il manifesto - 30 Aprile 2003
Lo stivale che guarda alla Mecca
Dalla Sicilia alla Valle d'Aosta, un lungo viaggio tra i musulmani in Italia. Uno spaccato su una realtà eterogenea e lontana dalla rappresentazione dominante di un insieme monolitico da tenere a debita distanza dopo l'11 settembre. «L'islam italiano» di Stefano Allievi edito da Einaudi
STEFANO LIBERTI
Elemento costante del vivere quotidiano di diversi paesi europei, l'islam si è ormai definitivamente imposto anche in Italia come seconda religione di riferimento. Un'evoluzione che, seppur meno evidente rispetto ad altre nazioni con una più consolidata tradizione di immigrazione, ha finito per segnare il paesaggio delle nostre città, tanto che ormai è diventato consueto imbattersi in moschee, luoghi di preghiera più o meno ufficiali, macellerie di carne halal. Eppure, nonostante la vicinanza e l'apparente visibilità, l'islam italiano continua a essere invisibile, poco noto, quasi estraneo. Una realtà a latere, per così dire, una presenza «altra», tollerata, ma per la quale si continua a nutrire diffidenza. Diffidenza che, dopo l'11 settembre 2001, non di rado è diventata islamofobia. Per molti l'islam rimane una sorta di monstrum teocratico, potenzialmente pervasivo e invasivo, da guardare con sospetto e frequentare il meno possibile. Implicita in questa visione allarmistica, sta l'idea che l'islam sia un unicum immutabile e monolitico e che pertanto anche i musulmani presenti nel nostro paese - immigrati, figli di immigrati o convertiti - siano tutti agenti di una sorta di internazionale islamica che avrebbe lanciato un jihad planetario contro l'occidente civilizzato. A questa discrasia tentano di opporsi solo alcuni valenti accademici, che si sforzano di studiare i fenomeni a partire dalla realtà, cercando cioè di analizzare sul campo quel cosiddetto «islam di carne» che i più misconoscono e pertanto temono e sfuggono. È in questa pratica di analisi e di studio che si colloca l'ultimo libro di Stefano Allievi (Islam italiano, Einaudi, € 13,50), sociologo dell'università di Padova che da anni dedica i suoi studi ai musulmani europei, analizzandone le consuetudini, i comportamenti, gli sviluppi e le contraddizioni.

Non si tratta di un'opera accademica in senso classico. È piuttosto, come giustamente rileva il suo sottotitolo, un «viaggio nella seconda religione del paese»; il frutto di una serie di peregrinazioni condotte da Allievi in giro per l'Italia, sommate a lunghe digressioni storiche il cui tema centrale è sempre lo stesso: lo scontro - o l'incontro - tra questi due mondi che la vulgata prevalente vuole ormai per forza e per natura contrapposti, l'islam e l'occidente.

Il risultato è una raccolta di piccole storie, una sequela di istantanee che vanno a comporre un mosaico variegato ed eterogeneo. Un insieme frammentario, che però proprio per questo rappresenta un'efficace fotografia del fenomeno studiato, giacché la stessa realtà dell'islam italiano è frastagliata, plurale e per lo più organizzata a livello locale. Si parte quindi dal sud, dalla Sicilia già araba e meticcia, e si risale attraverso lo stivale fino alla Valle d'Aosta, passando per le piccole sale di preghiera agricole della Calabria, per la realtà un po' sfrontata e picaresca dell'islam napoletano, per la monumentale e poco frequentata moschea di Roma, per il «cimitero maomettano» di Genova e per il Nord-est profondo, sempre oscillante tra le rozze pulsioni leghiste e le iniziative di apertura di un ceto imprenditoriale molto attento alla pace sociale e alla produttività degli operai.

Al di là degli aspetti più noti al grande pubblico (come le vicissitudini del centro islamico di Viale Jenner a Milano o la controversa figura di Bouriqui Bouchta, l'imam marocchino di Torino noto per le sue discutibili esternazioni), colpisce l'opera di scavo condotta dall'autore tra le maglie di un islam popolare meno conosciuto, spesso rurale, per lo più meridionale e comunque sempre marginale. Scopriamo quindi che il sud Italia è costellato di piccole sale di preghiera, o che in Puglia un facoltoso convertito italiano ha tentato invano di mettere in piedi una faraonica «cittadella del sapere musulmano» o che, ancora, le moschee di Napoli vengono di tanto in tanto frequentate da soldati statunitensi convertitisi al verbo di Allah.

Il tour lungo e ragionato di Allievi nell'Italia islamica fa però trasparire un'altra realtà: quella dell'immigrazione. Il confine tra i due ambiti - l'esperienza migratoria e l'identità religiosa - è labile: essi appaiono indistricabili, intrecciati, profondamente connaturati l'uno all'altro. Perché l'islam italiano, in effetti, è ancora legato prevalentemente alle ondate migratorie recenti ed è pertanto strutturato principalmente su base etnica o nazionale. Basta leggere tra le righe le cronache di Allievi per decriptare, dietro la descrizione dell'ampia e curata sala di preghiera messa in piedi dai braccianti marocchini di Villa Literno, la disgregata realtà di un'esistenza trascinata tra baracche fatiscenti prive di servizi e campi di pomodoro riarsi dal sole. O per scorgere, dietro al racconto dello sviluppo della comunità egiziana di Reggio Emilia, l'esperienza di un'«immigrazione riuscita», che ha saputo introiettare e utilizzare il modello inclusivo emiliano lanciandosi in attività imprenditoriali di un certo successo. O ancora per vedere, dietro la trama organizzativa della confraternita muride che gestisce di fatto l'immigrazione senegalese a Brescia, un formidabile strumento di «acclimatamento» dei nuovi immigrati alle mutate condizioni di vita nel paese straniero.

Sono storie diverse, il cui unico collante è la religione comune. Una religione che tuttavia si declina in forme così difformi da suscitare una domanda spontanea, che in qualche modo serpeggia continuamente tra le pagine del libro: si può, di fronte a tale varietà, parlare effettivamente di islam italiano?

A questo interrogativo in parte infido - giacché una risposta negativa implicherebbe una ridiscussione della categoria sociologica su cui ha basato buona parte dei suoi studi - l'autore non sembra sottrarsi. Allievi sottolinea infatti che «se la religione è certamente importante per definire un universo culturale, non è comunque l'elemento esclusivo e talvolta o forse anche spesso nemmeno il principale». Non tutti gli 800mila musulmani presenti nel nostro paese sono praticanti e, anzi, solo una parte assai minoritaria di loro frequenta assiduamente i luoghi di culto o si preoccupa di rispettare i precetti del Corano. Questa parte minoritaria, tuttavia, è tanto più interessante in quanto tende ad attuare, nel trovarsi in un'inedita situazione in cui l'islam non è fede dominante, un processo di rielaborazione del proprio vissuto religioso, del proprio «essere musulmano» che diventa anche strumento di definizione di un'identità in parte sospesa.

Un campo di riflessione, questo, di importanza cruciale, che fuori dall'Italia - e in particolare in Francia - è oggetto di accesi dibattiti e finisce a volte per assumere i tratti della questione di stato. Al di là di pochi studi ragionati - come ad esempio l'ottimo anche se ormai datato Les banlieues de l'islam, in cui lo studioso d'islam Gilles Kepel analizzava in modo pacato la riscoperta dei valori religiosi da parte dei giovani beurs - tale problema suscita infatti Oltralpe risposte per lo più allarmistiche, come mostrano le polemiche sull'hijab a scuola o sulla macellazione del montone in occasione della festa dell'aid al-kabir, che segna la fine del ramadan. Espressioni religiose che sono vissute come una vera e propria minaccia al carattere laico dello stato, e che pertanto vengono a priori osteggiate anche da una sinistra che erge a propria bandiera un modello repubblicano peraltro in crisi.



Allievi rifiuta questo approccio e sottolinea invece che in Europa e in Italia si sta delinenando un processo di indigenizzazione dell'islam; sta cioè affermandosi un modello autoctono dotato di caratteristiche specifiche assolutamente non in contrapposizione con la società con cui si trova a confrontarsi. Questo sviluppo, a cui ha dedicato in modo più strutturato un suo precedente studio (Musulmani d'Occidente, Carocci), riceve l'apporto decisivo delle cosiddette seconde generazioni, che in qualche modo reiventano la propria identità religiosa a partire dal contesto sociale in cui crescono. Si tratta di un processo lento e graduale, ma tuttavia ineluttabile, che nelle ottimistiche previsioni dello studioso finirà per modificare - in positivo - la visione generale dell'islam.

Quanto all'oggi, la percezione rimane distorta, giacché «troppo spesso analizziamo l'islam come se si trattasse di una fotografia, e non di un film. Lo osserviamo con gli occhiali che indossiamo al momento del primo impatto dell'immigrazione, e continuiamo a farlo con gli stessi occhiali, attraverso le stesse lenti, che con il passare del tempo diventano sempre più distorcenti». Con tono puntiglioso, Allievi ribadisce a più riprese la sua insofferenza per le banalizzazioni e gli isterismi che accompagnano ogni dibattito sui musulmani. Ma, d'altro canto, nulla concede alle espressioni più estreme dell'islam politico, che qualche adepto e qualche punto d'appoggio lo trovano anche dalle nostre parti («Il fondamentalismo esiste. Lo si sa. Lo si sente. Capita d'incontrarlo sulla propria strada. Diffonde un'atmosfera specifica»). Da questo punto di vista, tuttavia, il suo libro ha l'indubbio merito di restituire al radicalismo violento il posto che ad esso compete: l'idea - o l'ideologia - di una frangia marginale distaccata dal contesto delle comunità e composta di musulmani assai poco integrati nella realtà del paese che li ospita.