il manifesto - 04 Luglio 2003
I nomadi dell'islam radicale
Universi paralleli Gli storici movimenti politici che si rifanno all'islam stanno abbandonando l'iniziale vocazione globale per trasformarsi in movimenti nazionalisti. Questo è dovuto alla progressiva occidentalizzazione dell'islam. La «guerra santa» auspicata da reti terroriste come al Qaeda è quindi da considerare il risultato di una costruzione di una comunità astratta di fedeli che trova le sue radici nell'islam d'Occidente. E dal Medio Oriente arrivano le testimonianze dei soldati israeliani che hanno rifiutato di obbedire agli ordini di Sharon
Ascesa e crisi del progetto politico globale dell'islam politico. Un libro inchiesta dello studioso francese Oliver Roy

STEFANO LIBERTI
Islam versus Occidente. Entrata ormai nel sentire comune, l'opposizione manichea tra questi due universi apparentemente non conciliabili alimenta ogni discussione sull'islam, di cui si finisce per sottolineare di volta in volta il carattere di irriducibilità rispetto a un vago modello di integrazione, l'intrinseca aggressività o lo spirito invasivo. Tale visione negativa non sembra tener conto di un dato che negli ultimi anni, con l'intensificarsi dei flussi migratori provenienti da paesi musulmani, si è andato imponendo un po' in tutti i nostri paesi: alla temuta e decisamente esagerata islamizzazione dell'Occidente corrisponde, in modo assai più marcato, una parallela occidentalizzazione dell'islam, ossia una ridiscussione del proprio orizzonte religioso da parte di quelle comunità musulmane che si trovano a vivere in un'inedita condizione di minoranza. Sono proprio questi fenomeni che lo studioso Olivier Roy, esperto di geopolitica islamica e direttore di ricerca al Cnrs di Parigi, analizza nel libro Global Muslim. Le radici occidentali del nuovo islam» (Feltrinelli, pp. 180, € 15). La religione musulmana - questa è la tesi di fondo - è ormai parte integrante delle nostre società e ha sposato appieno, nel bene e nel male, molti aspetti caratteristici di quella globalizzazione che rappresenta il tratto distintivo dell'Occidente. Ecco quindi che l'islam occidentale diventa punto di riferimento per tutta la umma, per le giovani generazioni che usano internet e visitano i siti (in inglese) degli studenti musulmani delle università americane, leggono i libri dei teorici europei, guardano le televisioni arabe basate a Londra. Il rapporto che si viene a stabilire tra i due termini della contrapposizione è quindi molto più sfumato della comune dicotomia; più che di opposizione, bisogna parlare di profonda compenetrazione, in cui a partire dall'Occidente l'islam si globalizza, investe il vissuto quotidiano nei paesi di immigrazione e provvede anche a innescare interessanti fenomeni di feedback in quelli di origine.

Tale compenetrazione, tuttavia, non alimenta solo forme di pacifica ridiscussione identitaria e rielaborazione del proprio universo religioso, ma può finire anche per far germinare i semi più perversi dell'occidentalizzazione. Come sottolinea Roy, spesso si tende erroneamente a far coincidere automaticamente la globalizzazione con i suoi soli effetti benefici. E si ignora quindi che essa può generare mostri. Il rinnovato vigore assunto dalle organizzazioni terroristiche che si richiamano all'islam non sarebbe altro, nell'analisi dello studioso francese, che un sottoprodotto della nostra cultura: il neofondamentalismo islamico è nato e cresciuto in Occidente. Una convinzione che trova conferma nell'analisi degli avvenimenti più recenti: al di là del caso eclatante di Osama bin Laden, buona parte dei protagonisti degli attacchi terroristici degli ultimi tempi sono born again muslims; persone di diversa estrazione sociale che si sono avvicinate all'islam radicale e violento in Europa a partire da percorsi personalissimi di ribellismo. Mohammed Atta, l'egiziano capo del commando dell'11 settembre 2001, ha vissuto in Germania diversi anni prima di andarsi a schiantare contro il World Trade Center di New York; Richard Reid, l'anglo-giamaicano bloccato su un aereo della American airlines con le scarpe piene di esplosivo è nato a Londra; numerosi militanti «arabi afghani» ritrovati nelle grotte di Tora Bora e rinchiusi poi nelle gabbie di Guantanamo provengono dai paesi occidentali. Il militantismo di questi personaggi è frutto di una rottura, che è sociale più che religiosa; il loro nichilismo è il risultato di un disagio esistenziale che deriva principalmente dal loro sradicamento e li porta ad avvicinarsi al radicalismo islamico violento. Questi guerriglieri nomadi globali, che si richiamano a una comunità immaginaria e astratta di fedeli e vanno a combattere i loro personali jihad nelle zone più periferiche della umma, spesso non hanno alcuna esperienza di militanza religiosa o politica precedente.

Trattando la figura del jihadista nomade e restituendole la marginalità che ad essa compete, Roy riprende la tesi che già aveva enunciato nel 1992 nella sua opera pionieristica L'echec de l'islam politique. Lo studioso francese è convinto che l'islamismo come ideologia globale stia attraversando un periodo di sfaldamento o stemperamento progressivo. Sia dove sono stati repressi con la forza ed esclusi dal gioco politico (come in Tunisia, in Siria o in Algeria), sia dove hanno partecipato alla gestione della cosa pubblica, gli islamisti appaiono ormai privi di un reale progetto sociale o economico alternativo: si limitano a concentrare la loro attenzione in modo ossessivo su problemi di carattere esteriore - gli svaghi, il codice di abbigliamento femminile, la vendita di alcolici -, finendo per confondere cultura e buon costume. Una mancanza di prospettive che trova in qualche modo conferma nel fatto che quasi tutti i grandi movimenti che già si richiamavano ad una dimensione ampia (quella della umma) hanno ormai come punto di riferimento la loro singola area nazionale di appartenenza. Il caso più lampante di questa nazionalizzazione dell'islam è l'Iran sciita, che negli ultimi anni ha abbandonato le sue velleità di esportare la rivoluzione khomeinista e conduce una politica estera improntata al perseguimento e alla difesa dei propri interessi. Ma anche la situazione palestinese non fa che confermare questa tendenza: i partiti che si richiamano all'islam (Jihad, Hamas) a Gaza e nella West Bank non criticano la Anp per il suo laicismo, ma per i suoi compromessi con Israele.

Questa nazionalizzazione, rileva Roy, «va di pari passo con la rinuncia a un elemento chiave, cioè al monopolio della rappresentazione del momento religioso in quello politico, sostituito dall'accettazione di uno spazio politico autonomo rispetto alla religione». Da questo punto di vista, se è vero che a livello esteriore le società dei paesi musulmani si sono negli ultimi anni fortemente islamizzate, è pur vero che tale islamizzazione si è resa autonoma da qualsiasi progetto politico e si va sviluppando in uno spazio che in fondo è in contraddizione con il messaggio islamista.

Quello a cui stiamo assistendo è quindi un triplice movimento: l'islam globalizzato si nazionalizza, entra nella sfera del privato e abbandona le sue pretese di imporsi come sistema di riferimento politico. Certo, il confine tra pubblico e privato non è sempre ben definito, tanto che in diversi casi i poteri pubblici finiscono per farsi influenzare dai riferimenti religiosi - come è avvenuto di recente in Egitto, nella vicenda dei processi agli omossessuali - ma in generale il dato segna un irrevocabile retrocessione dell'islamismo. In quest'ottica, i neofondamentalisti violenti di al Qaeda, privi di ogni base sociale, sono solo un avamposto di sradicati che cercano di dare un senso alla propria esistenza.

Rimane da chiedersi cosa abbia mai provocato questa retrocessione e la privatizzazione della dimensione religiosa. Pur non affermandolo esplicitamente, Roy lascia intendere che l'elemento fondamentale sia stato proprio il passaggio dell'islam in Occidente, con tutte le conseguenze che esso ha comportato. «Non esiste una geostrategia dell'islam perché non esiste più né una terra d'islam né una comunità musulmana, ma solo una religione che insegna a disincarnarsi e delle popolazioni musulmane che negoziano le loro nuove identità, anche nel conflitto». Lo studioso non si spinge oltre; lascia al lettore trarre le proprie conclusioni. Ma sembra che, rispetto all'islamismo, l'espressione metaforica inglese «to go west» («morire» o «andare in rovina») appaia quanto mai appropriata.