il manifesto - 27 Maggio 2003
Una gabbia tranquilla
Bologna, delegazione di deputati nel cpt: gravi violazioni. Sedativi somministrati nel cibo?
SARA MENAFRA
BOLOGNA
«Non faccio niente tutto il giorno e bevo una media di 15 caffè, eppure ogni volta che mangio mi viene un sonno pazzesco, sia a pranzo che a cena. Mangio e vado a letto». Mohammed, 59 anni, in Italia dal 1983 per fare il muratore e detenuto del centro di permanenza temporanea di Bologna dal 10 maggio, ha raccontato i suoi sospetti a Katia Zanotti (ds), Paolo Cento (verdi) e Titti De Simone (prc), i deputati che ieri mattina sono tornati a visitare il cpt dove la notte dello scorso 2 marzo è avvenuto il pestaggio su cui sta indagando la procura petroniana. Insieme ai parlamentari c'era anche un medico, Marco Benni, che conferma l'ipotesi che agli ospiti del centro siano somministrate dosi di tranquillanti a loro insaputa: «Ho notato che tutti gli ospiti che abbiamo incontrato avevano una gestualità ridotta e parlavano in modo rallentato, come, appunto se fossero sotto sedativi». Già da tempo circolano testimonianze sull'uso di tranquillanti all'interno delle galere per immigrati spuntate in Italia dai tempi della legge Turco-Napolitano, ma nessuna ha mai trovato una conferma certa. Quello che è sicuro, invece, è che nel centro di Bologna i sedativi sono usati come unica cura per i tossicodipendenti che arrivano nella struttura, e che qui dentro non hanno diritto a terapie di disintossicazione a base di metadone, o con quelli che fanno atti di autolesionismo per protesta. Dei sessantasei detenuti presenti nella struttura ieri, quindici erano sotto cura di psicofarmaci.

Sono molti i punti che non quadrano nel centro di permanenza per immigrati di Bologna che dopo il pestaggio di due mesi fa a ripreso a funzionare come nulla fosse. Undici agenti di polizia, un carabiniere e il caposquadra della Croce Rossa sono accusati di aver torturato per tre ore gli ospiti della struttura, nove dei quali hanno sporto denuncia e raccontato nei dettagli un pestaggio che fa tremare la questura e spacca in due la città.

Qui, nelle parole dei dipendenti della Croce rossa in servizio ieri, quella notte è già diventata la «rivolta». E la denuncia di Mohammed è solo la prima che i parlamentari registrano durante la visita nella struttura. Un racconto timido, fatto alle dieci di mattina, quando la maggior parte dei 56 uomini detenuti nel centro dormono ancora quasi tutti. Poi passa qualche minuto, la voce si sparge ed ecco che dalle stanze da quattro letti inchiodati al pavimento, o dalla sala del caffè arrivano gruppetti di persone pronte a raccontare la loro storia. C'è Assan che ha una lesione al menisco e i legamenti rotti. In venti giorni di detenzione non è stato ancora portato in ospedale. «Lo sappiamo, abbiamo previsto una visita», ha risposto ai parlamentari il dottor D'Alessio, uno dei tredici medici che, a turno, lavorano nel centro grazie a una convenzione con la Croce rossa. Carmen, ecuadoriana che ha fatto la badante a Genova per due anni vorrebbe incontrare i parenti: «Lavorano tutti e quindi è inutile fare domanda tanto la domenica il centro di permanenza è chiuso alle visite», spiega. Anche Lahbibi, marocchino vorrebbe incontrare la sua ragazza, ma quelli della Croce rossa gli hanno spiegato che per ottenere una visita ci vuole circa un mese e solo i parenti hanno diritto a fare richiesta. La circolare del ministero che sancisce «i diritti e i doveri degli ospiti», (la 3450/50 del 30 agosto 2000), dice che al colloquio possono accedere tutti, anche gli amici, ma qui dentro nessuno lo sa, come nessuno sa che dentro al centro c'è un avvocato che dovrebbe essere a disposizione degli immigrati due volte a settimana.

La maggior parte dei detenuti il loro avvocato l'hanno visto solo quando erano già in aula davanti al giudice, al momento della convalida del fermo che dà il via ai due mesi di detenzione. Nemmeno un minuto per parlare delle possibilità di ottenere una sospensione o di chiedere asilo politico e via, il giudice conferma con un timbro e si torna dentro al cpt da dove è difficile fare qualunque cosa. L'unica possibilità di comunicazione con l'esterno è una scheda telefonica da cinque euro ogni dieci giorni, oppure le visite dei deputati come quella di ieri. Due minuti a testa per riassumere il proprio problema, segnare il numero di matricola e il nome su un foglietto e sperare che presto arrivino notizie certe.