da "Il Manifesto"

20 Marzo 2001

Al crocevia di razze che non esistono e tuttavia contano

Da domani a sabato a Chia, presso Cagliari, un grande convegno internazionale titolato "Crossroutes of Races", crocevia di razze, con tutte le intenzionali ambiguità del termine. Che verrà sottoposto a ricognizione in quanto costrutto inventato ma socialmente operativo, al quale si intrecciano i problemi della diaspora

MARCO RIVAROSA

Nel 1938, il Ministero dell'Africa italiana venne a sapere che "il suddito eritreo Teclehaimanot residente a Cagliari... sarebbe prossimo a contrarre matrimonio con un ragazza di Nuscis (Cagliari)." Ritenuta evidente "l'assoluta inopportunità di tale matrimonio", il governo italiano provvide all'immediato rimpatrio del malcapitato "suddito". Questa difesa della purezza della razza italica in Sardegna ha un sapore paradossale se si ricorda che la "razzizzazione" della Sardegna e della sua popolazione comincia fin dai primi decenni dopo l'unità d'Italia grazie a scrittori e antropologi come Paolo Orano e Alfredo Niceforo: "la razza [sarda] cresce e ripullula come una cancrena marcia purulenta", scriveva il primo, mentre il secondo individuava nella "zona delinquente" del banditismo sardo un territorio da dove caratteri innati e ambientali della popolazione si spargevano come "batteri patogeni...a portare...il sangue e la strage." Queste memorie (che prelevo con gratitudine dai saggi contenuti nell'importantissimo libro curato da Alberto Burgio, Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d'Italia, Il Mulino, 2000) vengono utili adesso che proprio a Cagliari si apre un grande convegno internazionale dove, a partire dagli studi afro-americani, si affronterà il tema più vasto delle forme attuali e storiche del discorso sulla "razza". Organizzato dall'università di Cagliari e dal Collegium for African American Research (di fatto, da Paola Boi e Radhouan Ben Amara praticamente da soli!), il convegno - che avrà inizio domani - raduna a Chia, presso Cagliari, circa trecento partecipanti provenienti da tutta Europa (comprese Ucraina e Bielorussia), dagli Stati Uniti, dal Giappone e da diversi paesi africani. Sono letterati, storici, antropologi, studiosi di politica, di comunicazione, di cinema; e scrittori, poeti, attori, artisti. Tra i partecipanti vi saranno Ira Berlin, uno dei maggiori storici della schiavitù; Joanne Braxton, poetessa e protagonista della critica femminista afroamericana; Maria Diedrich, che ha animato gli studi afroamericani in Europa in tutti gli anni Novanta; John Wideman, scrittore e critico fra i maggiori negli Stati Uniti oggi, l'americanista Sandro Portelli e il poeta portoricano Pedro Pietri. Proprio l'ultimo romanzo di Wideman, Clifford's Blues, forse non un libro pienamente riuscito e convincente, è tuttavia sgnificativo del clima in cui si colloca il discorso sulle identità nel momento attuale: è la storia di un musicista nero gay che si trova in Germania all'avvento di Hitler e subito dopo finisce a Dachau dove resta per tutto il tempo della guerra e della Shoah. Le "identità", insomma, si rivelano molto più fluide, le storie molto meno separate: Dachau, cerca di dire Wideman, è un crocevia dove le storie degli ebrei, dei neri, dei gay - e dei rom, dei comunisti, degli "asociali" e dei marginali tutti - non sono più storie separate ma, pur rimanendo distinte, tuttavia si intrecciano fra loro (e mi piace ricordare che il libro mi è arrivato tramite Sandro Portelli, che lo aveva avuto in dono da Silvia Baraldini, altra figura esemplare della capacità di passare i confini delle storie e delle identità). Parlo di "crocevia" perché il titolo del convegno è appunto Crossroutes of Races, crocevia di razze, con tutte le intenzionali ambiguità della parola razza (e infatti alcuni dei workshop in programma hanno per tema proprio la de-costruzione di questo termine e la sua ricognizione come costrutto inventato ma socialmente operativo: la "razza" non esiste ma, come ammonisce Cornel West, tuttavia "la razza conta"). Alla figura dell'incrocio si intreccia quella della diaspora: un movimento centripeto di convergenza di differenze in luoghi condivisi, e un movimento centrifugo di identità locali che diventano planetarie. I crocevia sono, allora, le identità multiple, le ibridazioni, i molteplici stigma, le "linee del colore" (penso ai workshop che intrecciano lo sguardo sul razzismo e quello sul sessimo, al tema del "meticciato" - come nelle storie afro-tedesche che studia Sabine Broeck - o a quelli in cui si riflette sulla figura del passing, la criptizzazione degli afroamericani di pelle chiara che passano per bianchi: per alcuni critici figura della mobilita postmoderna delle identità inafferrabili, dimenticando le sofferenze, tragedie e ironie che vi si sono incrostate nella sua storica pratica). Ma crocevia significa anche luoghi: i Caraibi, per esempio, o l'Inghilterra non più tutta anglosassone di oggi. O la Sardegna stessa, crocevia mediterraneo, luogo di approdi e di partenze. Chissà in che modo i visitatori afroamericani leggeranno un'isola il cui simbolo sono quattro mori bendati. Per converso, il concetto di diaspora, e in particolare di diaspora africana, elaborato soprattutto dallo storico afro-britannico Paul Gilroy, rovescia il locale e il minoritario in planetario e in globale. Non si tratta più di "minoranze" ma di un immenso movimento (coatto ma anche inarrestabile), che attraversa e abbraccia le due sponde dell'Atlantico e le quattro sponde del Mediterraneo. Se ne parlerà in termini di storia del colonialismo, della schiavitù, dell'emigrazione contemporanea. Può esserci del romanticismo, una ricerca di comuni radici africane parzialmente inventate dopo secoli di separazione, ma c'è soprattutto il riconoscimento del fatto che dall'Africa si è irradiato, e si irradia ancora, un processo che trasforma soggetti "subalterni" e "marginali" in protagonisti di una globalizzazione e di una modernizzazione che conoscono meglio di tutti e su cui hanno più di tutti speranze, e meno di tutti illusioni. All'inizio del secolo scorso, il grande leader politico e studioso afroamericano W. E. B. DuBois annunciava che "il problema del ventesimo secolo è il problema della linea del colore" (color line). Proprio in questi giorni mi è capitato di vedere l'annuncio di una conferenza di Vijay Prashad, uno studioso indiano (dell'India)-americano che, con un gioco di parole sulla somiglianza fra la pronuncia di color line (linea del colore) e quella di color blind ("cieco al colore", daltonico) annunciava che "Il problema del ventunesimo secolo è il problema dei color blind", il problema del rifiuto o dell'incapacità di "vedere" il colore, di prendere atto che razzismo e discriminazione continuano ad innervare la vita sociale del nostro tempo e del nostro pianeta. E' una lezione che riguarda noi italiani più degli altri: "brava gente" come siamo, espelliamo i rom, pisciamo nelle scarpe dei bambini latinoamericani, facciamo buuu ai giocatori neri, trasmettiamo o stampiamo pubblicità che assimilano la pelle nera a cose da mangiare (o, come racconta Annamaria Rivera nell'ultimo numero del bollettino dell'Istituto Ernesto de Martino, usiamo l'immagine di una donna bianca e una nera per invitare all'acquisto di borse di pura "pelle italiana"!), diciamo in parlamento che gli slavi sono "geneticamente" proni alla delinquenza, diamo per scontato che i massacri familiari siano opera di albanesi, usiamo "ebreo" come insulto e dipingiamo svastiche sulle serrande - e poi continuiamo a ripeterci che sono cose bruttissime ma che "il razzismo non c'entra" o sono casi sporadici e isolati. E' vero, i color blind del ventunesimo secolo siamo noi, incapaci (forse per una qualità della nostra pupilla interiore, come diceva il romanziere afroamericano Ralph Ellison) di vedere gli altri, ma incapaci per espressa e ostinata volontà anche di vedere noi stessi.