“LA POLITICA ESTERA DI ALLAH”: L’IGNORANZA E LA MALAFEDE DEI GIORNALISTI TRA INTERESSI E FRUSTRAZIONI

a cura di Maurizio Corte - Verona, 15 novembre 2007

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Quello che segue è un commento scritto dall’agenzia di informazioni Aga. Come si può notare si parla di “politica estera di Allah” associandola a bin Laden e ad Al Qaeda. E’ un po’ come se, parlando dei terroristi cattolici nord-irlandesi dell’Ira si fosse scritto: “Come sta la politica di Dio?”. Siamo di fronte ad un fatto gravissimo: l’offesa verso un miliardo e 200 milioni di persona di religione musulmana, alcune delle quali (in una percentuale minoritaria) possono nutrire simpatie o accondiscendere alla politica del terrore, ma molte delle quali sono molto lontane dal simpatizzare il terrorismo. Come accade per l’informazione sui migranti, vi è una visione stereotipata e pregiudiziale che vuole con insistenza accreditare e sottolineare l’equazione islamico=terrorista (o filo-terrorista).
Non solo. L’autore del commento, in linea con le affermazioni interessate e poco autorevoli del presidente statunitense George W. Bush, evoca lo spettro della Terza Guerra Mondiale e induce nel lettore la credenza dello “scontro di civiltà”: un blocco monolitico da una parte, quello islamico, e un blocco monolitico dall’altra, l’Occidente cristiano e liberaldemocratico. Chi conosce l’animo umano e un minimo di politica, sa bene che non vi sono blocchi monolitici, neppure nel gruppo consiliare di un piccolo comune della Bassa padana.
Cosa spinge i giornalisti ad assumere posizioni che denotano ignoranza, se non malafede? Credo che un “approccio diretto alla persona”, quindi alla figura singola del giornalista, sia in questo caso quanto mai opportuno. Dietro certe cronache; dietro certi commenti soprattutto vi possono essere sia ignoranza che malafede. Spesso vi sono interessi non confessati – non ci riferiamo al servizio dell’Aga ma estendiamo l’osservazione ad un piano più generale – che sono espressi da gruppi di pressione (filo-islamici piuttosto che filo-israeliani o filo-cristiani), da lobby e da intrecci di affari politici, economici e ideologici. Non è un mistero che vi siano giornalisti e commentatori che sono al soldo di questa o di quella potenza o centro di interessi: non scrivo pro o contro il popolo palestinese a caso; non scrivo pro o contro Bush (o Putin) per convinzione personale o come conseguenza di analisi politiche e storiche di tipo scientifico; scrivono “sotto dettatura” e “sotto dittatura”, la dittatura della parola falsa e falsata. Come scoprirli? Non vi è un metodo da suggerire. Si può soltanto, senza pregiudizi e preconcetti, verificare se le loro argomentazioni hanno un senso; se sono fondate su dati certi; se vi è un rigore nel procedere del discorso; se vi è una chiarezza; se vi è un interesse (sempre lo stesso) da difendere.
Sia chiaro: non tutti i commentatori sono comprati e venduti a questa o a quella lobby. Alcuni lo sono. E’ per questo che è quanto mai utile un’azione di “media education”; di approccio critico ai media; di diversificazione della dieta mediale. E’ un’operazione più facile a dirsi che a farsi. E’ naturale che siamo tutti portati a leggere quanto ci piace e ci trova d’accordo, rispetto a versioni che divergono rispetto al nostro punto di vista. Le teorie degli effetti limitati dei media (si vedano DeFleur-Ball Rockeach sulle teorie delle comunicazioni di massa) sono lì a dimostrarcelo. La fatica che ci è richiesta, allora, è quella di smontare le argomentazioni di un testo che condividiamo; di porci in una posizione critica verso noi stessi; di chiederci se non stiamo osservando le forze in campo da un’ottica sbagliata.
Oltre agli interessi, vi sono le “frustrazioni” dei giornalisti e degli operatori dell’informazione – tema su cui torneremo – i quali sono persone e come tali, oltre ad essere sensibili a interessi più o meno legittimi, sono condizionati da proprie passioni, da proprie frustrazioni. Il loro vissuto, le loro fobie, le loro simpatie compaiono anche quando svolgono il lavoro di mediatori fra la realtà fattuale e la realtà dei mass media. Chiusi nelle loro redazioni o nelle stanze della scrittura giornalistica, oppure catapultati nella cronaca quotidiana, quegli operatori dell’informazione si portano dietro il loro armamentario di frustrazioni, di miserie umane, e il loro bagaglio di stereotipi e pregiudizi di cui sono a volte inconsapevoli.

COME STA LA POLITICA ESTERA DI ALLAH?
Roma (Aga). Come sta la politica estera di Allah? Benissimo. Purtroppo per noi e per le sorti della pace. I segnali in tal senso continuano ad accavallarsi in un crescendo sempre più esplicito, anche se sarebbe sbagliato farsi prendere la mano dall’allarmismo. Come pure, però, prendere per buone le solite sottovalutazioni di chi preferisce affidarsi alla politica irresponsabili degli struzzi. Cominciamo da Bin Laden. Come è noto, in meno di 48 ore lo sceicco del terrore ha prima esortato i vari gruppi della «nazione islamica» a superare qualsiasi divisione interna e a serrare i ranghi nel nome di Allah e del suo profeta Maometto. Dopodiché, con un secondo messaggio audio diramato stavolta sul web (quello precedente era stato trasmesso dalla tv araba Al Jazeera), Osama è tornato ad additare l’imperativo della guerra santa contro i «crociati invasori». Una guerra, si badi bene, «globale» e non limitata al solo Medio Oriente. Da estendere e da rafforzare, in primis, in Sudan e in tutta la penisola arabica.
Molti osservatori hanno colto nella registrazione diffusa da Al Jazeera il segnale di una crescente difficoltà di Al Qaeda soprattutto nella «campagna» irachena (dove i primi seppur ancora molto parziali successi conseguiti dagli americani sul terreno sono stati facilitati anche dalla decisione di alcuni gruppi sunniti locali di rivoltarsi contro la stessa Al Qaeda). Ma poiché i leader, per essere davvero tali, devono avere anche la forza di ammettere eventuali battute d’arresto, ecco che Osama ha dimostrato ancora una volta di essere quello che in effetti è sempre stato fin da quando combatteva contro i russi in Afghanistan: un leader e uno stratega politico, prima ancora che un capo militare. Una caratura confermata anche dalla perentoria
chiamata alle armi dell’altro giorno contro la missione congiunta dell’Onu e dell’Unione africana in Sudan, divenuto ormai la regione più importante dell’intero continente africano per via delle immense risorse energetiche contenute nelle sue viscere.
E da un Bin laden più «in palla» che mai, passiamo pure alla questione internazionale del momento e, senza il minimo dubbio, dei mesi e degli anni a venire: il nucleare iraniano. Semplicemente per constatare ciò che, anche in questo caso, appare purtroppo più chiaro del sole. E cioè che Teheran resta ben lontana dal dare segnali passabilmente credibili di voler desistere dal tentativo di dotarsi di armi nucleari. Lo ha confermato anche la due giorni romana di colloqui fra il capo della diplomazia europea Javier Solana (cui ieri sono subentrati Prodi e D’Alema) e il nuovo negoziatore iraniano per il dossier nucleare, il «duro» Said Jalili. Quest’ultimo, si era fatto accompagnare per l’occasione dal proprio predecessore, Ali Larijani.
Secondo alcuni, un modo per trasmettere l’idea di una certa qual continuità con la linea della
trattativa (ancorché completamente all’asciutto di risultati degni di nota) accettata formalmente
finora da Teheran e impersonata, appunto, dal più «morbido» Larijani. Quando invece tutto lascia credere che, spedendo a Roma il nuovo negoziatore insieme a quello vecchio, il regime degli ayatollah abbia solo voluto lasciare intendere che l’Occidente può scordarsi di riuscire ad aprire la benché minima crepa al suo interno. D’altra parte, la stessa biografia del nuovo negoziatore «atomico» iraniano sembra fatta apposta per lasciare ben poco spazio all’ottimismo. Basti pensare al titolo di un libro dello stesso Jalili: «La politica estera del Profeta Maometto».
Pensando ai disastri provocati nella storia dal binomio «religione-politica», quel titolo dovrebbe far correre un brivido lungo la schiena anche ai più accesi sostenitori delle «buone ragioni» di Teheran. E ricordare a tutti che, con simili negoziatori, l’apocalisse di una Terza guerra mondiale non è più solo lo spauracchio agitato da un Bush alla ricerca disperata di risalire la china della popolarità.
Verona, 15 novembre 2007

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