Immigrati, territorio e politiche urbane. Il caso italiano

Pier Luigi Crosta, Andrea Mariotto e Antonio Tosi

 

In Italia l’immigrazione è un fenomeno accentuatamente urbano e le ragioni dell’attrazione che le città esercitano vanno tenute presenti come condizioni importanti nel determinare inserimento o esclusione. Tuttavia questa caratterizzazione è poco illuminante se non viene incrociata con un altro dato, la forte regionalizzazione del problema. Le dinamiche dell’inserimento urbano vanno comprese sulla base dei diversi sistemi regionali/locali (le differenze relative ai caratteri della presenza immigrata, ai contesti, ai tipi di politiche locali) e per le connessioni a scala del territorio nazionale che queste differenze comportano (in questi anni le progressioni nei percorsi di inserimento per molti immigrati è coinciso con gli spostamenti territoriali dal Sud al Nord del paese).

Un altro dato da tenere presente per comprendere l’inserimento urbano degli immigrati è la relativa debolezza in Italia - pur nella varietà dei modelli locali e della diversa efficacia che le dimensioni integrative hanno conseguito nelle politiche locali - delle politiche integrative dell’immigrazione: per insufficienze delle politiche ad hoc, ma ancor più per i limiti costituiti dalle condizioni di contesto e dalle generali politiche di welfare.

La casa rappresenta la più critica delle condizioni urbane dell’inserimento degli immigrati. Nonostante la grande varietà di condizioni, il dato generale è un massiccio coinvolgimento degli immigrati in situazioni di disagio e di esclusione abitativa. Molti immigrati non poveri sono mal alloggiati, immigrati normalmente poveri sono spesso senza casa. Le loro sistemazioni sono tendenzialmente peggiori o più costose di quelle accessibili a popolazioni locali con le stesse caratteristiche di reddito. Sistemazioni precarie riguardano facilmente anche immigrati che hanno lavoro e reddito. L’ampiezza del disagio e dell’esclusione tra gli immigrati, e il fatto che questi problemi colpiscano anche immigrati regolari e immigrati che lavorano, chiama in causa le politiche.

In diverse aree è stato segnalato per gli ultimi anni un certo incremento di soluzioni propriamente abitative o di soluzioni ‘autonome’ e un certo ridimensionamento delle soluzioni (esplicitamente) precarie e di quelle assistite. Il quadro evolutivo risulta tuttavia problematico. Quello che probabilmente sta avvenendo - almeno nelle città del Centro-Nord - è una polarizzazione delle sistemazioni abitative: un miglioramento per quote di immigrati stabilizzati/inseriti, una persistente precarietà o un peggioramento per altre componenti, quelle più deboli e quelle all’inizio del percorso migratorio.

Le evoluzioni di questi anni sono l’effetto combinato di cambiamenti nei dati dell’immigrazione e di cambiamenti che si sono verificati nei mercati e nell’offerta abitativa. Sul versante della popolazione immigrata, diversi fattori hanno contribuito a una trasformazione della domanda abitativa: la stabilizzazione di notevoli quote della popolazione, la crescita della componente famiglie (per ricongiungimento o per formazione di nuove famiglie), la diversa composizione dei nuovi arrivi, che comprende nuove figure, in parte dotate di risorse (motivazionali, educative ecc.) più modeste rispetto a quelle tipiche delle fasi precedenti. Per quanto riguarda l’offerta, dati rilevanti sono il relativo peggioramento del mercato dell’affitto e la scarsa innovatività del quadro istituzionale per quanto riguarda la domanda marginale.

L’insediarsi per famiglie significa domanda di case, nel senso di sistemazioni e tipologie propriamente abitative, piuttosto che di strutture di accoglienza, pensionati ecc. La crescita di questo tipo di domanda è in realtà rafforzata da tutti i cambiamenti che sono tipici della ‘seconda fase’ dell’immigrazione: i processi di stabilizzazione, ma anche le progressioni individuali che possono verificarsi anche in assenza di progetti di stabilizzazione. Questa domanda nella stragrande maggioranza dei casi significa domanda di affitto, nella maggioranza dei casi economico o molto economico.

La maggior domanda di affitto urta però contro la cronica ristrettezza dell’offerta e contro il relativo peggioramento che nel frattempo si è verificato nel mercato dell’affitto in molte aree urbane. Mentre persiste lo squilibrio tra domanda e offerta per quanto riguarda l’edilizia pubblica, le opportunità offerte dal mercato dell’affitto privato (regolare) sono diminuite: si è ridotta l’offerta accessibile a popolazioni a reddito moderato o basso, si è ridotta anche l’offerta marginale. Questa strozzatura significa che diventa più difficile percorrere carriere abitative, del tipo che molti immigrati realizzavano in passato. Potrebbe inoltre verificarsi un ulteriore degrado dei mercati dell’affitto e del quasi-affitto e una loro ulteriore informalizzazione. Questo quadro potrebbe comportare gravi ostacoli all’inserimento degli immigrati e all’evoluzione dei loro percorsi.

Se aggiungiamo che l’evoluzione in corso comporta anche una accresciuta variabilità e complessità della domanda, possiamo immaginare come la problematica abitativa posta dall’immigrazione risulti oggi perfino più difficile che in passato e tale da richiedere un consistente sforzo di innovazione delle politiche. Non è soltanto in questione la debolezza per così dire storica delle politiche o la loro inadeguatezza quantitativa: c’è anche la difficoltà di costruire politiche positive in un momento in cui aumentano le pressioni a favore di misure di tipo repressivo e cresce lo spazio per interventi finalizzati al controllo piuttosto che all’integrazione. Inoltre l’evoluzione della problematica ha accelerato l’obsolescenza degli schemi su cui le politiche - sia quelle per immigrati sia le generali politiche abitative sociali - si sono fondate.

La debolezza delle politiche abitative sociali generali, alle diverse scale, ha costituito la principale ragione delle difficoltà abitative degli immigrati. Due aree si sono rivelate particolarmente critiche: l’estrema ristrettezza di un’offerta di affitto accessibile e l’insufficiente trattamento dei processi in cui si intrecciano povertà abitativa e rischi di marginalizzazione o di esclusione sociale. Il grosso del disagio degli immigrati si concentra in queste due aree di problemi. Queste sono aree problematiche che coinvolgono in misura rilevante anche popolazioni non immigrate e sono inoltre aree sguarnite, aree per le quali si può registrare, sul piano delle politiche, un deficit strutturale: la scarsità dell’offerta sociale pubblica, l’incapacità di produrre un consistente mercato dell’affitto (socialmente accessibile); l’assenza di efficaci politiche mirate rivolte all’area della povertà.

A livello sia nazionale che regionale che comunale è stata - lungo tutti gli anni Novanta - l’interazione tra questo genere di limiti e i limiti delle politiche specifiche rivolte all’immigrazione a indebolire l’efficacia integrativa dell’azione pubblica. In mancanza di adeguate condizioni di contesto, le spinte a favore di interventi di emergenza o assistenziali sono state particolarmente forti. Ciò non ha impedito comunque, in molte aree, la costruzione di politiche pubbliche ‘positive’, e una notevole innovazione delle formule di intervento.

Le innovazioni essenziali dovrebbero dunque muoversi in queste due direzioni: sviluppare un mercato (sociale) dell’affitto e introdurre politiche ‘più sociali’, che predispongano un’offerta molto economica e leghino più efficacemente politiche abitative e politiche di lotta contro la povertà.

Quello che ora costituisce problema è - ancora una volta - il ruolo delle condizioni di contesto: da un lato la scarsa disponibilità, ai diversi livelli, a innovazioni che aumentino effettivamente la portata sociale delle politiche abitative; dall’altro il ridursi dello spazio per le ‘buone pratiche’ come conseguenza del crescente squilibrio tra finalità di inserimento e finalità di controllo. L’inserimento urbano degli immigrati in Italia non corrisponde alle immagini che dominano il discorso pubblico e il dibattito disciplinare sullo spazio urbano dell’immigrazione, dibattito dominato dal tema della concentrazione/segregazione residenziale.

Certamente le situazioni sono diverse a seconda dei contesti regionali, delle circostanze dell’insediamento, dei modelli delle varie componenti dell’immigrazione. Ma nel complesso l’insediamento degli immigrati stranieri all’interno delle nostre città manifesta modelli scarsamente concentrativi; per quel tanto di concentrazione che si verifica, è documentata, in alcuni casi, una positività sia per la popolazione immigrata, sia per la società ospite.

Naturalmente questo non significa che l’insediamento sia territorialmente indifferenziato, che non si possano identificare aree con una maggior presenza (residenziale) di immigrati e anche aree ‘connotate’ dalla presenza immigrata. Tuttavia si tratta di variazioni territoriali contenute, se paragonate a quelle delle grandi città di altri paesi. Inoltre, e soprattutto, le presenze non assumono di solito le forme cui il dibattito sulla concentrazione fa riferimento che vengono associate a rischi di segregazione.

Quanto detto non significa né che i fenomeni concentrativi non possano crescere in futuro, né che su questa base non siano già in corso processi segregativi spazialmente organizzati.

La scarsa concentrazione dell’insediamento immigrato nelle città italiane può essere facilmente collegata a un certo numero di tratti che sono tipici del quadro italiano: la grande eterogeneità per quanto riguarda l’origine etnica/nazionale dell’immigrazione; un mercato abitativo meno segregativo che in altri paesi; il fatto che non sia avvenuta da noi una gestione etnica dell’edilizia sociale; il mix sociale che si riscontra tuttora nel tessuto urbano; la scarsa concentrazione territoriale della povertà.

Anche per altri paesi, dove i fenomeni concentrativi sono ben più cospicui, sono state sollevate obiezioni sia sulla reale entità dei fenomeni concentrativi, sia sulle loro conseguenze segregative o relegative. La indubbia esagerazione nel sottolineare gli aspetti negativi dei processi di concentrazione, come anche l’eccessiva attenzione che viene prestata a questo fenomeno, portano l’attenzione sul carattere ideologico del tema. Un sistema ideologico che si muove su un doppio registro: il rifiuto della concentrazione, per i rischi che comporta; la celebrazione delle sue virtù, in qualche modo argomentando sulla supposta tendenza naturale degli immigrati a raggrupparsi.

Un certo rifiuto della concentrazione degli immigrati contiene una svalutazione della loro presenza, una rappresentazione negativa, che stabilisce come orizzonte delle politiche la difesa dal rischio immigrazione. Oppure questo rifiuto traduce particolari modelli integrativi, di tipo assimilazionista, fondati sull’idea di inserimento individuale. Nel primo caso il rifiuto finisce per essere una risorsa utilizzata nella costruzione del conflitto legato all’immigrazione, svelando un senso principale dell’intera ideologia: la concentrazione viene costruita nel/per il conflitto. In entrambi i casi l’esito può essere la cancellazione dal tessuto urbano delle tracce visibili della presenza immigrata.

In secondo luogo, come si è detto, l’accento convenzionale sulla concentrazione/segregazione rischia di non riconoscere l’importanza dei processi di segregazione e di esclusione che non hanno rilevanti, o evidenti, dimensioni spaziali: ad esempio la segregazione delle reti sociali, o di processi in cui le dimensioni spaziali sono importanti, ma la cui base non è residenziale, come i processi relativi all’uso e all’appropriazione degli spazi pubblici.

Nel complesso, in Italia, il quartiere e l’insediamento/localizzazione residenziale sembrano meno importanti nel costituire le basi attorno alle quali si giocano i problemi di inserimento e di coabitazione di quanto lo siano i processi di segregazione non spaziali (l’isolamento, la separazione delle reti sociali degli immigrati) e - per quanto concerne gli spazi - la presenza negli spazi pubblici. È soprattutto attraverso l’uso degli spazi pubblici urbani che la presenza degli immigrati marca il territorio. Da un lato è la presenza nei/dei luoghi delle attività imprenditoriali, dei ristoranti, dei luoghi di ritrovo. Dall’altra, in qualche modo speculare e complementare alla loro scarsa visibilità residenziale, è l’uso intensivo, specifico e altamente visibile degli spazi pubblici della città - delle piazze, dei parchi, delle strade - come luoghi di incontro, di scambio di informazioni, di attività economica.

È possibile che le modalità dell’inserimento urbano degli immigrati sia in rapporto - anche consequenziale - con le strategie di inclusione che sono state prevalenti nelle politiche italiane e che riflettono modelli di interazione tra autoctoni e immigrati particolarmente diffusi in questo paese. Certamente le politiche locali mostrano una notevole varietà e una competizione tra strategie e concezioni differenti - alcune più orientate all’integrazione della popolazione straniera, altre al controllo oppure all’assistenza. Ma è possibile riconoscere il prevalere, soprattutto nelle città del Centro-Nord, di strategie di ‘inclusione subordinata’: gli immigrati sono visti come una risorsa e ciò comporta un atteggiamento favorevole alla loro inclusione degli immigrati nel sistema produttivo, ma non alla loro integrazione culturale e politica. L’atteggiamento collettivo che sta dietro queste politiche si può riassumere in quel wanted but not welcome che caratterizza il punto di vista di molta popolazione nelle aree del Centro-Nord.

Per quanto riguarda gli approcci prevalenti, adottati dalle amministrazioni locali nel trattamento delle questioni legate alla presenza di popolazioni straniere sul territorio di propria competenza, le differenze sono sostanzialmente riconducibili alla quantità di risorse messe in gioco e alle modalità di interazione tra attori istituzionali e non. Come evidenziato dalle interviste effettuate ad alcuni policy maker, le città italiane presentano un’ampia gamma di stili nella produzione di politiche pubbliche dell’immigrazione. Si va infatti da contesti in cui l’azione amministrativa si caratterizza per scarsità di risorse e di progettualità, ad altri in cui al pronunciamento sui principi e sugli aspetti formali da conferire alle politiche non segue, nei fatti, la predisposizione di strumenti per l’attuazione di iniziative concrete. Da contesti in cui prevalgono meccanismi regolativi tesi al controllo sociale, alla base dei quali è più evidente la connessione diretta operata tra popolazioni straniere e problemi di ordine pubblico, ad altri in cui le istituzioni assumono generalmente un atteggiamento caritativo-assistenziale, più o meno paternalistico, nella produzione di soli servizi di prima accoglienza a beneficio delle fasce in condizioni più disagiate, fino a contesti in cui decisioni e azioni della pubblica amministrazione sembrano maggiormente concertate, così da impiegare e sviluppare le progettualità espresse da altri attori locali. Tale varietà di approcci è tanto più significativa se si pensa alla sostanziale omogeneità dei percorsi storici che hanno condotto all’attuale entità del fenomeno immigrazione nelle città italiane e deriva generalmente da una posizione ‘reattiva’ più che ‘attiva’ assunta da parte di decisori e operatori, rispetto a un fenomeno percepito come nuovo, emergente, instabile e inafferrabile entro gli schemi tradizionali d’azione e di distribuzione dei ruoli. Tali carenze delle strutture amministrative locali sono aggravate dalla scarsità di occasioni di scambio e interazione tra le città, cui si associa la mancanza di un ruolo di guida o di orientamento da parte di organi sovralocali.

Con la considerazione delle sole politiche amministrative specificamente rivolte agli immigrati, la varietà di approcci e stili non sembra, tuttavia, avere ripercussioni significative sulle condizioni complessive degli immigrati (e ciò è confermato dal fatto che i servizi prodotti in un dato contesto non sembrano costituire mai un fattore di attrazione). Si può dire piuttosto che la presenza di popolazioni straniere ha effettivamente contribuito all’innovazione dei modi di operare in alcuni settori, come la scuola e la formazione in genere e ha comportato talvolta un adeguamento delle strategie comunicative o la creazione di servizi che arricchiscono il patrimonio pubblico della città.

Ciò che gran parte degli stranieri trova nelle città italiane al di là dei servizi specifici, è pertanto una combinazione di politiche ordinarie, risorse messe in campo anche indipendentemente da processi decisionali istituzionalizzati, fattori socio-culturali di cui il contesto è storicamente dotato. E tale combinazione interagisce con gli elementi, più interni alle comunità, in base ai quali si formano reticoli etnici e si riproducono frammenti delle strutture sociali tipiche delle culture di origine.

Da una parte, quindi, va posta maggiore attenzione alla composizione dell’utenza delle politiche ordinarie. Tra queste ultime, quelle di cui sembrano maggiormente beneficiare le popolazioni straniere sono: mobilità, formazione, lavoro, telecomunicazioni, servizi bancari, commercio al dettaglio, semplificazione burocratica. D’altra parte sono da cogliere (e favorire) le diversità nei modi d’uso e le funzioni aggregative di spazi pubblici (altrimenti dismessi), spazi commerciali, strutture per il tempo libero, servizi quartierali o parrocchiali, in quanto, solo attraverso una pluralità di pratiche d’uso un dato luogo viene ‘costruito’ socialmente come bene comune urbano.