21 Marzo 2002
 
 
Se il cinema è apolide
"Un posto sulla terra", sezione del XII Festival del cinema africano di Milano, raduna i cineasti alla ricerca di posti nuovi e antichi, senza confini, in un mondo devastato dal caos d'inizio millennio
ANTONELLO CATACCHIO - MILANO


Film a parte il Festival del Cinema africano, che si conculde oggi, ha vissuto uno dei suoi momenti più importanti nell'incontro corale legato alla sezione "Finestra sul mondo", divenuta quest'anno Un posto sulla terra. Sezione curata da Alessandra Speciale, Giuseppe Gariazzo e fortemente voluta da Mohamed Challouf. Challouf, tunisino d'origine, da moltissimi anni operatore culturale in Italia ha voluto ampliare l'orizzonte, ha aperto quella finestra sul mondo per poter vedere meglio attraverso l'opera di una trentina di registi non allineati, capaci di indagare, scavare fuori dai confini stabiliti dalle geopolitiche, ricordare la realtà di un mondo che troppo spesso procede per schemi, per barriere, banalizzando tutto.
Le immagini che ci giungono sono appiattite, le domande filtrate, le chiavi di lettura imposte. Siamo sempre convinti di vivere nell'epoca della comunicazione, ma non cogliamo più quello che le persone vivono nella loro quotidianità all'interno della storia. uno dei concetti espressi da Michel Khleifi, uno dei partecipanti all'incontro, regista palestinese di cinema di fiction. Sembrerebbe quasi una contraddizione o un azzardo visto quel che succede laggiù, Khleifi invece spiega: "quando ho cominciato a fare cinema molti si occupavano di cinema militante, io avevo invece bisogno di descrivere la vita quotidiana. Mi sono reso conto che c'è una storia ufficiale e una storia di cui parla la gente e che questi ritengono praticamente virtuale la prima".
Anche Mahmoud ben Mahmoud normalmente realizza fiction, "ma ho fatto un documentario sulle musiche dell'Islam, presentato a Venezia poco prima dell'11 settembre. Ero agli antipodi di quel che raccontava l'attualità. Sono nato in un ambiente religioso, primo in famiglia a non fare teologia musulmana. Da bimbo ho studiato con ebrei, le superiori le ho fatte in scuole cristiane, per mio padre significava interrompere una tradizione eppure sul letto di morte mi ha voluto lasciare dei soldi per poter studiare cinema in Belgio. Questo è l'Islam che ho conosciuto. Bisogna fare in modo che si riprenda il dialogo al posto dei preconcetti".
C'è invece chi compie un altro tipo di lavoro, come Gianikian e Ricci Lucchi, anche loro presenti all'incontro. I due registi rielaborano materiali preesistenti, pescando negli archivi. "Non vogliamo però passare per archeologi" sottolinea Gianikian e racconta un aneddoto che può suonare curioso: "Dopo l'11 settembre negli Stati Uniti erano molto interessati a un nostro film (Su tutte le vette è pace) perché pensavano a una guerra di montagna". Il loro metodo consiste nel rileggere materiali altri, come per Image d'Orient tourisme vandale che riorganizza il viaggio in India di un gruppo di fascisti alla fine degli anni '20.
E c'è chi si trova comunque spiazzato, come Thomas Ciulei, sempre presentato come regista rumeno. Effettivamente è nato in Romania, ma a 14 anni va negli Usa coi genitori, senza sapere di potere un giorno tornare. I suoi film vengono dalla Germania, come i suoi studi. Nel suo paese d'origine ci sono un'infinità di altre presenze, poi racconta di quando un suo film è stato presentato a Berlino: "nessuno dei critici rumeni ne ha scritto. E allora cosa succede quando il paese al quale vieni associato ignora completamente il modo in cui tu lo rappresenti? Per questo per me è difficile essere presentato come rumeno".
Sembrano interventi incoerenti, distanti, con Cheikh Oumar Sissoko cineasta del Mali che parla di "resistenza per cambiare il mondo" e il tunisino Fadhel Jaibi che, senza assolvere l'Occidente, si interroga sulle derive religiose e politiche, mentre Chris Austin centra perfettamente, e forse anche involontariamente, il titolo della sezione quando ricordando la sua esperienza di bianco sudafricano dice "sono cresciuto con la sensazione di non avere diritto di essere lì".