il manifesto - 07 Aprile 2003
Le mille identità arabe «sorprese» in uno scatto
Intervista con Akram Zaatari e Walid Raad della Fondation arabe pour l'image di Beirut. «Il mondo occidentale ha inserito la cultura musulmana in una iconografia del negativo e positivo. Noi vogliamo uscire da questa polarità che crea solo feticci»
MARINA SORBELLO
BERLINO
«Mapping Sitting», alla Haus der Kulturen der Welt di Berlino nell'ambito del festival DisORIENTation, è una mostra nella mostra che presenta in maniera anticonvenzionale fotografie tratte dall'archivio della Fondation Arabe pour l'Image con sede a Beirut (www.fai.org.lb). La Fai, nata nel 1997, si occupa di conservare e presentare sotto forma di progetti, rassegne e pubblicazioni produzione fotografica commerciale dei paesi arabi - Libano, Siria, Giordania, Egitto, Libia, Marocco, Iraq - dal XIX° secolo fino ad oggi. Ideatori e membri della Fai sono un gruppo di artisti che hanno avviato una riflessione sul mezzo fotografico e sulla nozione di identità mediata da quello strumento. Le immagini selezionate per l'archivio (che ormai conta oltre 50.000 pezzi) vengono presentate avendo cura di tenere ben a mente il contesto e le determinanti socio-culturali che hanno portato alla produzione di un dato tipo di immagini. «Mapping Sitting» è incentrata su ritratti e sul fenomeno della «fotografia a sorpresa» (surprise photography), ovvero la pratica di certi reporter di «appostarsi» in luoghi urbani centrali e ritrarre i passanti che, una volta avvertiti, possono poi acquistare le stampe di quegli scatti. L'esposizione si apre con due video che mostrano immagini «fantasmatiche» di passanti che si sovrappongono dando l'effetto di un flusso continuo di gente. Lo sfondo è quello di una nota piazza di Beirut; le immagini sono desunte dall'archivio di un fotografo che per anni scattò le stesse foto, dalla stessa angolatura, nella stessa piazza.

Akram Zaatari e Walid Raad della Fai hanno sortito e ordinato queste immagini di passanti sotto forma di un video che si snoda negli anni. In mostra, c'è anche una serie di ritratti in posa realizzate secondo i motivi della spiaggia, della nuotata, della seggiovia; e una monumentale installazione che consta di una archivio fotografico di fototessere che va dagli anni `20 fino ai `70. «Mapping Sitting» è una mostra itinerante e dopo essere stata a Bruxelles, Colonia e Berlino, verrà presentata ad Amsterdam. In Germania, abbiamo incontrato Akram Zataari, filmmaker e artista residente a Beirut, e Walid Raad, già alla Documenta XI, libanese residente a New York.

In «Mapping Sitting» risulta evidente che l'intenzione della Fai non sia semplicemente quella di presentare al pubblico delle fotografie «vintage».....

Akram Zaatari: Non essendo considerata «arte», la fotografia commerciale non viene ritenuta degna di essere conservata; ha valore solo per chi vi è ritratto. Quando un fotografo muore spesso il suo archivio va perso; noi invece pensiamo che valga la pena conservarlo perché ha un eccezionale valore storico. Il nostro scopo è quello di leggere queste immagini, di renderle fruibili, di riportarle in vita. Siamo interessati a conservare questa cultura visuale usandola in maniera contemporanea, per sviscerare quello che la fotografia ha da dire. Nella superficie, le immagini che collezioniamo possono avere similitudine con immagini occidentali, ma l'itinerario che il fotografo arabo compie per arrivare a queste immagini è differente, così come differenti sono le motivazioni e la committenza.

Artisti che riodinano un archivio...Che tipo di messaggio volete dare al pubblico?

Walid Raad: Al giorno d'oggi c'è molto interesse intorno alla questione degli archivi, da parte degli artisti ma anche dell'economia... Nel campo culturale c'è un'abbondanza informazioni, però separate dal contesto originale e rese disponibili senza legami con la storia che ha conferito loro significato. Sono disponibili come informazioni puramente «formali», consumabili. Quindi, il ruolo dell'artista non è semplicemente quello di collezionare le informazioni, piuttosto diventa quello di trovare il modo di editarle in una storia che abbia senso, con un'interfaccia appropriata per rendere evidenti i significati nascosti dietro le immagini, quelli che ne hanno determinato la produzione.... L'artista dunque come editor responsabile. Questa almeno è la nostra intenzione. Ci relazioniamo alla questione degli archivi ricercando un'interfaccia appropriata che li renda accessibili a tutti.

Si può spiegare meglio questo concetto?

AZ: Penso che come artisti, o come editors, quello che cerchiamo di fare è introdurre un ordine, incanalare certe cose. Alcuni visitatori possono reagire in maniera emozionale ma in nessun modo queste reazioni possono essere pilotate da noi. Noi forniamo una struttura in cui sono possibili le più diverse letture e altrettanti approcci.

Se si pensa al mondo arabo, bisogna purtroppo confrontarsi con una serie di stereotipi e di immagini negative. Come vi ponete nei loro confronti?

WR: Quando si parla di stereotipi, solitamente si affronta il dibattito sull'immagine negativa/positiva. Lo stereotipo è un'immagine in cui le persone non si riconoscono e allo stesso tempo è un'astrazione che finisce per rappresentare un certo gruppo. Anche se quella comunità non si ritrova affatto in quell'immagine. L'immagine degli arabi o dei musulmani, nel mondo occidentale e nel Nordamerica, oggi è quella di fanatici o terroristi, in cui la maggioranza degli arabi non si riconosce. La questione dei clichés dunque è centrata sulla questione del contrapporre a queste immagini negative una iconografia «positiva». Noi abbiamo una relazione problematica con tutti e due i tipi di immagini. Non crediamo che questo processo di stereotipizzazione funzioni a livello cosciente. Non pensiamo che quando si mostrano immagini positive, quelle negative vengano automaticamente cancellate. Siamo convinti che queste funzionino a livello dell'inconscio: è possibile produrre immagini per sfidare qualunque tipo di stereotipo? Non vogliamo entrare in questo dibattito perché ne riconosciamo i limiti: gli stereotipi resistono e vengono rafforzati dalle contrapposizioni.

Come pensate di riuscire ad «attivare» il pubblico?

AZ: Ci pensiamo ogni volta, è fondamentale nel nostro lavoro, fa parte dei nostri temi e quesiti: quale deve essere il compito della Fai? Deve essere dedicata alla produzione di immagini positive degli arabi, dal momento che l'iconografia del mondo arabo è così negativa? La risposta è no, almeno non in maniera programmatica. La nostra ricerca si basa su dati esistenti, sulle immagini e il loro contesto storico e socio-culturale, e sulla natura del lavoro del fotografo in relazione al suo ambiente.

Ma qual è la verità di un'immagine?

WR: Siamo assolutamente coscienti che in Europa e nel mondo arabo esiste un set di immagini dominanti che informano il modo in cui ciascuno entra nella mostra. Convinzioni dominanti a proposito di cosa vuole dire essere un arabo, musulmano ma anche di cosa significhi lavorare nella fotografia. La questione che ci siamo posti è: dobbiamo controbilanciare queste convinzioni? Abbiamo il dovere di produrre immagini contrarie? Noi abbiamo deciso di attenerci alla verità e vogliamo credere che ci saranno, nel pubblico, persone sufficientemente capaci di penetrare il lavoro nonostante le convinzioni e gli stereotipi che si portano dietro. Detto questo, siamo anche cauti con certe immagini. Ad esempio, da diverso tempo pensiamo di realizzare una mostra delle foto dei combattenti palestinesi nel sud del Libano che abbiamo in archivio, però ci rendiamo conto che l'effetto può risultare molto strano... A meno che non si trovi la giusta interfaccia: non è sufficiente mostrare le immagini, bisogna creare una base per una loro lettura generosa e non cadere nel banale o in visioni pregiudiziali.

Cosa dite a proposito del pericolo di estetizzazione delle immagini all'interno della mostra?

WR: Estetizzare qualcosa viene usualmente visto come l'opposto di storicizzare: storicizzare è specifico, estetizzare è forma in sé e per sé. Senza dubbio noi rifiutiamo questa divisione, dal momento che consideriamo l'estetica fondamentalmente storica e la storia fondamentalmente estetica. Per noi la forma comunica; vogliamo lasciar parlare le immagini, tenendo a mente che ci sono delle caratteristiche storiche, e che le concezioni della bellezza cambiano. Il pericolo secondo me non è l'estetizzazione ma la feticizzazione delle immagini, dal momento che queste possono sembrare esistere indipendentemente dai fattori che ne hanno determinato l'esistenza, la produzione e il consumo.

Un esempio?

WR: Le foto di spiaggia di El Madani. Queste immagini sono informate dalle richiesta del mercato, dei consumatori, da quello che le persone consideravano «bello» o l'artista stesso considerava «bello». La luce, i contrasti: queste sono le caratteristiche che parlano. Il pericolo sta nel mostrare queste immagini in contesti museali, dove la gente magari pensa che si tratti di chissà quale grande artista fotografo alle prese con chissà quale ricerca d'avanguardia... Quelle foto sono state realizzate su richiesta di una clientela. Da una parte vogliamo insistere sul fatto che questo fotografo era un artigiano; dall'altra, a differenza degli storici che magari nel guardare queste foto ne denigrerebbero la forma, vogliamo ricordare la dimensione estetica. Non è solo lavoro né soltanto estetica. Quello che sembra naturale è il risultato di decadi di pratica, che poi diventano senso comune del bello. Per El Madani, ad esempio, i canoni del bello provenivano dai manuali della Kodak, che suggerivano pose e tecniche. È una combinazione di fattori. Se enfatizziamo la forma, è per ricordare agli storici che non si tratta solo di lavoro a spese dell'estetica: l'estetica è anche storia.