il manifesto - 25 Settembre 2002
I servi della legge
Legare il permesso di soggiorno al contratto di lavoro scontenta gli imprenditori e feudalizza il rapporto tra lavoratore e padrone, concedendogli la possibilità di ogni arbitrio e ricatto. Si continua a non riconoscere il diritto all'uguaglianza tra lavoratori, il diritto a un «progetto migratorio» di chi sceglie di lasciare il proprio paese per cercare condizioni di vita migliori, o semplicemente accettabili
DINO GRECO
L'estemporanea tentazione del governo di limitare la regolarizzazione degli immigrati a chi può vantare un'assunzione a tempo indeterminato è riuscita a fare arrabbiare anche gli imprenditori e le loro associazioni. In effetti la contraddizione ha del grandioso. Perché la misura - poi revocata per eccesso di insipienza - viene sostenuta proprio mentre il governo promuove il più imponente processo di precarizzazione del lavoro degli ultimi trent'anni. Inutilmente il ministro del Lavoro si è affannato a spiegare che la misura non sarebbe servita ad incentivare il posto fisso, ma soltanto a contenere le regolarizzazioni e a mascherare un'estesa sanatoria. Altrettanto inutilmente il presidente del Consiglio gli è venuto in soccorso rivelando che il trucco stava nell'assumere a tempo indeterminato per poi licenziare a piacimento: tanto sotto i 16 dipendenti lo statuto dei lavoratori non si applica... All'uno e all'altro hanno replicato a muso duro gli industriali, ricordando che essi hanno bisogno (e hanno in parte già in forza, in «nero») di un esercito di manovali, di stagionali, insomma: di lavoratori a termine. Questa volta, giochi di prestigio e bugie non faranno quadrare il cerchio. Questa volta, l'ossessione razzista hanno giocato un brutto scherzo al governo che rischia di deludere anche le accorate richieste degli imprenditori del nord e di alimentare nuova clandestinità, lavoro nero, disgregazione sociale. Così, l'identificazione del nemico con lo straniero si ritorce inesorabilmente contro chi ne ha propagato l'ideologia, fomentando e cavalcando le pulsioni e i peggiori istinti da tempo in incubazione in un corpo sociale confuso e arroccato su se stesso.

In un convegno del maggio scorso, l'Associazione industriale bresciana ha presentato una ricerca sul mercato del lavoro condotta fra un esteso campione di imprese locali. Ne risulta - per effetto di un costante decremento demografico - una domanda di lavoro cronicamente superiore all'offerta disponibile. In sostanza, mancano braccia. La conclusione delle aziende è lapidaria: è indispensabile aprire le porte all'immigrazione.

Si tratta di considerazioni ovvie, dettate dal mero istinto di sopravvivenza dell'imprenditore bresciano. Considerazioni che, tuttavia, gettano nel panico quelle forze politiche che tanto hanno investito e tanti consensi elettorali hanno mietuto soffiando nelle vele delle fobie etniche, alimentando paure irrazionali, scatenando campagne repressive ed ora generando una legge, la «Bossi-Fini», che è un impasto vessatorio, intriso di inefficacia, incoerenza, ipocrisia.

E' più radicata di quanto non si pensi la convinzione che i migranti possono venire in questo paese se, in quanto e fin quando servono a noi; se e perché devono supplire alla denatalità che ci affligge; se e perché devono coprire posti resi vacanti da un'insufficiente offerta di lavoro specializzata (ad esempio, gli infermieri); o per svolgere mansioni pesanti, nocive e indesiderate nell'industria manifatturiera, nell'agricoltura, nell'edilizia. Non vi è nessun riconoscimento del diritto all'immigrazione, della legittimità del progetto migratorio che spinge una persona a cercare per se stessa, una chance, un'opportunità di riscatto o, semplicemente, di fuga dall'oppressione o da un destino senza speranza.

E' storia vecchia, che si ripete. Se il migrante approda da queste parti lo aspetterà un destino di discriminazione. Perché ciò che non gli si riconosce è in realtà l'uguaglianza. Si rifletta sull'insistenza con cui il governo ribadisce che la regolarizzazione è un atto che «emana» da datore di lavoro e non può, in nessun modo, essere attivato dal migrante. E' il primo ad essere depositario di un diritto, non il secondo.

Qual è il senso di questa disposizione? Due immigrati, poniamo, si trovano in un'identica condizione di illegalità: lavorano in nero, da clandestini quali sono. Uno di essi viene regolarizzato, in quanto il suo datore di lavoro giudica utile e giusto e opportuno procedere in tal senso; l'altro invece no, perché il padrone che ne ha sino ad ora sfruttato il lavoro lo ha fatto unicamente per speculare sul basso salario retribuitogli e sulla totale elusione dei doveri contributivi. Il gioco, insomma, valeva solo finché l'immigrato poteva essere spremuto come un limone, non oltre, non comunque in condizioni di legalità. Il primo immigrato avrà il permesso di soggiorno, il secondo no. Al diritto eguale si sostituisce l'arbitrio del padrone-signore: una sorta di restaurazione del diritto medioevale.

Un altro esempio. Temo che sia ancora largamente sottovalutato l'effetto combinato di due provvedimenti apparentemente privi di interno collegamento. L'uno: l'introduzione del «contratto di soggiorno», che subordina l'ingresso in Italia dello straniero al contratto di lavoro, che trasforma il licenziamento in un foglio di via e che elimina la figura dello sponsor; l'altro: l'abolizione del divieto di interposizione di manodopera, frutto di una legge del 1960 e fino a ieri considerato dal nostro codice un reato, oggi miracolosamente trasformato in attività lecita e meritoria, estesa alle società di fornitura di lavoro temporaneo, vale a dire in affitto.

Non è fantasioso immaginare cosa accadrà: le agenzie di lavoro interinale si specializzeranno nel selezionare, direttamente nei paesi d'origine, la manodopera necessaria alle imprese italiane committenti. Li, sul posto, lucrando un canone interpositorio, gli intermediari (ma non si chiamavano caporali?) opereranno con scrupolo certosino, detteranno modalità e condizioni di ingaggio, organizzeranno l'esodo mirato alla bisogna (ma non si chiamava tratta?), secondo contingenti stabiliti. Gli immigrati saranno così «stoccati» presso le aziende destinatarie. Qui giunti, c'è da crederlo, essi staranno disciplinatamente ai patti e si adegueranno ad ogni condizione imposta, in barba a qualsivoglia vincolo formale, perché sottrarvisi potrebbe comportare il licenziamento e, con esso, non solo la perdita del lavoro, ma anche del diritto a restare in Italia.

Dunque arriveranno da noi legalmente, giovane forza-lavoro che non abbiamo dovuto allevare, nutrire, istruire, pronta senza riserve a svolgere il lavoro che passa il convento. Una volta consumate le loro energie vitali, una volta usati secondo necessità si potrà licenziarli e, dunque, automaticamente rispedirli a casa, senza neppure permettere il riscatto dei contributi, se non al raggiungimento dei 65 anni di età, in paesi dove l'attesa di vita media si colloca spesso al di sotto di quella soglia. La soggezione al ricatto li renderà docili, diffidenti del contatto con i lavoratori italiani dei quali rischieranno di suscitare l'ostilità.

Ecco l'ultimo frutto velenoso di queste leggi: il dumping di manodopera, la riduzione del migrante a servo e a strumento di ricatto nei confronti dei lavoratori più tutelati, sindacalizzati, cui si farà capire che vi è chi è disposto a sostituirli, ovviamente, a condizioni peggiori.

Sappiamo bene quali reticenze e opportunismi abbiano impedito al centrosinistra di affrontare con saggezza il tema complesso dell'immigrazione e quanto la sciagurata equazione immigrazione=delinquenza sia stata subita, piuttosto che contrastata, per timore di contraccolpi elettorali. Così, oggi, Bossi e soci stanno smontando un altro pezzo della Costituzione, catapultando nella nostra legislazione il lavoro servile e l'apartheid. Reagire in modo efficace comporta, innanzitutto, che di ciò si prenda piena consapevolezza.

Cosa fare? La sanatoria in corso è stata sospinta dall'esigenza di incassare le prestazioni di colf e badanti, immigrate in massa in Italia, prevalentemente dai paesi dell'est e divenute insostituibili nel lavoro di cura degli anziani e dei malati. La regolarizzazione normata, tuttavia, non soltanto finisce per scaricare il costo sugli immigrati ma, non prevedendo alcun sussidio alle famiglie, produce un aggravio di oneri (fra retribuzione e contributi) difficilmente sostenibile e la frequente rescissione del rapporto di lavoro: il danno più la beffa.

La soluzione consiste nel prevedere un contributo a vantaggio delle famiglie a basso reddito che ricorrono alla prestazione domiciliare di una badante, tale da permettere il perfezionamento del rapporto di lavoro, il mantenimento di uno standard di assistenza elevato e, persino, un risparmio nella spesa pubblica per finanziare la proliferazione di case di riposo e di ricoveri che non di rado assomigliano a fatiscenti gerontocomi. Questa è anche la strada che può sottrarre tante donne alla sequenza impressionante di prepotenze, umiliazioni, quando non di sordidi ricatti cui le costringe l'attuale condizione di semischiavitù. E che può spezzare la catena che le lega alle prosperanti mafie straniere e nostrane.

Più in generale, si tratta di impedire che il rapporto fra domanda e offerta di lavoro immigrato sia frutto dell'intermediazione selvaggia di agenzie senza scrupoli - sottratte a qualsivoglia pur labile controllo - che nei paesi del mediterraneo gestiscono la tratta degli uomini e delle donne. Per darsi qualche possibilità è necessario agire su tre terreni: - imporre alle società di fornitura di lavoro di rendere disponibili le informazioni relative agli immigrati «reclutati» e alle aziende cui essi sono destinati, con controlli esercitati a monte e a valle dell'assunzione; -sostituire il periodico, inevitabile ricorso alle sanatorie con un meccanismo che renda automatica la regolarizzazione di un immigrato quando sia in condizione di dimostrare, anche ricorrendo alla denuncia, di avere o di avere avuto nel passato un rapporto di lavoro in nero. Impegnare una battaglia politica per la reintroduzione dello «sponsor» nella legislazione sull'immigrazione, non essendo in alcun modo accettabile che la condizione anche provvisoria di disoccupato (eventualità tutt'altro che remota per tante persone) determini la ricaduta nell'illegalità.

Il fondamentale diritto ad un'abitazione dignitosa è oggi palesemente negato. La fuga dalle proprie responsabilità di pubblici poteri e imprenditori è pressoché totale, salvo qualche meritoria, ma isolatissima esperienza. Ne escono trionfalmente gratificati gli speculatori, proprietari di case fatiscenti, che affittano giacigli, spesso «a notte» e a «turno», a prezzi da usura.

Eppure, la soluzione virtuosa non è fuori portata. Recuperare le aree industriali dismesse, attivare consorzi di imprese che edifichino in aree di proprietà imprenditoriale case dignitose per la prima accoglienza, da affittare a canoni calmierati e a tempo definito, fintanto che non si trovi una sistemazione definitiva, fuori da ogni logica di ghettizzazione. Ne trarrebbe impulso anche l'occupazione, trainata da un settore, l'edilizia, che funge da volano dell'economia. Infine, bisogna dare battaglia per sancire il diritto di voto degli immigrati stabilmente presenti in Italia alle elezioni amministrative. Questo dev'essere per noi un punto d'onore, non un intermittente lamento, flebilmente sussurrato per non urtare la suscettibilità e gli istinti forcaioli che si sanno forti e radicati nel ventre molle della società.

Insomma: un po' di lungimiranza politica, un'idea non usuraria dei rapporti sociali, un intervento pubblico di impronta keynesiana, una cultura democratica non dimentica dell'imprinting egualitario della Costituzione.

Basterebbe questo. Basterebbe, nel tempo in cui ha libero corso la paccottiglia leghista, dai celti al Piave, passando per Alberto da Giussano.