LA BAMBINA E’ ALBANESE. E I GENITORI? “REGOLARI”

a cura di Maurizio Corte - Verona, 8 maggio 2006
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Il 6 maggio l’agenzia di stampa Ansa trasmette ai giornali questa notizia: “Una bambina albanese di neppure 2 anni è morta questo pomeriggio a Genova schiacciata dal televisore vicino al quale stava giocando. La tragedia è avvenuta poco prima delle 18 in un appartamento di via Walter Fillak, a Sampierdarena. La piccola si trovava in casa e, secondo quanto riferito dai genitori, regolari in Italia, stava giocando in sala vicino alla tv. Probabilmente la bimba si è appesa all’elettrodomestico che le è piombato addosso. Immediatamente sono partiti i soccorsi ed è intervenuta una ambulanza del 118. Nel tragitto verso l’ospedale Gaslini la bambina, apparsa subito gravissima, è stata rianimata, ma ha cessato di vivere poco dopo il ricovero. Sulla vicenda è stata aperta una indagine da parte della polizia per chiarire l’esatta dinamica della tragedia”.
Si noti il fatto che i genitori della bambina di origine albanese sono definiti dall’agenzia di stampa “regolari in Italia”. E’ ormai consuetudine, quando i cittadini immigrati di origine straniera sono coinvolti in fatti di cronaca nera, specificare da parte dei mass media se essi sono “in regola con il permesso di soggiorno” oppure clandestini. Questo voler sempre specificare la regolarità o meno della posizione di un cittadino immigrato coinvolto in un fatto di cronaca, rivela una concezione ancora “emergenziale” dell’immigrazione. Per molti giornalisti italiani, l’immigrazione non è ancora un fenomeno strutturale; non vi sono “cittadini-e-basta” (onesti o banditi), ma “cittadini” ed “extracomunitari”.
La specificazione della posizione di regolarità (o meno) di un cittadino immigrato è inoltre la spia dell’agenda entro cui sono di solito collocati l’immigrazione e i suoi protagonisti: un’agenda fatta di persone immigrate “clandestine”, di illegalità, di devianza, di rischi per la sicurezza delle comunità. Tutte gli studi hanno convenuto e ormai dimostrato che - per usare una felice espressione di una ricerca del Censis (anno 2002) - i cittadini immigrati sono dai media “confinati nel ghetto della cronaca”.
E’ un ghetto, quello della cronaca, dove i “devianti” rappresentati fanno da specchi riflettenti ai “deviati” che li rappresentano sotto quella luce sinistra. Se possiamo, giustamente, considerare “deviante” chi non rispetta la legalità; possiamo con altrettanta certezza considerare “deviato” chi vede e racconta l'immigrazione con l’ottica deformante secondo la quale “immigrazione è uguale a… “ emergenza, a problema, a disturbo della vita comunitaria.
Vi è una scorciatoia verso la drammatizzazione e la falsificazione della realtà (o comunque verso la sua incomprensione) in chi guarda l’immigrazione in un unico senso: quello del “dramma”, del problema, dell’emergenza e della criminalità. Questo modo di fare giornalismo è “deviato” nel senso che devìa dalla strada del giornalismo attendibile, scrupoloso, il quale scava e approfondisce; è insomma una deviazione dal “buon giornalismo”.
Si badi bene: non si tratta di fare del “giornalismo buonista”, con il mito del “povero immigrato”, della vicenda umana commovente che ha come protagonista il migrante bambino-anziano-donna-lavoratore. Si tratta di fare del “buon giornalismo” che trova dei punti di riferimento fondamentali nelle carte della deontologia e nella stessa legge di costituzione dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti. Il richiamo alla deontologia professionale e all’etica non è però sufficiente. Vi è un problema di formazione dei giornalisti (su cui torneremo in altri appunti) e di sensibilizzazione dei loro “cuori”. Un “giornalismo interculturale” - o almeno un giornalismo che tenda verso l’interculturale - ha bisogno sia dell’intelligenza che dell’amore.
Parlare d’amore può forse suonare strano e fuori luogo in un mondo dove i sentimenti sono spesso banditi dai luoghi di lavoro e confinati nelle trame delle soap opera e delle versioni televisive di drammoni romantici d’altri tempi. Ebbene, la vicenda drammatica della bimba “genovese/albanese” e il richiamo all’intelligenza e al cuore mi riporta alla mente uno splendido intervento di don Vinicio Albanesi al Seminario del “Redattore Sociale” su cui noi cronisti dovremmo meditare. Dice don Albanesi, rivolto ai giornalisti: “Quando vi trovate di fronte un fatto delicato (non necessariamente di cronaca nera), abbiate presente la sofferenza della persona, della famiglia, della città. Quella sofferenza vi porterà al rispetto, anche se siete chiamati a descrivere i fatti; vi farà scegliere stile e parole adeguate, anche se avreste una grande scelta di sinonimi, utilizzerete alcune espressioni invece di altre, perché non vorrete far male. Per essere sicuri dovete però guardare alla nudità della persona, come se fosse senza sesso, senza famiglia, senza riferimenti culturali e spaziali. Una specie di assoluto di fronte al quale la sacralità è infinita. Solo così vi sottrarrete agli influssi razziali, angosciosi, prevenuti che vi spingono a offendere, non rispettare, suscitare il prurito dei lettori. Tutto ciò vi porterà fuori mercato? Quale mercato, di quale azienda, di quale economia? Scegliete pure tra l’essere comunicatori con coscienza e personalità o semplicemente pezzi di mercato ‘comprati e venduti’”.

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