il manifesto
9 settembre
2004
Le serre
di el Ejido e i loro fantasmi Viaggio nella città andalusa da anni cuore
del razzismo anti-immigrati
Il paese è nella zona più povera e desolata dell'Andalusia, nelle
sue aziende agricole finiscono migliaia di migranti maghrebini e africani.
Ma i rapporti sociali sono da medioevo: ai forestieri lo schiavismo è
imposto con violenza
di ROBERTO CARLOTTI EL EJIDO (ALMERÍA) Un paesaggio apocalittico,
montagne brulle, terra desertica, afa, molte mosche e una distesa biancastra
all'orizzonte. Chilometri e chilometri di serre che occultano centinaia
di ettari di coltivazioni intensive, un vero e proprio oro verde che ha
catapultato la provincia di Almerìa, la più orientale dell'Andalusia,
storicamente depressa e dimenticata, ai vertici del mercato ortofrutticolo
spagnolo. Uno dei centri più importanti dell'area è el Ejido, destino
di molti emigranti e al centro delle cronache da diversi anni. L'episodio
più importante di una lunga serie di intimidazioni e pestaggi di stampo
xenofobo ebbe luogo nel gennaio del 2000 quando, in seguito all'assassinio
di due persone e il ferimento di altre due da parte di immigranti di origine
marocchina, centinaia di persone scesero in strada aggredendo gli immigranti
e distruggendo i loro locali. Tutto l'odio larvato per anni tra due comunità
che si necessitano mutuamente ed economicamente ma che si evitano socialmente,
scoppiò in un'orgia vandalica che non rispettòÍ niente e nessuno. Due
impresari di el Ejido, recentemente condannati a 15 anni di reclusione
per il sequestro ed il pestaggio reiterato di tre immigranti nel dicembre
del 1997, hanno presentato una richiesta formale di indulto, accompagnata
da 57.214 firme e due certificati di buona condotta firmati dal polemico
sindaco Juan Enciso, del Partido popular. In dichiarazioni pubbliche,
gli accusati hanno affermato che nel caso in cui l'indulto venisse loro
negato si correrebbe il rischio di una frattura sociale simile a quella
del 2000, con la conseguente esplosione di violenza xenofoba. Negli ultimi
mesi le minacce, intimidazioni e pestaggi nei confronti di membri della
comunità maghrebina sono aumentati considerevolmente, obbligando varie
organizzazioni civili presenti in Andalusia, come l'Associazione per i
diritti umani di Almerìa, l'Associazione donne progressiste de el Ejido
e lo stesso sindacato Soc (Sindicato obreros del campo) a presentare una
denuncia formale per discriminazione e razzismo presso il tribunale regionale
di Siviglia. Nelle strade di el Ejido si percepisce questo conflitto latente
che segna la quotidianità dei suoi abitanti. Dieci anni nelle serre Abdelkader
Chacha, originario di Nador, Marocco, è qui da 16 anni. Dopo aver trascorso
più di dieci anni nelle serre, un giorno una falciatrice gli spezzò entrambe
le ginocchia rompendo definitivamente le possibilità di una vita lavorativa
«normale». Fortunatamente riuscì a salvare le gambe e ora Abdelkader è
la punta di lancia araba del Soc. È ancora in attesa di un risarcimento.
«Il Soc è ad Almerìa da 4 anni. E' un sindacato atipico rispetto alla
norma, si rivolge in primo luogo ai lavoratori agricoli. In nessun luogo
della geografia spagnola i diritti del lavoratore vengono calpestati come
nel ponente almeriense. Il lavoratore viene braccato dalla polizia, come
nella caccia ai conigli: si effettuano ronde notturne in cerca di «illegali»
e molti lavoratori che vivono in alloggi di fortuna costruiti con materiali
di recupero, allertati dalle luci dei fari, si danno alla fuga. Sono principalmente
maghrebini senza documenti di soggiorno, situazione molto appetibile per
gli impresari che possono ingannare il lavoratore, evitando di pagarlo
nei termini stipulati dal contratto nazionale di lavoro. Il nuovo contratto,
firmato nel 2000, parla di 39 euro al giorno per 36 ore alla settimana
ma la realtà è ben altra: 25 euro per persone che lavorano dall'alba al
tramonto. Quasi nessuno rispetta il contratto, anche perché non esiste
un controllo. L'unico controllo esistente è nei confronti degli immigrati.
Molti si ammalano, perché le condizioni di sicurezza sono ignorate e le
sostanze anticrittogamiche utilizzate senza misure di sicurezza: niente
guanti, mascherine, tute. Sono numerosi i casi di emicranie croniche,
tumori ai polmoni e alla pelle, con il risultato che diversi non possono
più lavorare, almeno in queste condizioni». Molti braccianti, dopo anni
di esposizione agli agenti chimici, si sono ritrovati impotenti. Secondo
le nuove regole, anche qui si è cercato di «schiarire» la manovalanza
importandola via charter dai paesi dell'Est europeo con regolare contratto
di lavoro (ciò che è successo per esempio nella provincia di Huelva, all'estremo
occidentale dell'Andalusia, dove per la raccolta stagionale delle fragole,
ai tradizionali lavoratori maghrebini e zingari portoghesi sono subentrate
volenterose ragazze dell'Est, innescando non pochi conflitti), ma «il
lavoro nelle serre è talmente estremo, quando all'esterno ci sono 40 gradi
dentro ce ne sono 50-60, che la maggior parte ha desistito dopo un mese.
Evidentemente solo gli africani sopportano, è il caso di dirlo, queste
temperature. Gli altri sindacati non hanno interesse a denunciare gli
impresari né le aggressioni, firmano gli accordi a tavolino e non ne controllano
quasi mai sul campo la messa in pratica, né ascoltano le opinioni dirette
dei lavoratori». I lavoratori, da parte loro, sotto il ricatto implicito
del lavoro nero sono costretti a far buon viso al cattivo gioco imprenditoriale,
salvo nei casi estremi. Di scioperi o proteste nemmeno a parlarne. L'Andalusia,
dove il 2% dei proprietari terrieri posseggono il 50% delle terre, è uno
dei veri e propri feudi del sistema del señorito, padrone di fattorie
e signore delle sue terre. Sistema di vassallaggio di tipo feudale nel
quale, fino a poche generazioni fa, vigeva ancora il sistema dello ius
primae noctis. Il signore comandava sulle sue genti. Gli attuali impresari
de el Ejido, molti dei quali figli di ex braccianti o che hanno vissuto
l'esperienza dell'emigrazione, replicano un sistema centenario basato
sullo sfruttamento sistematico, grazie alle labili leggi che governano
il mondo del lavoro. «Come Soc abbiamo chiesto per tre volte un incontro
con il sindaco per parlare dell'immigrazione, dei problemi dei braccianti,
delle condizioni abitative e regolarmente si è rifiutato di incontrarci.
Ultimamente abbiamo organizzato un incontro e chiesto al comune un locale.
Non ci hanno concesso una sala e abbiamo dovuto ricorrere all'aiuto di
Mohamed Boutarfaz, organizzando la due giorni nel suo locale, durante
un fine settimana. Il lunedì seguente il locale è stato saccheggiato da
sconosciuti e la polizia municipale ha eseguito una perquisizione chiedendo
a Mohamed tutti i documenti, i permessi ecc. È chiaro che il sindaco non
vuole sentir parlare di immigrazione, soprattutto se maghrebina». La tv
trasmette Al Jazeera Tra un tè arabo e l'altro, sullo sfondo la televisione
trasmette Al Jazeera. Abdelkader mi presenta Abdel Ouahid Hammouch, responsabile
del Bar el Tubo e involontario protagonista di uno degli ultimi episodi
di violenza. «Sono qui dal 1988. Arrivai in Spagna su di una barcaccia,
clandestinamente. Avevo 29 anni. A quel tempo non c'erano quasi emigranti.
Trovai lavoro come guardiano di bestiame e ci rimasi per sei anni, poi
lavorai nell'edilizia fin quando riuscii a portare qua la mia famiglia,
nel 1998. Vivevo in una casa all'interno dei terreni della fattoria. Ho
otto figli e quando il maggiore ha compiuto diciotto anni ci siamo messi
d'accordo per aprire un bar, così affittammo un locale. E da li nacquero
i problemi». Agli inizi di maggio si presentarono al bar due agenti della
polizia municipale: quello che doveva essere un normale controllo di routine
trasformò il locale in un saloon di un film del West dopo una rissa: finestre
rotte, porte fracassate, tutto per terra... Gli agenti parlano di provocazione,
la famiglia che ha in gestione il bar denuncia una vera e propria aggressione
da parte delle forze di polizia, in seguito a una discussione su un presunto
numero sbagliato della licenza. Risultato, quattro membri della famiglia,
Ouahid e tre figli, tra cui uno quattordicenne, finiti all'ospedale per
percosse. La madre e la figlia da allora non escono più di casa. Sembra
che a el Ejido ci sia un poliziotto municipale che si fa chiamare Sharon,
uno che semina spavento tra gli immigrati. «In Israele c'è uno Sharon
che fa fuori i palestinesi... qui ad Almeria ce n'è uno che non lascierà
vivo nemmeno un marocchino». Yahoud, il figlio diciannovenne di Ouahid,
sa cosa significhi sopportare Sharon: «Mi ha già minacciato due o tre
volte. Mi disse che mi avrebbe rotto la testa. A lui piace dire che è
Sharon e che noi lo malediciamo. Fa sempre la stessa cosa, ti ferma per
chiederti i documenti e se non li hai ti pesta e poi ti porta in commissariato,
dove continua a pestarti». Sembra che il succitato Sharon circoli per
le strade de el Ejido con uno sfollagente metallico allungabile, coltello
a scatto e spray anti-attacco, accessori certamente non in dotazione alla
polizia municipale. «In generale i problemi nacquero a partire dai fatti
del 2000. Prima di allora i rapporti con la popolazione locale erano cordiali,
poi si sono via via deteriorati. Adesso i marocchini non sono più benvenuti,
ci è proibito l'ingresso in certi locali. Andavo spesso a prendere il
caffé in un bar vicino casa, ma dopo il 2000 il barista mi fece intendere
che era meglio che smettessi di farmi vedere. Spesso si sente per la strada
qualcuno che mormora «Moro (aggettivo dispregiativo utilizzato in Spagna
per indicare persone originarie del Maghreb, dalla pelle scura, ndr) di
merda, tornatene a casa tua». Purtroppo anche nelle scuole, a partire
dalle medie, i nostri figli devono sopportare gli insulti. El Ejido è
un paese senza legge, non importa quello che fai, se sei bianco: resterai
sempre impunito. Loro cercano lo scontro, la polizia e le istituzioni
non fanno nulla per abbassare il livello di tensione». Si inserisce Mohamed
Boutarfaz, presidente dell'associazione El Uafa 2000: «Prima si parlava
della scuola, qui non si fa nulla a livello educativo, si ricevono stanziamenti
dell'Unione europea per programmi che favoriscano l'integrazione ma per
il momento non abbiamo visto nulla. Tutto si basa sull'iniziativa privata
e sulla coscienza di certe persone ma con l'aria che tira... è difficile
che qualcosa cambi. Forse tra due o tre generazioni, se cominciano a far
qualcosa nelle scuole...». (Questo reportage è stato possibile grazie
all'aiuto di Ana Lopez, giornalista di Almerìa, di Abdelkader Chacha,
sindacalista del Sindicado de Obreros del Campo, di Ouahid Hammouch, degli
amici della Cafeteria Teteria e di Mohamed Boutarfaz, presidente dell'associazione
el Uafa 2000)
|