Quei trenta ragazzini a scuola di vita
"Mai in banco con un marocchino". Succede a Ceuta, Spagna africana
SABINA CHIARA STERI - CEUTA
da "Il Manifesto" 21 Novembre 2000

(Spagna) Questa è la storia di trenta ragazzini marocchini, hanno tutti tra i 13 e i 16 anni. Imitando le migliaia di adulti che ogni anno scappano in cerca di un futuro migliore in Europa, anche loro hanno lasciato le case nel nord del Marocco e un anno fa sono riusciti a entrare illegalmente a Ceuta, un pezzo di Spagna in terra marocchina. Accolti dal centro di accoglienza San Antonio, questi ninos de la calle - "bambini di strada", così vengono chiamati dalle Autorità - la scorsa settimana hanno compiuto un passo importante nel tentativo di integrarsi nella società spagnola riuscendo a dare inizio al loro processo di scolarizzazione nella scuola pubblica di Ceuta, la Juan Morejón. I ragazzini, dopo aver partecipato attivamente e con profitto alle attività di formazione offerte loro dal centro San Antonio - un'antica residenza militare sul Monte Hacho, da tempo abilitata per ospitare i minori - e dopo aver usufruito dell'assistenza alimentare e sanitaria, che la Città Autonoma di Ceuta è stata obbligata a fornire per ordine del Tribunale dei Minori, sono stati infine accompagnati, lunedì scorso, a scuola. Ma quello che doveva essere il loro primo giorno si è trasformato in una triste testimonianza di razzismo e intolleranza. Le porte della scuola, infatti, sono state chiuse loro in faccia per ben tre giorni perchè un gruppo di genitori spagnoli è riuscito a impedirne l'accesso alle aule con il beneplacito della Direzione Provinciale dell'Educazione di Ceuta che ha ceduto alle pressioni. I pregiudizi xenofobi ovviamente si sono camuffati dietro le giustificazioni di sempre: la preoccupazione di mamme e babbi nel vedere i propri figli seduti accanto a "bambini che non sono normali, sono cresciuti in strada e presentano forti problematiche sociali". Non solo. I genitori si sono anche lamentati con il Ministero dell'educazione e della cultura perché non erano stati informati sull'arrivo a scuola dei ragazzini marocchini. E per finire hanno richiesto garanzie precise sulle "condizioni di salute" dei giovanissimi immigrati, per evitare "in caso di malattie" potessero essere messi a contatto con gli altri alunni. L'ultima richiesta, una sorta di compromesso, è stata quella di "distribuire" i trenta nuovi arrivati in gruppi da dieci da "riversare" in tre scuole diverse. I ninos de la calle, nonostante tutto, a scuola sono riusciti a entrare, e quel giorno, giovedì, i 450 alunni spagnoli (circa il 65% del totale) sono stati fatti rimanere a casa in segno di protesta. Protesta, anche questa, camuffata: alcuni genitori, infatti, si sono così giustificati: "I nostri ragazzi dovevano studiare in vista dei prossimi esami". Più esplicito, un gruppetto di quindici genitori "irriducibili" e contrari al nuovo inserimento si è presentato all'ingresso della scuola per aspettarel'arrivo dei trenta marocchini. Erano lì, alle tre del pomeriggio, quando gli indesiderati hanno fatto la loro "entrata trionfale" scortati da quindici agenti di polizia lungo tutto il tragitto che doveva portarli dall'autobus alle aule scolastiche. L'entrata pomeridiana non è stata casuale. Il delegato del governo spagnolo, Luis Vicente Moro, ha infatti rassicurato i genitori che protestavano: "Non dovete preoccuparvi - ha detto loro - anche questi bambini devono ricevere un'educazione, ma la riceveranno in un orario diverso dai vostri". Gli altri alunni, infatti, frequentano le lezioni solo la mattina. Tutta questa vicenda ha suscitato indignazione ma anche molto stupore, soprattutto legato al fatto che la scuola Juan Morejón due anni fa era stata premiata per "l'alto livello educativo" e perché si era particolarmente distinta "nel promuovere tra gli alunni i valori della tolleranza e della convivenza".A Ceuta studiano circa quattromila bambini magrebini al di sotto dei 14 anni, circa il 50% degli alunni sono di religione musulmana e le leggi spagnole garantiscono loro il diritto alla scolarizzazione. Inoltre esistono istituzioni che si incaricano di integrare nella società i bambini entrati clandestinamente in città, cercando anche di individuare le famiglie nei paesi di origine. Ceuta, città più che di confine, è ovviamente una città multietnica e pluriconfessionale. Su 75.0000 abitanti circa 30.000 sono di origine berbera, mentre sono quattro le religioni praticate (cristiana, musulmana, ebrea e indù) tra 30 moscheee, 13 chiese, una sinagoga e quattro cimiteri. Eppure la separazione tra il mondo cristiano e quello musulmano è evidentissima. Le due comunità vivono in quartieri diversi e un accordo tacito li ha portati a seguire un curioso orario per ripartirsi il centro della città. La mattina le vie principali di Ceuta sono invase dai musulmani che comprano e vendono, e tra loro si muovono i 25.000 marocchini che ogni giorno attraversano a piedi la frontiera per acquistare le merci che poi rivenderanno nel loro paese. Il pomeriggio lo scenario cambia e mentre i musulmani si ritirano nelle loro zone, i cristiani affollano i caffè più eleganti per dare inizio allo svago. Un appuntamento a cui non mancano mai un buon numero di spagnoli, soprattutto i nonni con i nipotini, è quello del giovedì sera alle 21 nella Plazade Nuestra Señora de Africa, dove un picchetto di 100 soldati sfila per mezz'ora a suon di trombe e tamburi, di fronte a un'enorme bandiera spagnola. Questo cerimoniale, impensabile in altre città della penisola iberica, continua ad essere per molti spagnoli di Ceuta la prova che la loro città continua a far parte della nazione. Ma non è solo patriottismo. Molti di loro pensano sia conveniente continuare a vivere a Ceuta dove lo stipendio dei funzionari - che rappresentano il 40% dei lavoratori - è superiore rispetto ai colleghi spagnoli per il solo fatto di vivere qui (ricevono un plus tra il 50 e il 70%). Questi compensi sopravvivono fin dai tempi del Protettorato, quando i governi offrirono incentivi affinché la gente si tresferisse nella città spagnola in terra africana. E' invece la miseria in cui vivono i magrebini che abbassa il reddito pro capite cittadino: il 75% più basso della media europea.