Dici immigrato e scatta la paura
Diffidenze e ostilità verso gli stranieri. Un'indagine europea esposta a Venezia
 

-GIOVANNA PAJETTA - INVIATA A VENEZIA

da "Il Manifesto" del 26 Febbraio 2000

N on importa quanti siano, quando siano arrivati, in che paese vivano o che lavoro facciano. In Europa gli immigrati fanno paura. E' questa la prima e forse più triste conclusione dell'indagine condotta contemporaneamente in Francia, Germania, Spagna, Gran Bretagna e Italia per capire cosa pensino i cittadini della nuova Europa dei loro "ospiti" di oggi e di domani. Curata da Ilvo Diamanti, pensata ben prima dell'esplosione del "caso Haider", la ricerca illustrata ieri a Venezia al convegno organizzato dalla Fondazione Nord est e dall'Agenzia romana per il Giubileo, racconta infatti come si avvicini ormai al 30% la quota di chi guarda con diffidenza, per non dire ostilità a chi percepisce sempre e comunque come lo "straniero". Una minoranza destinata a crescere, se dovesse continuare il trend di cui parla Vincenzo Cesareo, ordinario di sociologia alla Cattolica di Milano, ma che già oggi in alcuni paesi non è più tale. In attesa di vincere l'American cup, l'Italia si guadagna ad sempio con scioltezza il primo posto di questa classifica della paura. Quasi un italiano su due vede nell'immigrato un pericolo per l'ordine pubblico (46,1%, contro il 26,2 della Gran Bretagna), più di un terzo lo vive come minaccia per il proprio posto di lavoro (32,2%, contro il 28,8 della Germania), più di un quarto teme per le sorti della propria identità culturale (27,3%, contro il 25,6 della "nazionalista" Francia). E poco conta che il nostro sia il paese dove vive il minor numero di immigrati. In Italia infatti, come nel resto d'Europa, la parola "immigrato" pare suscitare reazioni emotive, irrazionali, evocare incubi che poco hanno a che fare con la realtà. Basta pensare all'esempio della Spagna, dove il tasso di disoccupazione è al massimo ma ben pochi pensano che i nuovi arrivati gli toglieranno il lavoro (18,7%, contro il 28,3 della Francia). Ma forse il dato che più colpisce, e che rimbalza da un intervento all'altro nella sala di palazzo Labia, è proprio l'assenza di chi dovrebbe smussare timori, garantire sicurezza e promuovere integrazione. Più che "Immigrazione e cittadinanza in Europa", il convegno poteva infatti intitolarsi "L'Europa che non c'è". Perché dietro la dura presa di posizione della Comunità sul "caso Haider", traspaiono realtà nazionali talmente diverse tra loro da far dire a Diamanti che "lo spazio europeo, quando si parla di valori comuni, è solo virtuale". E se è vero, come sottolinea Guido Bolaffi, del dipartimento affari sociali, che da sempre l'atteggiamento verso gli immigrati è una cartina di tornasole di vizi e virtù di un paese, si può capire quanto sia ancora lunga la strada da percorrere. Qualcosa di nuovo c'è, visto che per la prima volta a Bruxelles c'è un "commissario per l'immigrazione" (e il trattato di Amsterdam annuncia, entro 5 anni, politiche comuni), ma i cittadini dell'Unione vedono le cose in modo ben diverso. Anzi, chiamati a rispondere su un tema che, dopo Schengen, dovrebbe accomunarli, riscoprono la voglia di difendere i confini (e le frontiere) nazionali. Quando è stato il momento di elaborare la marea di dati che arrivavano dai 5 paesi, racconta Diamanti, si è cercato di trovare nessi e relazioni tra le varie regioni d'Europa. Ma non c'è stato nulla da fare. L'unico spazio comune, capace di far coincidere risposte e rendere credibili grafici e tabelle, è quello dei tanto odiati, o declinanti stati nazionali. Certo, all'interno di questi ci sono differenze fortissime (Nord e Sud in Italia, Andalusia e resto della Spagna, Baviera o ex Ddr in Germania), ma delle tanto annunciate "euroregioni" non c'è quasi traccia. Anzi, si scopre che persino il processo di integrazione tra europei è ancora lungi dall'essere una realtà. Le antiche ostilità non sono affatto morte, se è vero che più del 25% degli intervistati non si fida nemmeno da chi viene da Parigi, Bonn o Roma (e viceversa). E il futuro si annuncia ancor più problematico. Perché tra i più temuti (dal 60,3% dei francesi, 47 degli italiani e 42,4 dei tdeschi) ci sono proprio i nostri futuri concittadini, gli abitanti di quei 12 paesi dell'est europeo che dovrebbero trasformare tra breve l'Europa dei 15 in una ben più grande Europa dei 27. "I muri possono cadere, ma le macerie sono ancora tutte lì", dice amaro Diamanti, mentre Lucio Caracciolo propone di creare un "nucleo duro istituzionale" di cui facciano parte solo i 6 paesi fondatori dell'Unione, più Spagna e Portogallo. Tocca così a Giovanna Zincone, presidentessa della commissione per le politiche di integrazione, riportare un pizzico di ottimismo in sala. Elencando le ragioni, a suo parere ormai forti, che spingono in realtà a una convergenza i diversi paesi uropei. Ci sono i vincoli internazionali, i trattati per l'appunto (o l'impegno a scrivere una "carta dei diritti fondamentali" di cui parla Giorgio Napolitano), così come, a dispetto di tutto, si sta formando tra Bruxelles e Strasburgo una "policy community". Non siamo più, insomma, ai tempi della "Fortezza Europa", quando lo choc petrolifero spingeva molti a chiudere le frontiere. E, anche se a fatica, le nuove leggi per la concessione della cittadinanza (ben viste persino in Italia) e i processi di regolarizzazione stanno avanzando quasi ovunque. Come dimostra il fatto che gli immigrati abbiano oggi diritto di voto (alle elezioni amministrative) in molti paesi. Peccato che, come ricorda l'unico "straniero" presente, tra il dire e il fare spesso ce ne passa. "In Italia molto spesso - dice Alioune Gueye - non c'è fruibilità dei diritti sanciti dalla legge". Ma soprattutto, come ricorda nel suo ultimo libro Saskia Sassen (Dall'emigrazione di massa alla fortezza Europa), il diritto di voto non aiuta gli immigrati a evitare l'emarginazione sociale, a trovare lavori e salari adeguati. O a non subire discriminazioni.