“ZINGARE” E LAVAVETRI: DALL’ACCOSTAMENTO CON LA CRIMINALITA’ AL GIORNALISMO PARA-LETTERARIO

a cura di Maurizio Corte - Verona, 30 settembre 2007


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Il Tg3 Veneto del 29 ottobre 2007, in onda alle ore 19.30, presenta un servizio da Verona sulla proposta del sindaco Flavio Tosi (Lega Nord) di togliere la patria potestà ad una donna nomade che chiede l’elemosina assieme al suo bambino di un mese. Segue subito dopo la notizia di due cittadini stranieri arrestati per furto. Senza entrare nel merito della proposta del sindaco di Verona, possiamo affermare che agli occhi del telespettatore l’accostamento fra i due servizi pone un problema di “induzione semantica” (di aggiunta di senso), fra la condizione della donna nomade e la criminalità. Un simile accostamento porta a connotare sempre più il “fastidio” verso i nomadi e i “diversi”, pur in situazioni in cui non vi è violazione della legge e reato, come “insicurezza”. La paura indotta non è più legata alla sensazione di “pericolo”, ma a quella di “fastidio”, di “rifiuto”. I due servizi televisivi, così accostati, incrementano nello spettatore l’idea che la “diversità” e la “emarginazione” dei cittadini nomadi (degli “zingari”) sia comunque collegata con la criminalità, con la rottura dell’ordine, con le ruberie.
Non si tratta qui di discutere se – come parte dell’opinione pubblica sostiene – i nomadi siano più ladri degli altri cittadini. Quello che ci interessa osservare è come un medium importante nella dieta mediale degli italiani, qual è la televisione, rinforzi l’equazione zingaro=ladro, zingaro=estraneo non integrabile, zingaro=illegalità.
Perché non troviamo un accostamento del genere fra la notizia di una frode commessa da un commerciante e l’evasione fiscale? Come mai non troviamo su una pagina di giornale o in un telegiornale una vicinanza fisica e cognitiva fra la notizia, poniamo, di un industriale che spara e uccide la moglie e il traffico di rifiuti tossico-nocivi in cui sono coinvolte tante (ma non tutte) imprese? E’ giusto non criminalizzare un’intera categoria. Non tutti i commercianti sono evasori fiscali; non tutti gli industriali violano le leggi sul trattamento e lo smaltimento dei rifiuti. E’ allora giusto criminalizzare (“a prescindere”, come direbbe Totò) qualcuno solo perché è “diverso” culturalmente ed etnicamente? E’ giusto associare comunque l’Altro estraneo da noi all’insicurezza e all’illegalità? E’ corretto classificare sotto il capitolo “malavita” furti, rapine, borseggi, scippi e immagini di donne nomadi che chiedono l’elemosina con un figlio al braccio?
Se il rispetto verso i minori vale anche per le donne nomadi; se la legge, con le sue protezioni e le sue pene vale anche per i padri nomadi; anche per loro vale il rispetto della verità sostanziale dei fatti, da parte dei giornalisti, e il diritto ad un’informazione che non sia pregiudiziale e stereotipata.
Andare oltre gli stereotipi e i pregiudizi, specie quando si fa il mestiere di giornalista, non è facile. Richiede lavoro e fatica. Richiede impegno, scavo, approfondimento, coraggio. Il Tg1 delle ore 20 del 29 ottobre 2007 presenta il caso dei “lavavetri”. Un giornalista del Tg1 decide di fare per qualche ora il lavavetri, a Roma, per scoprire se vi è una “regia occulta” dietro ragazzi, adulti e donne che chiedono l’elemosina. Diciamo subito che una “regia occulta” spesso c’è. Non occorre mettersi a fare il lavavetri per scoprirlo: basta osservare zone, movimenti, persone. Una decina di anni fa, scrissi un articolo per il giornale “L’Arena” di Verona su questo e lo intitolai “L’industria della carità”.
Ebbene, il giornalista del Tg1 le prova tutte: fa il lavavetri e fa domande ai lavavetri veri, senza riuscire a cavare un ragno dal buco. Bastava molta meno scena e molto meno giornalismo televisivo “paraletterario”, da telenovela, per scoprire quanto c’era da scoprire: occorreva soltanto fare degli appostamenti, di alcune ore, in alcune parti della città; e seguire i lavavetri per capire dove stava la “regia”. Insomma, occorreva indagare; investire delle ore; spendere del tempo e delle energie, senza pretendere di tornare in redazione con la soluzione già pronta. Il problema è che in alcuni casi, le routines dei media impongono tempi, modi di lavorazione e risultati che sono inconciliabili con l’approfondimento e la conoscenza. Il risultato è la “non conoscenza” spacciata per notizia e confezionata, grazie all’aiuto delle immagini, come “reportage”, come “vita in diretta”.
Sono giuste quelle routines? Niente affatto. Sono impossibili da cambiare? Neppure questo.
Perché allora sono accettate e applicate dai giornalisti? E’ questo il problema su cui riflettere…
(Verona, 30 settembre 2007)

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