'una con l'altra, da vittima a vittima, possono provare a rimettere insieme i pezzi della loro vita. Ho bussato a mille porte; mille volte me le hanno chiuse in faccia. Non importa. Sono convinta che la storia sia dalla mia parte. Per questo non mi stanco di dire a tutti: è possibile. Ascoltatemi. Liberatele.

 
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