il manifesto - 26 Marzo 2002

A Occidente, verso la Mecca
Il mondo globale segna la fine di quella falsa simmetria che, per secoli, ha messo a confronto come entità separate l'islam e l'occidente
MARIO NORDIO
La storia del Vecchio Continente, eurasiatico e mediterraneo, non è leggibile a prescindere dagli scambi fra le culture innervate nell'ebraismo, nel cristianesimo e nell'islam. Non lo è la storia della scienza, delle idee, delle religioni, dell'arte, della filosofia oltre che, naturalmente, la storia dei conflitti. Quando un piccolo lume si accende su di esse, illumina molto spesso un aspetto che riguarda tutti noi, distribuiti e acculturati in Eurasia, con maturazioni, fortune e sfortune, vittorie e sconfitte. Il rapporto fra «islam» e «occidente» è descrivibile solo se inscritto in questa evidenza. Ma i termini del rapporto portano un carico di ambiguità e asimmetria: è religioso il primo, è una generica metafora geografica il secondo. Quando «islam» e «occidente» sono messi a confronto come entità separate, conflittuali e persino dialoganti, avvertiamo così una sorta di disagio. Possiamo rifiutare, ad esempio, l'esotismo dell'altra metafora che qualifica alcuni studiosi come «orientalisti», ma ci diventa difficile accettare il corrispondente esotismo che ci vincola ai luoghi del tramonto. Il disagio è forse più acuto quando si affrontano questioni inerenti la contemporaneità e la travagliata quotidianità. Esse ci spingono a cercare altri incardinamenti e altre categorie per fondare il dialogo quanto per interpretare i conflitti. E una ricerca può contribuire al recupero degli intrecci culturali: potrebbero riemergere in modo più chiaro e meno equivoco. Quanto scriverò tenta di andare in questa direzione. Non è un'operazione di demistificazione degli stereotipi che mi sembrano più un effetto dell'arresto della conoscenza che demoni della psiche e della memoria, passaggi dai quali non farsi ingannare. Niente di più. Lo stereotipo di un dio che ritorna ha fatto la sfortuna degli indiani d'America, quello dell'infedele permise ai crociati il massacro dei cristiani orientali. Ebrei e armeni del XX secolo pagarono caro lo stereotipo nazionalista, ai coevi europei (tedeschi, ma non solo) lo stereotipo dell'ebreo portò la maggiore catastrofe del XX secolo. I compagni di bin-Laden hanno reso stereotipo la compagnia del Profeta e chiuso gli occhi di fronte alla grandezza dell'islam e alla misericordia del Signore, non di meno né di più di quanto abbiano fatto altri nel caso di Catari, Albigesi e Bogomili. Mi occuperò, invece, di cose, persone e ambienti, iniziando con due constatazioni.

La prima riguarda la conoscenza dell'islam da parte di chi musulmano non è e, per converso, del cristianesimo da parte di chi è musulmano. Mi pare che queste siano assolutamente approssimative. Forse esiste qualche conoscenza maggiore del cristianesimo attuale da parte dei musulmani, ma mi sembra arrestarsi di fronte alla storia del cristianesimo e, tranne rari casi accademici, alle sue lingue tradizionali. C'è un'assoluta simmetria per quanto riguarda l'arabo, lingua dell'islam e di una parte minoritaria dei musulmani di oggi. Con una differenza, non da poco: fra chi non è musulmano c'è, in generale, la percezione che la lingua dell'islam è l'arabo, al punto di confondere arabi e musulmani. Questa constatazione predispone già il campo per un prima affermazione. Nessun dialogo, quali ne siano i soggetti, è possibile a prescindere da un maggiore e più corretto riconoscimento nella storia, che non può essere ridotta alle sue frazioni coloniali o crociate. La storia, con la sua intrinseca umiltà (alla Braudel), emerge come una categoria imprescindibile dei riconoscimenti, che non possono essere meta-storicici o solo ideologici o religiosi o politici.

La seconda constatazione discende dalla prima. I musulmani conoscono i cristiani (e viceversa) molto più di quanto non conoscano i rispettivi percorsi culturali: non conosciamo l'islam o il cristianesimo, ma abbiamo esperienza di musulmani e cristiani in vari ambienti, culturali, economici e sociali, nelle loro competizioni e collaborazioni. L'apparente banalità dell'assunto va integrata: il limite della nostra esperienza non può impedirci di considerare che nessun modello corrisponde agli ambienti con i quali entriamo in rapporto. I musulmani che incontro appartengono ad un contesto che è, certo, quello della umma, ma è anche mondiale. Non sono risolvibili nella comunità di fede più di quanto non lo sia chiunque altro.

L'assoluto rispetto per l'unicità della fede dei musulmani e per l'unità della comunità islamica non può far velo sul fatto che quello mondiale (o globale, se, nonostante i carichi ideologici del termine, si ritiene di poterlo accettare) non è solo un contesto ma una nuova condizione d'essere che, da oltre cinquant'anni, segna quella comunità come tutte le altre.

E' mutato un dato di fondo. Per due secoli, da quando l'Orient (di napoleonica memoria) si presentò nel porto di Alessandria, il mondo guardò l'islam con occhi europei e l'islam considerò il mondo guardandolo in quanto «occidente». Oggi questa falsa simmetria non c'è più. Ed è un bene. I musulmani possono e devono guardare il mondo dai quattro punti cardinali e possono e devono esser considerati dagli stessi quattro punti. Il discorso islam/occidente mostra così il suo limite.

Tenterò, allora, di circoscrivere alcuni ambienti relativi all'islam e tracciare almeno alcune linee in favore di un approccio globale alle identità culturali e religiose.

Il primo ambiente è la malattia e la morte. Nell'approccio culturale al problema della prevenzione e della cura nell'ambito della sieropositività e dell'Aids non esiste un modo occidentale e un modo islamico. L'islam, le sue istituzioni e i musulmani non hanno verso la sieropositività e l'Aids, la prevenzione e le terapie relative, un atteggiamento ambivalente (accettazione/rifiuto) ma polivalente. Esso dipende da fattori dottrinali e pratici, fra i quali campeggia anche l'area culturale di appartenenza. La ricerca di alcune risposte di merito nel Corano e nella Tradizione può fornire, certo, indicazioni diverse dalle domande sociali. L'appello all'ortoprassi stessa e una fiducia nell'assoluta terapeuticità di un comportamento sessuale corretto, però, possono convivere e convivono con approcci molto aperti verso la prevenzione e la terapia. Un seminario regionale tenutosi al Cairo nel 2000 sull'approccio culturale alla prevenzione e cura dell'Aids/Hiv e sullo sviluppo sostenibile degli Stati arabi e africani, a cura del Institute of National Planning dimostra che la linea islamica può avere due svolgimenti che non sono collocabili pregiudizialmente nel settore pubblico o in quello privato o dipendenti dalla maggiore o minore rigidità dei principi. In quella sede esperti, astrattamente «laici», insistevano sul collegamento fra malattia e corruzione dei costumi, allontanamento dagli insegnamenti religiosi e adulterio. Esperti dell'Università di al-Azhar si dividevano: uno invitava a non spendere soldi per le perversioni altrui, un altro, in una linea di assoluta ortoprassi, proponeva di far leva sui comportamenti tradizionali che possono incrociare le pratiche preventive. Stupisce dover riscontrare in un religioso copto opinioni molto simili a quelle islamiche meno disponibili e, nei volantini della Caritas locale, indicazioni sull'uso del preservativo.

Di fronte ad un problema di grande spessore morale, emozionale e terapeutico, i musulmani d'Egitto, mostrano, reazioni che non sono diverse dai loro conterranei non-musulmani ma anche da quelle che si hanno in altri contesti con altra prevalenza culturale.

Uscendo dal contesto della malattia e della morte, se consideriamo i musulmani che stanno in Europa, troviamo una situazione altrettanto significativa ai nostri effetti. Sappiamo, innanzitutto, che fino ad oggi la produzione giuridica islamica è originata da istituzioni del dar al-Islam (terra dell'Islam), che sono punti di riferimento nelle questioni di fede e di prassi, ma non nel dar al-harb (mondo della guerra), come viene tradizionalmente definito il mondo esterno all'islam. I musulmani presenti in Europa faticano perciò a trovare guide autorevoli anche in presenza di moschee o centri islamici.

Lo sforzo dei centri tradizionali, come al-Azhar e altri, sauditi o magrebini, per formare personale di questo tipo è poco confortato dai risultati perché la complessa realtà europea è qualitativamente diversa da quella di qualunque paese arabo. Ma la scienza giuridica islamica deve farvi fronte, ne va dell'ortoprassi del musulmano in società non-islamiche. Si tratta di un adeguamento che la Tradizione non solo ammette ma impone. Già dal IX secolo si affermò che alcune regole di vita adatte a Bagdad potevano non esserlo al Cairo. Il radicamento sempre maggiore della presenza musulmana in Europa ha posto questi nuovi problemi. La presenza in Francia, ad esempio, di un numero molto esiguo (sotto la decina) di ulama di cittadinanza francese di fronte a una stragrande maggioranza di ulama di cittadinanza vicino-orientale o africana, pone problemi di ortoprassi ma anche politici. Nondimeno, la formazione di esperti in scienze religiose islamici che conoscano bene la cultura e la società europea è iniziata, tanto in Francia quanto in Gran Bretagna. L'istituto francese Iesh (Institut Européen des Sciences Humaines) di Chateau-Chinon, ad esempio, richiede all'atto dell'iscrizione la residenza obbligatoria in Europa e una conoscenza approfondita della lingua araba. Si tratta di una iniziativa conservatrice e riformista. L'intellettuale svizzero Tariq Ramadan, nipote del fondatore dei «Fratelli Musulmani» Hasan al-Banna, dal canto suo, si pone il problema dell'essere musulmano-europeo e lavora sul tema delle responsabilità e dei diritti dei musulmani nelle società «occidentali». Si potrà obiettargli di proporre istanze radicali, ma, in ogni caso, il tema di una umma d'Europa è aperto. Mi ricorda la visita di due miei allievi alla minuscola comunità sciita nella Mongolia cinese quando il locale imam, disse ai due: «Ci vorrebbero degli ulama che vivessero qui, che fossero di qui ... ma i Cinesi ...». Evidentemente, ogni fede universalista prima di aver visto la propria universalità deve fare i conti con la propria acculturazione locale e con la propria mondializzazione.

Se valichiamo l'oceano atlantico, scopriamo che l'American Muslim Council degli Usa incontra subito il neo-eletto presidente iraniano Khatami, ma incontra con più frequenza senatori, rappresentanti, il Presidente degli Usa e i sindaci delle grandi città. Il lavoro di lobby di queste comunità è assolutamente diverso dai procedimenti del notabilato come da quelli della conformità sociale, molto più presenti in Paesi a prevalenza islamica. Se ci rivolgiamo poi alla esperienza dei musulmani nella rete telematica, ci accorgiamo che l'interazione fra i musulmani dei paesi «islamici» e quelli «a occidente» o «a oriente», come nel Sud australiano o nel Nord russo, è assolutamente costante e vitale: serve l'ortoprassi, certamente, ma anche fidanzamenti e matrimoni, dinamiche femminili, scambi di fotografie di bimbi e famigliole, auguri e quant'altro. E' un'altra comunicazione a due vie, nella quale, fatti salvi alcuni principi di autorevolezza, stanno crescendo nuovi approcci, in prevalenza non radicali, alla vita islamica in terra non-islamica.

La parabola discendente del radicalismo islamico, infine, mi sembra uno degli argomenti più consistenti dell'ipotesi alla quale accennavo. Con molte ragioni, Gilles Kepel la attribuisce alla mancata saldatura fra ceti medi e ceti diseredati. Chi scrive ha aggiunto a questo argomento quello del deterioramento specifico che le forme della politica hanno assunto nel contesto radical-islamista: da forza sociale a partito, da partito a partito armato, da partito armato a organizzazione del terrore - è il caso algerino - sino alla forma di organizzazione surrogante lo stato, come nel caso di al-Qaeda. Quella parabola discendente si inserisce nel deterioramento di tutti i radicalismi politici, intesi come movimenti totali, quelli che dichiarano di poter risolvere tutti i problemi di immaginario e di vita, saldare interessi diversi e di voler colpire, così legittimati, altri interessi. Gli stati-etnici e stati-religiosi hanno mostrato, a cavallo del millennio, il loro limite, insito nella loro definizione: l'impossibilità di rendere mondiale o globale un fenomeno per sua natura dipendente da specifiche condizioni. Intanto, gli stati fattisi repubblica islamica cercano faticosamente di onorare i due termini, rendita petrolifera e rendita da investimenti si pareggiano quasi in qualche stato del Golfo e in Asia Centrale qualcuno cerca di rinverdire i fasti di scuole un tempo avanguardia delle scienze dell'islam. E da quelle parti, il muro che segna la direzione della Mecca sta a occidente.