NEI NOSTRI GENI NON C'E' TRACCIA DI DNA NEANDERTALIANO. LO CONFERMA UNA RICERCA PUBBLICATA OGGI SU "NATURE"
LA RISCOSSA DELL'EVA AFRICANA
La nostra specie non si è mai mescolata con i neandertaliani. Una sconfitta definitiva del multiregionalismo
- GIANFRANCO BIONDI OLGA RICKARDS -
da "Il Manifesto" del 30 Marzo 2000

N ei nostri geni non c'è traccia di Dna neandertaliano. E' questa la conferma che viene da un gruppo di scienziati russi, svedesi e inglesi pubblicata sul numero odierno di Nature. Ed è anche l'ultimo notevole successo dell'antropologia molecolare, che suona come il requiem del multiregionalismo sostenuto da Milford Wolporff e smentisce definitivamente quanti ritengono che solo la morfologia dei fossili sia utile per comprendere la nostra evoluzione. Non è così. Almeno per le ultime fasi della storia dell'uomo, i fossili sono documenti più complessi, capaci di restituirci non solo le fattezze dei nostri antenati e parenti, ma anche le informazioni contenute nel loro codice di vita, nel Dva, dove la natura ha registrato accuratamente tutte le fasi dell'evoluzione. Ma andiamo con ordine e partiamo da lontano, al fine di seguire l'intera storia. Lungo alcuni decenni, uno dei dibattiti più complessi dell'antropologia ha ruotato attorno a due domande: dove e quando è iniziata la storia evolutiva dell'uomo moderno, la nostra storia? Da una parte erano schierati i sostenitori dell'ipotesi multiregionale, o anche detta della continuità regionale, cioè coloro secondo i quali un uomo arcaico era migrato fuori dall'Africa oltre un milione di anni fa e in Europa e in Asia, oltreché nella stessa Africa, si era poi evoluto nella nostra specie. Per quei paleoantropologi saremmo nati ben tre volte, ma alla fine saremmo diventati una sola umanità grazie all'elevato mescolamento praticato dai nostri antenati. I multiregionalisti si rifacevano a un tale modello perché erano convinti che le serie di uomini fossili rinvenute in ciascuna area del globo presentavano sostanziali continuità morfologiche e per l'Europa, in particolare, ritenevano che l'uomo di Neandertal si era trasformato direttamente in noi moderni. Altri scienziati, guidati da Cristopher Stringer del Museo di storia naturale di Londra, non ravvisavano invece alcuna continuità anatomica nei fossili e pensavano che la nostra specie si era evoluta una sola volta in Africa e in un'epoca molto recente. Da lì poi era migrata nel resto del mondo senza mescolarsi affatto con i parenti più antichi: anzi li aveva sostituiti completamente. Le due posizioni erano inconciliabili e il dibattito, sebbene aspro, languiva. O almeno languì fino alla fine degli anni '80, quando un gruppo di antropologi molecolari dell'Università della California a Berkeley (Rebecca Cann, Mark Stoneking e Allan Wilson) dimostrò, analizzando il Dna mitocondriale di molti individui provenienti da tutte le parti del mondo, che l'Homo sapiens anatomicamente moderno era nato in Africa circa 200.000 anni fa e che non si era mescolato geneticamente con nessuna specie di uomini più antichi. Si trattava della teoria ormai universalmente nota con il nome di "Eva africana". Come si vede, lo studio dell'evoluzione umana basato sulle molecole aveva dato ragione a Stringer.Rebecca Cann è stata ribattezzata affettuosamente dall'ambiente accademico con il nomignolo di "madre della nostra madre" e ora ricopre la cattedra di genetica e biologia molecolare presso l'Università delle Hawaii a Manoa. Lei e i suoi colleghi di Berkeley avevano ricostruito l'ultima fase della storia evolutiva dell'uomo partendo dalle informazioni presenti nel Dna dell'umanità vivente. E per la precisione in un tipo particolare di Dna, quello contenuto nei mitocondri, che si trasmette solo per via materna. Insomma, la nostra storia disegnata al femminile, da cui il nome Eva all'ipotesi e il nomignolo inventato per la scienziata. I diversi tipi mitocondriali trovati nel campione esaminato furono riuniti in un albero filogenetico e il risultato fu inequivocabile. L'albero presentava due diramazioni principali, di cui una era composta solo da alcuni dei tipi africani studiati e l'altra da tutti quelli osservati nel resto del mondo e raggruppati in classi strettamente correlate, ciascuna contenente almeno uno dei rimanenti tipi africani. La topologia suggeriva chiaramen te che l'origine dell'antenata comune a tutte le popolazioni attuali fosse africana e che i suoi discendenti si fossero progressivamente diffusi sulla terra dando origine alle diverse popolazioni locali. A quel punto rimaneva da risolvere il problema di dare una data all'epoca in cui visse l'antenata: una questione non troppo difficile. Il gruppo di Berkeley quantificò per prima cosa le differenze tra i Dna dei due rami principali, circa lo 0,6%, e poi, sapendo che il Dna mitocondriale accumula mutazioni ad un tasso del 2-4% per milione di anni, pervenne a quei famosi 200.000 anni fa. Altrettanto facile risultò la stima del momento della fuoriuscita dall'Africa. Bastò infatti ripetere l'operazione all'interno del secondo ramo, quello non africano, per trovare che la divergenza tra la sua classe più antica e le altre risaliva a 135.000 anni fa. Sul tappeto era rimasto solo l'interrogativo se dopo la loro migrazione i primi uomini sapiens si fossero mescolati con le popolazioni autoctone più arcaiche. Ebbene la risposta non poteva che essere negativa, altrimenti si sarebbero dovuti trovare dei tipi mitocondriali ancora più divergenti di quelli africani. Sembrava che la partita potesse ritenersi ormai conclusa. Ma, nonostante l'evidente confutazione sperimentale, i sostenitori del multiregionalismo non abbandonarono le "armi". Nel frattempo, però, l'antropologia molecolare si era incamminata verso il suo traguardo più ambizioso: lo studio del Dna antico. Fu nel 1997 e poi nel '99 che Svante Pääbo oggi all'Istituto Max Planck di Lipsia smentì la nostra discendenza dai neandertaliani e quindi l'ipotesi multiregionale. Pääbo era riuscito a estrarre il Dna nientemeno che dal primo e più famoso fossile neandertaliano conosciuto, datato tra 30.000 e 100.000 anni fa: quello che fu trovato nel 1856 vicino a Düsseldorf, nella valle di Neander. La sua sequenza mitocondriale si poneva decisamente fuori dall'intervallo di variabilità che è caratteristico dell'umanità vivente. Dunque, nessun mescolamento genetico tra i primi sapiens e i neandertaliani. Ovviamente, la reazione dei multiregionalisti fu scomposta e addirittura li portò ancora una volta a vedere nei fossili quello che non ci poteva essere scritto. La prova delle loro idee preconcette arrivò all'inizio del '99, quando commentarono i resti fossili di un bambino rinvenuti vicino a Lisbona. Lo scheletro era stato datato a 28.500 anni fa e apparteneva sicuramente a un rappresentante dell'uomo anatomicamente moderno, ma con alcuni tratti tipici dei neandertaliani: esattamente quello di cui avevano bisogno i multiregionalisti. Tutta la bizzarria di una tale descrizione può essere colta nelle scettiche parole di Ian Tattersall del Museo di storia naturale di New York: "Sono portato a credere che sia solo un uomo moderno, di struttura piuttosto robusta. Nessuno sa a cosa possa somigliare un ibrido". La artificiosa irriducibilità dei multiregionalisti richiedeva la prova definitiva, che è arrivata appunto con l'articolo del gruppo guidato da Igor Ovchinnikov dell'Istituto di gerontologia di Mosca e William Goodwin dell'Università di Glasgow. Gli studiosi hanno analizzato il Dna mitocondriale di un neandertaliano di 29.000 anni fa rinvenuto nella grotta Mezmaiskaya nel Caucaso settentrionale e, come era già successo con quello tedesco, la sua variabilità si è posta al di fuori di quella dell'umanità attuale. L'albero filogenetico dell'ultima fase della nostra storia evolutiva è risultato pertanto diviso in due rami: uno formato dall'intera umanità e l'altro dai due tipi neandertaliani. Ora davvero non ci possono essere più dubbi: la nostra specie non si è mai incrociata con i neandertaliani. Li ha sostituiti. E questo risultato sperimentale ha reso il modello della continuità regionale solo una curiosità storica.Negli ultimi decenni, l'antropologia è stata travagliata dal dibattito sull'esistenza o meno delle razze e il multiregionalismo, con la sua idea delle tre lunghissime e separate evoluzioni, ha mantenuto quel concetto tra i suoi punti maggiormente qualificanti. Ed è stato proprio grazie a questa falsa ipotesi che i multiregionalisti hanno impedito nel 1993 all'associazione degli antropologi fisici americani di dichiarare errato il concetto di razza. Alla fine però, lo studio delle molecole ha dimostrato tutta la sua inconsistenza scientifica e così nessuno potrà più opporsi alla semplice affermazione che le razze umane non esistono.