il manifesto - 25 Agosto 2002
Tesori d'Egitto
«Silenzio... si gira», l'ultimo film di Yussef Chahine esce in Italia
R.S.
La nuova casa di distribuzione Lady Film lancia sul mercato (a Roma all'Eden) l'egiziano Silenzio...si gira. È già una bella notizia, visto il provincialismo professionista che cancella dal visibile ogni «alienità». Poi la pellicola è bella, divertente e fa a pistolettate con la parte peggiore del pubblico. Ed è diretta da un mito registico, Yussef Chahine (lanciò Omar Sharif, e ottenne da Dalidà la performance più folgorante), il cui episodio sull'11 settembre sta scatenando polemiche (perché non inneggia a Sharon) e che l'Italia conosce solo per la biografia del `60, Saladino, e per il recente Il destino, sul contributo arabo alla nascita, nel XIII secolo, di una Europa umanistica, antifondamentalista e laica. Silenzio...si gira in prima mondiale alla Mostra di Venezia 2001, l'ultimo Chahine (e sono ormai una cinquantina), provocò due standing ovation per il grande vecchio della «nuova onda araba», l'Orson Welles smilzo di Alessandria d'Egitto, il Nanni Moretti epicureo di Cairowood (per come viene trattato anche lui dai ministri e dai reggiborse). Cinema «impegnato» (anche a far divertire) il suo, mai didattico e sempre girato «in prima persona singolare». Qui siamo di fronte a una commedia «pazza» e sofisticata, quasi un omaggio a Goldoni e alla sua star, la cantante e attrice Latifa. Musica, danza, melodie struggenti, fantasmagorie degne di Kleiser e Berkeley, omaggi a Om Kalthoun, Mafouz e agli altri grandi dello spettacolo egiziano anni 30-50 in un «film sul cinema» di certo ricco di notazioni e passioni autobiografiche, e di un mestiere alla Monicelli per la ritmica delle emozioni. Titolo cameriniano, stessa astuzia nello stuzzicare il Mubarak mood come i telefoni bianchi fecero col Duce, Silenzio... si gira racconta l'amor fou di una superdiva straricca, Malak, per un «latin lover» arrivista e finto biondo dei quartieri poveri, Lamei. Che la sa conquistare nel momento giusto, la notte stessa del divorzio di lei. Lui vorrebbe cantare e recitare, e in realtà sarà l'idolo metal dei teppistelli della periferia del Cairo, ma lei, alessandrina puro sangue (come Chahine) mette a repentaglio la carriera per permetterglielo, mentre chi la ama davvero, il fedele sceneggiatore, e chi l'ha resa celebre, il coscienzioso regista, assistono impotenti alla sua carriera pericolante... Dentro questo canovaccio, come un serpentone, si avvinghia un contro plot anticonvenzionale: la figlia di Malak, Paula (una Rubi che tratta la gestualità facciale come Sid Vicious quella sonora) smaschererà il bellimbusto, non senza prima aver sofferto, lei ricca e desiderata, le stesse pene d'amore per il suo giovane autista, laureando in legge, militante rivoluzionario di nome Nasser, che non la sposerà prima di diventare, almeno un professorone economicamente indipendente. I loro duetti sono raddoppiati dai battibecchi del padre di lui (che contro tutte le aspettite non vuole affatto quel matrimonio) e della nonna jerrylewisiana di lei (miliardaria eccentrica all'inglese) che danno al film ricchezza di dettagli, umorismo e leggerezza del tocco l'esatto contrario dell'evasione complice di regime. Anzi il film è provocatoriamente provocante, tra beach-movies e marxismo alla James Odgen Stewart, sceneggiatore hollywoodiano maccartizzato: «Il comunismo per me? La possibilità per tutti di entrare nel mio club esclusivo».