il manifesto - 16 Gennaio 2003
MIGRANTI
Modello unico mediterraneo
Partenze di «nazionali» e arrivi di stranieri. Parla Enrico Pugliese
ASTRIT DAKLI
Presentata al grande pubblico due giorni fa, la ricerca sulla «nuova» emigrazione italiana condotta da Enrico Pugliese per conto del Cnr ha avuto grandissima risonanza sui media: tanto che lo stesso Pugliese se ne mostra in qualche modo stupito. «Diciamo che i media hanno recepito in modo fin troppo eclatante il contenuto di questo lavoro - cioè dei dati che possono essere eclatanti soltanto per i distratti, essendo tutti ampiamente noti. Per parte mia volevo solo richiamare l'attenzione su una realtà che esiste anche se non ci si bada; anche se le dimensioni assolute del fenomeno - l'emigrazione netta dal Sud di settecentomila persone nel decennio tra i due ultimi censimenti - restano tutto sommato modeste».

Allora in cosa consiste la novità?

La novità è che dal `95-96 c'è un effettivo e costante incremento del flusso migratorio dal Sud al Nord: mentre prima il numero dei partenti era più o meno pareggiato da quello dei rientri, negli ultimi anni le partenze diventano il doppio dei rientri - e ovviamente si tratta di persone molto diverse.

Nello stesso periodo però cresce molto anche l'immigrazione in Italia dall'estero, segno di vivacità del mercato del lavoro... Come mai?

Avviene lo stesso fenomeno in tutta l'Europa mediterranea. Il mercato del lavoro è segmentato, l'offerta non corrisponde alla domanda in tutti i posti. Nel Sud c'è un'offerta di lavoro giovanile a media e alta qualificazione, e una richiesta di lavoro molto diversa, orientata soprattutto verso lavori precari e saltuari, o i servizi domestici e di assistenza alle persone.

La situazione è davvero la stessa anche in Spagna, Portogallo o Grecia, gli altri paesi europei di tradizionale emigrazione?

Sì, la segmentazione del mercato del lavoro è assolutamente analoga, e analoga è dunque la capacità di assorbire immigrati verso posti di lavoro non industriali, non direttamente produttivi, senza garantire impiego ai giovani «indigeni». E' proprio un «modello mediterraneo» abbastanza preciso - rispetto al quale casomai è proprio l'Italia a distaccarsi un po', per la presenza al nord di una situazione diversa, che vede l'impiego di immigrati anche nella produzione industriale. Un modello che risente della debolezza del welfare state, dei servizi sociali e delle stesse strutture familiari in questi paesi - cui corrisponde una supplenza fornita dal mercato attraverso l'immigrazione, guidata dalle donne e contrastata da leggi molto rigide ma sistematicamente violate.

Torniamo ai nostri settecentomila meridionali. Chi sono? è un'emigrazione «di successo»?

In parte sì, c'è una forte componente «borghese»: chi è sveglio, ha soldi e parte da Catanzaro per andare alla Bocconi, è difficile che poi torni a Catanzaro a lavorare. Ma questa componente c'è sempre stata, in alcuni periodi era l'unica forma di emigrazione, cui si contrapponevano i rientri, da Nord a Sud, degli operai pensionati. La novità è che comincia - ricomincia - ad esserci, accanto a questa, un'emigrazione «proletaria», molto più simile a quella di trenta o quarant'anni fa: giovani che vanno a lavorare in ogni modo, anche a un livello molto più basso di quello della propria scolarizzazione. E questi nuovi migranti si vedono poco nei numeri, nelle statistiche: si vedono di più nei treni intercity a lunga percorrenza, in seconda classe. Vanno a lavorare per dei periodi, nel settore alberghiero o in quello industriale, e raramente cancellano la propria residenza anagrafica nei comuni di provenienza.

Il discorso dei due livelli vale anche per quella parte di emigranti che va all'estero?

Certamente. C'è la giovane coreografa che trova il «suo» lavoro a Berlino o a Londra, ma c'è anche il ragazzo che a Londra o a Berlino va a lavorare in modo precario nella pizzeria dello zio o nei cantieri edili, magari solo per un periodo... I numeri però non sono grandi, a stento compensano i rientri dei pensionati.

Esiste anche un flusso migratorio verso altre aree geografiche, come l'America latina?

No. In queste aree esistono consistenti comunità di emigrati italiani, ma non si può parlare di un flusso in atto. E comunque voglio sottolineare un dato importante: il grosso dei 3,5-4 milioni di italiani all'estero, intesi come «cittadini italiani» (è di questi che si parla quando per esempio si discute sul diritto di voto) sono nell'Europa comunitaria; solo in Argentina c'è una comunità consistente di cittadini, paragonabile alle comunità esistenti in Germania o in Francia. Tutt'altra cosa sono le persone «di origine italiana», numerose soprattutto nelle due Americhe. Sono molte di più - forse anche 50-60 milioni - ma dal punto di vista politico non possono contare.

L'emigrazione tradizionale degli italiani all'estero si accompagnava spesso, fino a 30-40 anni fa, a condizioni estremamente dure nei luoghi d'arrivo - vedi il libro di Gian Antonio Stella, «Quando gli albanesi eravamo noi». Oggi è tutto diverso?

Sì - e devo dire che è diverso anche per gli immigrati che arrivano da noi. Chi emigra dall'Italia, quasi sempre verso un altro paese europeo, lo fa in condizioni «protette» come mai in passato. L'avventura pericolosa non c'è più.

La tua ricerca rivela anche dei dati sulla formazione di famiglie «miste» da parte dei meridionali che emigrano verso il Nord o l'estero?

La ricerca non ha affrontato questo aspetto, ma direi che è molto più rilevante il fenomeno della formazione di famiglie miste in Italia, da parte di immigrati stranieri. Su stiamo conducendo una nuova ricerca.