il manifesto - 02 Aprile 2003
Il razzista della porta accanto
Discriminazioni quotidiane raccontate per posta alle associazioni italiane
RENATO DELLE CARTE
Teste rasate e svastiche tatuate, spranghe nascoste nell'auto pronte per il marocchino di turno, stavolta non c'entrano. E' invece un razzismo «di tutti i giorni», che resta sullo sfondo degli episodi più eclatanti e nel quale sfuma il confine con la normalità, quello che riemerge sotto forma di messaggi di posta elettronica inviati, alla media di tre a settimana, dagli immigrati di tutta Italia all'associazione torinese Rete d'urgenza e alla società romana Stranieri in Italia. Due realtà che da anni assistono legalmente gli extracomunitari e per farlo hanno arruolato anche l'e-mail. Così, senza far troppo rumore, gli immigrati entrano in un call-center o in un Internet-cafè e raccontano di gesti, parole, atteggiamenti sospettosi che la Rete d'urgenza definisce «non eclatanti, sfuggenti, che non evocano ideologie esplicite né comportamenti strutturati, ma una svalutazione dell'altro semplicemente in quanto straniero».

Una vaghezza parente stretta del «senso di maggiore impunità e dominio percepito dagli uomini italiani» di fronte a colf, badanti e persino mogli straniere, che secondo i dati 2002 di Telefono Rosa e Differenza donna stanno superando le italiane nelle statistiche delle donne maltrattate.

Storie come quella di una studentessa nigeriana a Milano: «Tutte le mattine prendo la metro e mi trovo osservata, spiata, scrutata e tutto finisce lì e penso: Sarà il colore della mia pelle? - ha scritto a Stranieri in Italia - a volte, però, gli sguardi non sono tutto: spesso ricevo insulti quasi ovunque». Parole come il «negro di merda» con cui ogni giorno il caporeparto di un grande magazzino di Rimini chiama un dipendente nigeriano, anche lui sfogatosi via Internet. Come hanno fatto due donne brasiliane che facevano acquisti in una profumeria di Roma: «alla cassa ci hanno per forza voluto perquisire le borsette, davanti a tutti». O come ha fatto Ester, colombiana, carnagione olivastra e un impiego in consolato. «Alzati, puttana, spostati», le ha detto un padre di famiglia salito a metà strada sul treno Milano-Torino, e lei ha proseguito in piedi, in lacrime. «Alla Polfer mi hanno consigliato di lasciar perdere». Già, «come mi ha detto un poliziotto, perché tanto non gli fanno niente ed è difficile da provare», ha scritto Ahmed, algerino a Verona con lavoro in regola. I genitori della sua ragazza italiana lo definiscono «sporco negro», il fratello di lei lo prende a pugni e «dimenticati di mia sorella».

La conferma è nel rapporto 2001 dell'Osservatorio europeo sul razzismo: «Non sono molti i progressi dell'Italia, le tendenze di fondo sono fenomeni come l'Islam-fobia e c'è ancora da rafforzare l'integrazione sociale degli immigrati». Del resto, «chi subisce un atto di razzismo spesso non sa a chi rivolgersi o non ha il coraggio di denunciare - dice Mascia Salvatore, consulente legale di Stranieri in Italia - senza sapere che le leggi italiane e comunitarie hanno spostato l'onere della prova sull'accusato e puniscono sia violenze fisiche che il rifiuto di beni o servizi, come capita a chi ci segnala il rifiuto d'un affitto o un impiego anche se ha tutto in regola». Ad alimentare e sfruttare al tempo stesso questo «razzismo del prossimo tuo», pensa la comunicazione politica della destra facendo leva sull'equazione tra clandestino e delinquente. Presentando, il 4 febbraio, il Rapporto sulla Sicurezza nella Regione che governa, Francesco Storace ha messo in rilievo un dato su tutti: «Un arrestato su due, nel Lazio, è un immigrato, è sconcertante», s'è stupito. Dimenticando di precisare che succede per reati minori, mentre alla metà italiana resta il monopolio dei reati più gravi. Compresi i pestaggi del «negro» di turno.