25 Luglio 2001
 
 
  HOME PRIMA PAGINA
La metropoli clandestina
Abdel Kechiche racconta il suo film, "Tutta colpa di Voltaire"
CRISTINA PICCINO - ROMA


Premiato lo scorso anno a Venezia (lo aveva scelto la Settimana della critica), Tutta colpa di Voltaire è uscito da poco, e in sordina, nelle sale italiane. Peccato perchè questo piccolo (a livello di budget) film ci racconta una realtà ferocemente contemporanea, quella di chi vive ai margini, i "clandestini" invisibili di cui canta anche Manu Chao, venditori di rose, di ananas o di avocado, di Réverbère (in Francia, in Italia Terre di mezzo), il giornale dei senza-fissa-dimora, un'umanità globalizzata che si ritrova in tutte le metropoli. E che vive appunto ai margini, sotto stretto controllo poliziesco, senza garanzie per quello che può contare e che in un paese come l'Italia di questi giorni se era già soggetto debolissimo rischia di essere cancellato. E' insomma Tutta colpa di Voltaire un "documento" su quanto si è combattuto e si combatte, sui contenuti di chi è sceso in piazza contro il G8 per un mondo che provi almeno a essere più equilibrato e meno ingiusto. Ma è anche una mappa dei nuovi metissage che ridisegnano lo spazio urbano come un insieme di universi paralleli e senza contatto. Il regista Abdel Kechiche è un esordiente dietro la macchina da presa, anche se ha una lunga esperienza di attore, e tra gli altri ha lavorato André Téchiné e Nouri Bouzid, (protagonista in Bezness), dal quale ha imparato l'approccio in sensibilità che esclude sia i sentimentalismi facili che ogni luogo comune. Tutta colpa di Voltaire segue la vita di Jallil (Sami Bouajila, nel cast ci sono anche Aure Autika e Elodie Bouchez, splendida nel ruolo di Lucie, la ragazzina psicotica che diventerà la compagna di vita e di avventura di Jallil) che si fa passare per algerino chiedendo l'asilo politico. La cosa non riesce, Jallil vive sans papier, e entra in questa comunità "a parte" in cui esiste comunque una certa solidarietà. Ne parliamo con il regista, incontrato qualche mese fa a Parigi poco prima dell'uscita francese.

Come hai avvicinato questa storia che al cinema rischiava anche un tono retorico o da luogo comune?

Per prima cosa non volevo che i personaggi venissero percepiti come vittime. E soprattutto Jallil, che è un po' la guida, ci tenevo a costruire un'immagine del maghrebino diversa da quella che si vede in tanto cinema francese, dove o è un emarginato o un furbetto poco di buono. Anche se poi la sua condizione è legata alla sua nazionalità ho cercato di non limitare la sua figura a questo.

Quindi come hai lavorato?

Ho scritto la sceneggiatura già qualche anno fa, era il 95, e molto velocemente. Poi l'ho presentata al Centro nazionale di cinema e ho avuto alcunu finanziamenti. Non era una grande cifra, bastava appena per un pezzo di film, perchè gli esordi sono sempre difficili, ci vogliono anni per arrivare alle condizioni produttive necessarie. Invece il film l'ho girato abbastanza rapidamente.

Il fatto di avere pochi soldi ha influito molto nelle riprese?

Ho dovuto ridurre i tempi di lavorazione, le nove settimane iniziali sono divenute sei. Poi ho lavorato con una macchina da presa invece delle tre a cui pensavo, e ho rinunciato alla parte tunisina così come alla scena con una partita di calcio, non avevo abbastanza comparse. Ma succede da sempre, e credo che l'atteggiamento ideale sia di non fermarsi allo scarto tra quello che si ha e quello che si sarebbe voluto avere.

"Tutta colpa di Voltaire" è un film di fiction che però vira anche al documentario.

Mentre scrivevo pensavo soprattutto agli attori. Sono il cuore del film e per questo volevo che la messinscena fosse molto semplice e mai visibile. E soprattutto volevo evitare ogni forma di virtuosismo stilistico. Spesso anche nei primi piani ho usato la macchina a spalla per avvicinarmi agli attori il più possibile. Lo stesso è stato nel montaggio.

Hai fatto molte ricerche per dare questo senso di immediatezza in tutta la storia?

Ho girato la città, le periferie, incontrato persone diverse confrontandomi con quel senso di esclusione e di razzismo che impediscono ogni contatto. E' come se tutte queste persone fossero invisibili o chiuse soltanto nei ruoli in cui si manifestano, gli ambulanti ad esempio, senza però nessuna voglia di avvicinarle. Cosa che per forza diventa reciproca dall'"altra parte".

PRECEDENTE INIZIO SUCCESSIVO HOME INDICE