LA STAMPA MULTICULTURALE: LIMITI E INNOVAZIONI

a cura di Maurizio Corte - Verona,28 maggio 2007 
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Nel mio libro “Comunicazione e giornalismo interculturale” (Cedam editrice, 2006) ho analizzato la stampa multiculturale (Tg3 Shukran, Permesso di soggiorno, il sito Il Passaporto.it che ha portato poi all’inserto Metropoli di “Repubblica”) prodotta per un pubblico generalista da grandi gruppi editoriali italiani. Vediamo di seguito le caratteristiche positive e i limiti dell’approccio “multiculturale”.
CARATTERISTICHE POSITIVE DELL’APPROCCIO MULTICULTURALE:
a) volontà di far conoscere la realtà dei migranti, che però non si traduce sempre e comunque in una rappresentazione radicalmente innovativa dell’immigrazione, rispetto ai mass media generalisti;
b) abbandono di alcuni stereotipi e pregiudizi che troviamo invece nella stampa generalista;
c) si sforza di rappresentare il più possibile la “normalità” del fenomeno immigratorio, come elemento strutturale della nostra società (al pari dei giovani, delle donne, degli anziani);
d) l’immigrazione non è solo clandestina, illegale, nascosta, irregolare;
e) viene data voce ai cittadini immigrati;
f) attenzione alla persona, al soggetto concreto: si supera quella posizione di separatezza, di allontanamento e di esclusione rispetto al “diverso”, all’estraneo, al soggetto “extracomunitario”;
g) avvicina i soggetti immigrati alla stampa italiana, favorendo un processo virtuoso di identificazione e di rispecchiamento;
i) la sensibilità multiculturale cambia l’agenda dei temi trattati: vi è una diversa notiziabilità, una diversa gerarchia delle notizie pubblicate;
l) i maggiori temi sono: immigrazione e aspetti socio-culturali ad essa connessi. Gli elementi problematici sono ancora prevalenti, ma questo dipende dalla cultura professionale dei giornalisti, per i quali “ciò che non va” fa più notizia di “ciò che va”;
m) non vengono impiegati toni allarmistici, emergenziali, ansiogeni, tipici della stampa generalista;
n) vi è interesse per la cultura dei migranti.

LIMITI DELL’APPROCCIO MULTICULTURALE:
a) l’approccio “multiculturale”: il limitarsi a registrare la presenza di persone di differente cultura, senza promuoverne l’interazione. E’ un giornalismo che cerca di rappresentare la struttura composita della nostra società, dando spazio ai differenti gruppi culturali, prevedendo redazioni multietniche, organizzando rubriche e argomenti riguardanti questa o quella etnia;
b) la dimensione di “condominio” che è propria del multiculturalismo, per cui ognuno è garantito nel suo spazio, vi sono delle regole, ma vi è anche una sostanziale separatezza tra le parti;
c) la mancanza di relazione fra i gruppi, di scambi, di contaminazioni, di spinte dinamiche al cambiamento, all’accrescimento, all’arricchimento che nasce dall’incontro fra persona di differente cultura;
d) il rischio di una visione “folcloristica” dei diversi gruppi etnici e culturali: gli italiani sono fatti e si comportano tutti in un certo modo; gli slavi sono fatti e si comportano tutti in un altro modo; e via dicendo (islamici, marocchini, albanesi, romeni…).
Verona, 19 maggio 2007

 

ALCUNE RIFLESSIONI SUL GIORNALISMO INTERCULTURALE
Possiamo sintetizzare così alcuni dei rilievi critici alle routines giornalistiche e ad alcuni aspetti legati al lavoro redazionale: deskizzazione, tematizzazione, velocizzazione dell’informazione, spettacolarizzazione, drammatizzazione
spazializzazione dell’informazione e superficializzazione dei notiziari.
Come rileva Wolf (1998), la “distorsione involontaria” nella comprensione di alcuni fatti e nella loro traduzione in racconto e in notizia di tipo giornalistico dipende dalle routines redazionali. La distorsione è insomma legata al modo in cui i giornalisti lavorano: “al modo in cui è organizzato, istituzionalizzato e svolto il mestiere di giornalista”.
Il giornalismo che voglia essere “interculturale” dovrà, allora, cambiare le proprie routines.
Un tempo i processi di “newsgathering” e di “newsmaking” (Wolf, 1998) passavano attraverso il filtro del giornalista, garante della veridicità, della fondatezza, della completezza, del rigore dell’informazione. L’errore, la “bufala” (una notizia falsa data per vera) dovevano essere l’eccezione. Oggi, la velocizzazione dell’informazione e l’aumento della massa di notizie che si riversano sul computer (sulla scrivania virtuale) del giornalista, si accompagnano ad una “fretta routinaria” che è diventata cronica e si è spalmata su tutto il lavoro di redazione.
Un tempo le accelerazioni nel lavoro, tipiche della professione giornalistica, erano proprie di alcune situazioni e di alcuni momenti del processo produttivo redazionale; oggi i mass media e i giornalisti vivono in una perenne accelerazione. L’accelerazione, la fretta routinaria sono causa ed effetto della mancanza di un filtro efficace fra le fonti delle notizie e i lettori: la funzione di mediazione del giornalista si riduce sempre più.
Tutto questo porta ad una migliore efficacia comunicativa? Migliora il prodotto editoriale? Soddisfa le richieste di informazione e di conoscenza che hanno i fruitori dell’informazione? La risposta è negativa.
La velocizzazione dell’informazione, la rincorsa all’aggiornamento spasmodico, la superficializzazione informativa che ne consegue sono funzionali soltanto agli interessi economici dei gruppi editoriali.
I giornalisti, in questo panorama, rischiano di perdere la loro identità, la loro professionalità di mediatori dell’informazione, e di trasformarsi in strumenti di produzione, in lavoratori alla catena di montaggio della fabbrica massmediale.
Come cambiare le routines giornalistiche e redazionali? Proposte:
- con una migliore programmazione del lavoro;
- con una maggiore consapevolezza civile del ruolo dei giornalisti;
- con la coscienza della responsabilità che compete agli operatori dell’informazione (oltre ai giornalisti, i fotografi, i cameraman e tutti i tecnici che vi operano e che incidono in qualche modo sulla produzione massmediale).
Routines produttive, valori condivisi e interiorizzati circa le modalità di svolgere il mestiere di giornalista: sono alcuni fra gli elementi su cui occorre intervenire per un Giornalismo interculturale.
Non vi sono ragioni né economiche, né professionali, né culturali che giustifichino le derive – fatte di spettacolarizzazione e di drammatizzazione, di deskizzazione e di tematizzazione, di superficializzazione e di seguitazione mediale – verso le quali è scivolato il giornalismo italiano.

Al fenomeno della “deskizzazione” e dell’enfasi maggiore sui processi di selezione (gatekeeping) rispetto al processo di raccolta (newsgathering), segnalato da più studiosi, si accompagna un sempre maggiore impiego di giornalisti free-lance.
I giornalisti free-lance, spesso costretti a lavorare in condizioni di grave precarietà, sono impiegati nelle più diverse mansioni e sulle più disparate tematiche. Come per chi lavora in redazione, non vi è per ora una formazione professionale regolamentata che metta un giornalista free-lance in grado di saper leggere, interpretare e raccontare una società in evoluzione, caratterizzata dalla presenza di persone di differente cultura.
Il mix deskizzazione-precarizzazione e impreparazione interculturale dei free-lance (senza nulla togliere alla professionalità giornalistica di molti di questi ultimi) crea le condizioni per routines redazionali e massmediali connotate dalla presenza di stereotipi e di pregiudizi nei confronti della diversità culturale ed etnica; e pone le condizioni per una maggiore dipendenza informativa, cognitiva e interpretativa dalle fonti (istituzioni, forze dell’ordine, magistratura).
Viene insomma a mancare l’azione di filtro, di mediazione, che rappresenta uno degli impegni più significativi della professione giornalistica.
Media e poteri. Fra i media e le altre istituzioni esiste una convergenza di interessi e una coordinazione. Le più importanti aziende dei media sono infatti quelle che presentano i legami più stretti con i centri di potere. E i media di maggior prestigio possono sì assumere in certe occasioni un tono di critica e di contrapposizione, “ma la loro azione rimane su un piano correttivo e non volto ad esprimere il proprio punto di vista, in quanto l'interesse a lungo termine che li muove è quello di preservare il sistema capitalistico” (Reese, 1994).
Tutto questo ha un riflesso sulle routines giornalistiche e redazionali, che risentono dell’influsso dei meccanismi di potere. Ecco che se i mass media non si fanno interculturali e restano chiusi a difendere (presunti) interessi delle élite, allora dovremo aspettarci uno scontro fra i media, uno scontro che avverrà nel momento in cui le minoranze etniche avranno la forza per realizzare propri giornali, emittenti radio e tv, siti Web capaci di contrastare la stampa autoctona.
Resterà allora da vedere se si andrà alla contrapposizione, oppure se si realizzeranno intese e simbiosi fra nuove e vecchie élite politiche, economiche e finanziarie.

Il Giornalismo interculturale osserva tutto questo, lo registra, si pone con attenzione nei confronti di quanto accade a livello di assetti editoriali. Non si schiera comunque con questa o quella élite.
Non è neppure un “giornalismo per stranieri”, perché considera questo tipo di giornalismo una formula (ancorché praticata da alcuni) da superare in un approccio interculturale; così come la Pedagogia interculturale ha superato la “Pedagogia per stranieri”.
L’azione sulle routines, sulla cultura professionale dei giornalisti, sulla mentalità giornalistica e sulle pratiche redazionali deve avere come obiettivo anche quello di svincolare i mass media dal controllo di “poteri esterni”, più o meno forti.
Compito del Giornalismo interculturale è quello di rispettare le identità, le culture; di non abdicare a quelle identità e a quelle culture, lavorando per il dialogo e il reciproco arricchimento.
Vi è una precisa responsabilità del giornalismo in una società multiculturale: ed è quella di favorire, da un lato, l’inserimento nella comunità dei cittadini di origine straniera; e di fornire ai soggetti autoctoni, dall’altro, gli strumenti per capire e per interagire con la “diversità”.
Il Giornalismo interculturale possiamo interpretarlo anche come un “mediatore interculturale” in senso lato, come un facilitatore di incontri, di dialogo, di empatia.


Verona, 28 maggio 2007

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