Un megacampo di problemi
Napoli, convivenza difficile nel villaggio rom costruito
dal comune
Da Pristina...
...a Secondigliano. La famiglia Dobreva costretta poi
a trasferirsi a Milano. Un appello delle associazioni al
sindaco
MARIELLA PARMENDOLA -
NAPOLI
Sono stati costretti a fuggire da Napoli. Troppo
insistenti le minacce di morte, le liti e i soprusi per
continuare a dividere la vita con gli altri rom. In quel campo,
inaugurato un anno fa alle spalle del carcere di Secondigliano,
negli ultimi mesi si sono scatenate tra i 750 rom una lunga serie
di schermaglie, regolarmente vinte dal gruppo dei
cristiano-ortodossi, la maggioranza in quella babele di etnie,
che perciò riesce facilmente a dettare legge.
Per la famiglia Dobreva, una comunità musulmana di una
cinquantina di persone, la fuga ai primi di giugno è una scelta
obbligata e non è la prima volta, la storia si ripete. Era stata
la guerra ad indurli a lasciare Pristina agli inizi degli anni
novanta e a trasferirsi nella periferia napoletana. La prima
sistemazione a Secondigliano, in baracche senza acqua, luce e
servizi igienici. Le stesse baracche di altri piccoli campi
vicini al loro, occupati da un migliaio di rom. Così comincia la
difficile convivenza con gli abitanti di uno dei quartieri più
degradati di Napoli, che tocca il momento più duro due anni fa,
quando un rom investe una ragazza su un motorino. Un incidente
mortale che determinerà l'inizio di una vera e propria caccia
allo zingaro.
Poi la tensione cala e il salto di qualità avviene il 26 luglio
scorso, con il trasferimento dei rom dal campo abusivo di Scampia
nel villaggio autorizzato di Secondigliano, il primo in Campania.
Salutato dall'amministrazione comunale di centrosinistra come
esempio di civiltà, il megacampo è dotato delle strutture che,
fino a quel momento, i rom non avevano avuto. Ma il tenere
insieme forzatamente persone di culture e religioni diverse
produce ben presto le prime crepe in quell'esperienza, al punto
da costringere alla fuga i cinquanta musulmani. Obbligati a una
scelta difficile, pagata con la perdita del lavoro, degli amici,
della casa. Ora la famiglia Dobreva vive per strada a Milano, un
ritorno al passato, alla precarietà nella quale si trovavano non
appena sono arrivati nel nostro Paese. "Abbiamo rivolto un
appello al sindaco e alle altre istituzioni perché garantiscano
le condizioni necessarie a un rientro dei Dobreva nella città
nella quale stavano costruendo il loro futuro", spiega Ciro del
Compare, un'associazione di volontari che ha indirizzato
una lettera aperta al sindaco Rosa Russo Iervolino. Un appello
sottoscritto già da molte associazioni: Legambiente,
Mani Tese, la cooperativa del commercio Equo e solidale
'O pappece, Attac e ancora dal partito della
Rifondazione comunista e dai giovani comunisti di Napoli, dalla
Cgil Nidil, da diversi professori universitari. Tutti hanno
chiesto un incontro con il sindaco per illustrare le loro
proposte.
La vicenda della famiglia Dobreva ha dimostrato, infatti, quanto
i giovani del Compare sostengono da tempo. Si chiedono i
volontari dell'associazione napoletana: "Vogliamo considerare
quest'ultima come una delle tante storie di zingari che, si sa,
'sono di carattere difficile'?". "Sarebbe semplice, ma non è così
- risponde Ciro - La verità è che la soluzione del megacampo non
è quella giusta, si è creato un ghetto senza le garanzie minime
per vivere dignitosamente".
Se è vero che i rom hanno ottenuto i servizi igienici, l'acqua,
la luce, il gas, hanno, però, dovuto anche pagare tutto ciò con
l'isolamento dal resto della città. Nelle vicinanze del villaggio
d'accoglienza non ci sono case e negozi, la fermata dell'autobus
è a due chilometri di distanza, sulla strada nessun segnale
indica la presenza di un centro abitato e in meno di sei mesi il
bilancio è di tre incidenti stradali, con due feriti e un morto.
Entrando nel campo si viene assaliti dalla puzza che esce dai
tombini, in ogni container, di quaranta metri quadri, vivono tra
le otto e le nove persone mentre i tralicci dell'Enel, che lo
circondano, producono onde elettromagnetiche di intensità
superiore a quella stabilita dalla legge. Una brutta fotografia,
che ha spinto i firmatari dell'appello ad avanzare la loro
proposta: "L'esperienza del megacampo va superata per favorire
l'integrazione dei rom con gli altri cittadini. Un obiettivo
raggiungibile individuando soluzioni abitative per nuclei di 50
persone al massimo e magari in case simili a quelle in cui
viviamo noi".
|