da "Il Manifesto"

 

14 Aprile 2001

Per chi suona la fisarmonica

ANGELO MASTRANDREA - ROMA

" Un grande inferno". Leonardo Di Caprio ci guarda con il faccino da bravo ragazzo yankee e i capelli ben pettinati dalla t-shirt presa su una qualsiasi bancarella di un qualsiasi mercato. "Un grande inferno", ripete in un cattivo italiano il proprietario della maglietta, e ci viene subito da pensare al Titanic che affonda con il suo carico di prima, seconda e terza classe. Ma lui è un rom proveniente dalla Romania, e il "grande inferno" di cui parla potrebbe alludere alla sua esistenza come a quell'incendio scoppiato l'altro ieri nello stabile occupato in cui vive insieme ad altri duecento compaesani e qualche russo, in via di Tor Carbone, sull'Appia antica. E' per questo motivo che sono tutti qui, sulla scalinata del Campidoglio, a cercare un incontro con il commissario prefettizio Enzo Mosino. Per una mattina, hanno abbandonato i loro posti "di lavoro" per confondersi con la folla di turisti in visita sul colle. Ma il commissario si allontana su una Lancia grigia in attesa a un'uscita secondaria su via del Campidoglio, lontano dai manifestanti. E' mezzogiorno in punto, e pochi minuti dopo dal municipio fanno sapere di accettare l'incontro con una delegazione. Un'ora dopo si saprà che il comune ha deciso di non decidere se sgomberare o meno quelle 50 famiglie che ormai da sette mesi vivono in un casale abbandonato ma reclamato dai proprietari. Spetterà alla prossima amministrazione decidere cosa fare di loro, ma il tema per il momento non è entrato a far parte di nessuna agenda elettorale. I rom non votano né portano voti, lo sanno bene in molti. Per ora verrà ripristinata l'erogazione dell'acqua sospesa da qualche giorno e verranno portati dei cassonetti per raccogliere l'immondizia. A pulire l'enorme discarica creatasi in questi mesi, circa due tonnellate di rifiuti di ogni genere, ci penseranno poi gli stessi rom. Ma i problemi restano, perché lo stabile è stato dichiarato pericolante sia dalla circoscrizione che dai vigili del fuoco. E la polizia ha ordinato lo sgombero entro 48 ore, per cui un'azione di forza, magari di notte, non è affatto da escludere. Restano in piedi anche tutti i perché di quello strano incendio, appiccato al pianterreno all'una del pomeriggio, quando la gran parte di loro è al lavoro. Doloso, secondo i vigili del fuoco e i rom presenti, anche perché pare che siano state trovate tracce di liquido infiammabile, forse benzina. Una rissa tra due fratelli o lo scoppio di un fornello, secondo altri. Sta di fatto che sei famiglie hanno dovuto trascorrere la notte all'aperto a causa del fuoco che dal pianterreno si è propagato fino al primo piano. "Quando abbiamo visto che tutto bruciava, siamo andati a chiedere l'acqua ai vicini di casa, ma non hanno voluto darcela", raccontano. Un'intolleranza che, unita al fatto che l'Acea (l'azienda che gestisce la fornitura d'acqua) e i vigili urbani la sera prima avevano disattivato l'unica fontanella, lungo la strada, ha rischiato di causare una tragedia. Il casale della discordia Messa in bocca a una panciuta zingara che non capisce la lingua, fai fatica a comprendere il senso di quella parola. Poi te lo immagini lì, il cavaliere d'Arcore, a sorseggiare caffè turco in quella stanzetta dalle mura scrostate chiamata bar solo perché vi puoi trovare un paio di casse di Coca cola e qualche pacco di crackers. Magari seduto su quel divano improvvisato su cui ti costringono a sederti per raccontarti le loro storie, lui e l'Italia che ha in mente, mentre la zingara continua a ripetere le uniche parole d'italiano che conosce: "votato Berlusconi". Fuori, sull'enorme terrazzo di questo bellissimo casale immerso nel verde del parco dell'Appia, quattro ragazzi giocano a carte attorno a un tavolino e Rivaldo scorrazza di quà e di là con altri bambini della sua età. Sono da poco passate le sei del pomeriggio, e gli abitanti cominciano lentamente a rientrare dal lavoro. Molti di loro sono musicisti, li vediamo ogni giorno agli angoli delle strade, sulle metropolitane come nei ristoranti, con violino e fisarmonica a raggranellare qualche spicciolo. Altri non sanno nemmeno suonare, e allora si arrangiano come lavavetri ai semafori. Vengono tutti dalla Romania, e tutti ti raccontano storie di repressione e fuga dalla Securitate (la temibile polizia segreta di Ceausescu). Il 15 agosto scorso alcuni di loro tentarono senza successo di impossessarsi per la prima volta di questo casale costruito nel 1920 per gli operai di una vicina cava e abbandonato da vent'anni. Ma il 9 settembre ritornarono in massa e nessuno riuscì a scacciarli. Ed è lì che cominciarono i problemi, perché il casale è stato comprato da una società che ha già investito dei soldi per restaurarlo e ricavarci degli appartamenti. Si tratta di funzionari ministeriali, ex generali, ex prefetti e così via che non hanno esitato a denunciare alla magistratura l'occupazione della loro proprietà. Tanto che sulla vicenda sta indagando il pm Silverio Piro. A dire la verità i rom hanno anche tentato di andare via da lì, ma sono stati sbattuti fuori da un terreno che avevano occupato, sempre sull'Appia antica, e così sono ritornati. Negli otto ettari di terreno annessi al casale, tra le catacombe dell'antica Roma, un'associazione frutticola, la Fruit, ha raccolto le olive fino al loro arrivo. Problemi di incomunicabilità, qualche screzio e un infarto fatale a un associato hanno poi fatto sì che i campi restassero incolti. In fuga da Ceausescu "E' da un anno che vivo in Italia. Vengo da Craiova, dove lavoravo in una fabbrica di mattoni, sono stato perseguitato e licenziato perché ho manifestato contro Ceausescu. Ma ora mi piacerebbe mettere in piedi qui in Italia una cooperativa che produca mattoni". Seduti al pianterreno, Iancu ("ma tutti mi chiamano Paris, qui ognuno di noi ha un soprannome") racconta la sua storia di dissidente. Quella che ora è una scarna sala riunioni tappezzata di manifesti dell'Associazione 3 febbraio che chiedono diritti per gli immigrati, una volta era una piccola chiesa. "Quando siamo arrivati, qui dentro venivano solo i tossici. Noi l'abbiamo ripulita", dice Paris indicando i segni delle svastiche incise sui muri, che loro hanno raschiato per cancellarli. "Ora stiamo preparando la Pasqua. Faremo una grande festa". I rom di Tor Carbone sono ortodossi, e quest'anno coincidono le pasque cristiana, ebraica e ortodossa. "Poi ci stiamo preparando a scendere in piazza, insieme agli altri immigrati, il primo maggio". Quando Constantin torna dal lavoro è ormai quasi buio. Ha 45 anni ma ne dimostra 60, e ascoltare la sua storia vale il sacrificio di scrivere al buio perché si fa notte e manca la corrente elettrica. "Nel 1987 sono stato coinvolto in scontri con la polizia durante una manifestazione contro il regime di Ceausescu a Craiova, dove lavoravo in una fabbrica che produceva locomotive", comincia. Da allora sono cominciati i suoi guai, e probabilmente il suo invecchiamento precoce. "Per non farmi catturare, mi sono rifugiato nei boschi di un villaggio vicino. Tornato a Craiova per la morte di mia moglie, nell'88, sono riuscito a evitare l'arresto fuggendo da una finestra". Ma, alla fine, la Securitate riesce a trovarlo e, il 21 marzo dell'89, per lui si aprono le porte del carcere. Che non si schiuderanno nemmeno con la fine del regime. "Sono rimasto in carcere fino al '93, e quando sono uscito sono andato in Francia", racconta. Ma i segni della galera li porta tutti sulla pelle, come quei rigonfiamenti che gli deformano le braccia ("di notte le guardie venivano a buttarci addosso secchi d'acqua fredda per non farci dormire") e i segni delle baionette. Durante la detenzione ha subito anche un'operazione allo stomaco e si è preso una tubercolosi polmonare. "Tornato in Romania nel '97 per il funerale di mio padre, sono stato di nuovo arrestato e tenuto dentro per un anno e mezzo, poi sono venuto in Italia". Per questo Constantin ha chiesto asilo politico nel nostro paese e non accetta di farsi fotografare per paura che la Securitate riesca a trovarlo. Ed è inutile spiegargli che il dittatore è morto e la Securitate ormai sciolta. "Hanno cambiato il cappello, ma sono sempre gli stessi", sarà la risposta.