VENGO DOPO IL TG1: CONSIDERAZIONI SUL MODO DI FARE TELEGIORNALE CON GIANNI RIOTTA

a cura di Maurizio Corte - Verona, aprile 2007 
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Non occorre stravolgere le redazioni, rivoluzionare le routines, mandare tutti i giornalisti a lezione di comunicazione interculturale per fare un telegiornale che vada oltre gli orizzonti stantii del giornale confezionato sotto la direzione di Clemente J. Mimun. La direzione del Tg sotto il giornalista Gianni Riotta ha dato un’impronta personale interessante, anche nella confezione dei servizi giornalistici sull’immigrazione. I cittadini stranieri hanno in più occasioni diritto di parola: li si ascolta, possono dare la loro versione dei fatti, vengono intervistati. Vi è un primo passo verso quell’accettazione dell’Italia multiculturale che la stampa italiana non ha ancora compiuto, ma che il telegiornale più importante della Rai ha deciso di fare. Si tratta di una decisione che si allinea con le indicazioni del governo e di un ministro competente come Giuliano Amato, responsabile degli Interni, che più volte attraverso la stampa ha dichiarato l’importanza di non criminalizzare lo “straniero” e di favorire, accanto ad azioni per il rispetto della legge, l’inserimento dei cittadini immigrati.
Il dare voce ai cittadini stranieri è un modo per migliorare la convivenza nell’Italia multiculturale: la rappresentazione della diversità culturale sui media aiuta negli autoctoni – specie nei cittadini più anziani, che sono meno aperti al cambiamento e più timorosi delle novità – l’azione di elaborazione della “nuova società” che si è venuta formando con l’immigrazione. Tutte le ricerche sul rapporto fra cittadini italiani e nuovi cittadini di origine straniera sottolineano come l’immigrazione non susciti inutili allarmismi quando viene vissuta da vicino, quando vi è la possibilità di interagire con l’Altro immigrato, con “lo straniero-persona” in carne ed ossa.
Se è vero che la convivenza fra persone di differente cultura può produrre conflitti che dal piano interpersonale passano ad essere classificati – in modo spesso erroneo - come “conflitti etnici”; è altrettanto vero che quella convivenza, là dove assume le forme di una pacifica e funzionale interazione, aiuta l’accoglienza, il dialogo, l’accettazione dell’alterità. Nell’incontro con identità differenti vi è anzi un arricchimento: un “aggiornamento” della propria identità, che non viene negata ma semmai riqualificata e migliorata, e una conoscenza/rispetto dell’identità altrui.
L’uso di immagini non discriminatorie e rispettose del “diverso”; l’impiego di un linguaggio che non sia stereotipato e ghettizzante; il dare voce alla persona di origine straniera; la conoscenza di usi, costumi, religioni differenti, consentono di rappresentare in modo corretto e rispettoso il fenomeno immigrazione. Per correttezza e rispetto non intendiamo qui l’approccio del “volemose ben” e dell’utopica immagine del “buon immigrato”. Intendiamo piuttosto il dare una visione non pregiudiziale dell’Altro immigrato; l’evitare stereotipi che possano indurre in giudizi erronei; il tenere in considerazione l’esigenza che i fruitori dei mass media hanno di capire la realtà in cui stanno vivendo.
Verona, 29 aprile 2007

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