Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati
SECONDO RAPPORTO SULL'INTEGRAZIONE DEGLI
IMMIGRATI IN ITALIA
APPROFONDIMENTI
CAPITOLO 3.5
L'ISLAM CONTEMPORANEO IN EUROPA E IN ITALIA
FRA AFFERMAZIONE IDENTITARIA E NUOVA RELIGIONE MINORITAR1A
1. Delocalizzazione
e riformulazione dell'islam
Le questioni relative
all'islam attraversano oggi le società occidentali, spesso come eco di
situazioni di crisi che nel mondo musulmano lavorano quelle società
dall'interno: il radicalismo islamico si prolunga anche in Occidente attraverso
i mass media. (1)
Tradizionalmente in Europa lo
studio dell'islam si è svolto nell'ambito dell'islamologia, vale a dire lo
studio della dogmatica dell'islam, del pensiero religioso e filosofico e della
storia del mondo musulmano di area essenzialmente araba. Questo approccio,
legato all'orientalismo classico, (2)
non sempre è in grado di decodificare ciò che è nuovo nei movimenti dell'islam
contemporaneo. Da circa vent'anni la ricerca sull'islam si è dunque spostata
nel campo dell'analisi sociopolitica dei movimenti islamisti (3) con l'obiettivo di analizzare le strategie
politiche di quei movimenti, che attraverso la contestazione islamica e
l'azione politica intendono instaurare uno Stato islamico. Mentre le discipline
orientalistiche analizzavano questo mondo con i parametri del mondo antico, un
mondo scomparso, le scienze sociali si sono interessate alla decodificazione di
tutto ciò che era nuovo in queste culture. Si assiste dunque da un lato a una
sovravalorizzazione o ipertrofia dell'islam politico ‑ sempre proposto
dai mass media in una visione univoca dell'islam (4)
‑ e dall'altro una visione per altri versi riduttiva e quasi peggiorativa
dell'islam, visualizzato nel suo corpus, il Corano e la tradizione profetica
(Sunna), e nelle quattro scuole di interpretazione giuridica. (5) Tutto ciò concorre a enfatizzare la distanza
storica dall'Occidente e l'impossibilità ermeneutica di un islam che non
avrebbe ancora trovato il suo aggiornamento, la sua riforma. La risposta alla
grande questione dell'ermeneutica nell'islam sarebbe, in quest'ottica, che
l'islam è irriformabile. Ne risulta che l'islam è sempre chiamato a dimostrare
la sua capacità di vivere in una società laica.
Questi due ordini di discorso
impediscono di riconoscere quanto è veramente all'opera nell'islam
contemporaneo, sia nei paesi di tradizione islamica che nei paesi europei che
ospitano importanti comunità musulmane: Francia, Belgio, Gran Bretagna,
Germania, e oggi l'Italia. La sociologia delle religioni ha spesso riconosciuto,
nelle forme contemporanee della prassi religiosa, il cosiddetto ritorno del
religioso oppure il reinvestimento del sacro, come evidenziato dalla sociologa
Hervée Lejeu. (6) In realtà nessuno di
quei fenomeni può essere letto in una dimensione univoca: la loro complessità
richiede una molteplicità di analisi che dovrebbe rendere limpidità e
trasparenza a situazioni che sono sempre in qualche misura opache a una lettura
univoca. Cosicché, se il neofondamentalismo è stato definito come un ritorno
del religioso, si tratta però di un religioso che è frutto della stessa
modernità che aveva chiuso definitivamente con una certa visione della
tradizione. Questo fenomeno ha provocato una reazione nei paesi islamici,
facendo emergere nuovi attori che dissentivano sul ruolo da attribuire
all'islam nella società, cosicché donne, insegnanti, intellettuali, artisti,
difensori dei diritti dell'uomo hanno finito per aprire una breccia nelle
società musulmane, favorendo in esse una nuova forma di secolarismo.
L'enfatizzazione del discorso politico dell'islam ha provocato una
controrisposta che si è definita e si sta tuttora definendo su un registro
laico, come nel caso del dibattito fra islam pubblico e islam privato che si
svolge in alcuni paesi, tra i quali l'Algeria e l'Turchia. Molto studiosi oggi
non esitano a parlare di post‑islamismo, e molte ricerche rilevano un
passaggio in atto dall'islam politico all'islam‑cultura.
Il ritorno del religioso non
sarebbe dunque che una verità apparente, che in realtà nasconde dei mutamenti
di altro ordine tuttora in atto in queste società. L'analisi dei rapporti fra
islam e politica nel mondo islamico mira a chiarire la natura di queste
trasformazioni.
2. Islam e
politica: dai luoghi comuni alla realtà delle espressioni politiche
E' un luogo comune affermare
che nell'islam vi sarebbe coincidenza fra religione e politica. Lo affermano
sia i fondamentalisti islamici che alcuni autori occidentali, i quali ritengono
il compromesso con l'islam difficile o impossibile. Questa stessa tendenza è
riaffermata oggi da alcuni movimenti politici, secondo cui uno spazio
pubblico dell'islam
risulterebbe incompatibile con la tradizione democratica occidentale (si vedano
i discorsi della Lega, di alcuni esponenti di AN, del Front National in
Francia, ecc.). (7) Un importante
segmento della storia del mondo musulmano dimostra, però che solo pochi regimi
hanno avuto una legittimità e un fondamento religioso. I principi e gli emiri
del passato, oggi i presidenti pervengono al potere per vie che spesso non
hanno nulla a che vedere con la concezione islamica del potere politico. (8) Tutti i regimi musulmani, dopo il periodo del
profeta, chiamato periodo medinese (622‑632), e dei suoi quattro
successori tradizionalmente chiamati i «califfi ben diretti», hanno sviluppato
un diritto pubblico e una prassi di poteri privi di un rapporto diretto con la
dottrina islamica. Paradossalmente, lo spazio del politico è sempre stato ed è
ancora oggi sostanzialmente laico, secondo i criteri occidentali dei laicismo
applicati all'islam.
Bisogna altresì precisare che
non esiste un'istituzione ecclesiastica nell'islam sunnita, chiamato anche
islam ortodosso, che comprende circa l'85% della umma (comunità
islamica). Gli ulema (plurale di alim), dottori della legge o
giureconsulti, sono diplomati provenienti dalle grandi scuole religiose (madrasa),
come l'università di Al Azhar per l'Egitto, Medina per l'Arabia Saudita, la
Qarawyyn a Fez per il Marocco, la Zaituna a Tunisi per la Tunisia, ecc. Essi
costituiscono molto più una corporazione professionale, il cui compito consiste
nell'assicurare un controllo dei diritto personale e della censura dei costumi,
che un'entità a vocazione politica. In effetti, mai prima della rivoluzione
iraniana del 1979, gli ulema avevano avocato a sé il potere politico. Il
loro rapporto con il potere era fondato su un compromesso e un contratto: gli ulema
accettavano qualunque potere di fatto, purché avesse attinenza con la
difesa dell'islam, insieme al mantenimento dei privilegi tradizionalmente loro
accordati. Oggi lo Stato ‑ costruzione recente per la gran parte dei
paesi musulmani ‑ utilizza diversi modi per controllare il corpo degli ulema,
che è in effetti istituzionalizzato: tutti i governi nel mondo islamico
hanno un ministero degli Affari religiosi, chiamato ministero degli Habus nei
paesi del Maghreb, ministero degli Waqf (beni di manomorta) nel Machreq
e nell'islam periferico (Asia centrale, Indonesia, India, Israele, ecc.). La
stessa Turchia laica non ha cancellato l'istituzione di un ministero degli
Affari religiosi, il celebre Dianet. I compiti di questi
ministeri sono legati alla gestione dei beni di manomorta, al controllo degli
enti che devono formare gli ulema, e soprattutto al controllo della
tassazione islamica (zakat). Questo contratto fra il potere politico e
la corporazione degli ulema implica una forma di scambio basata
essenzialmente sul mantenimento dei loro privilegi. Storicamente, gli ulema si
sono sempre accontentati di legittimare il potere politico garantendogli
libertà di azione nel legiferare e imporre la sua volontà. Non si conoscono
rivoluzioni o sollevamenti che siano partiti dall'ambiente degli ulema. Questa
situazione ha molte similitudini, con tutti i limiti del parallelismo, con il
rapporto tra Stato e chiesa ortodossa nel mondo slavo. Gli specialisti hanno
sottolineato come, nell'Afghanistan degli anni '80, dopo il colpo di stato
appoggiato dall'ex Unione Sovietica, gli ulema si fossero
accomodati negli spazi offerti dal nuovo potere appoggiato dall'Urss. (9)
Questo compromesso tradizionale è tuttora largamente dominante nella maggior parte dei paesi islamici di oggi. In effetti, a parte la Turchia, che nella sua Costituzione si definisce una repubblica laica, e all'altro estremo l'Iran la cui Costituzione presuppone la creazione di uno Stato islamico, la maggior parte delle Costituzioni dei paesi musulmani sanciscono un compromesso: l'islam è religione ufficiale o religione dei capo dello Stato, anche in paesi «laici» come la Siria, la Tunisia, la Giordania.
Il diritto relativo allo
statuto personale è molto più ispirato alla shari'a (legge islamica) in
un paese come il Marocco che in Tunisia, dove già nel 1956 la Costituzione
valutò alcuni elementi del regime matrimoniale dell'islam antitetici a una
visione autonoma e progressista del diritto, vietando la poligamia e
modificando in parte il diritto della successione. Negli altri ambiti giuridici
‑ diritto penale, diritto pubblico, diritto commerciale, regimi politici ‑
la relazione con l'islamità nelle sue diverse interpretazioni è meno diretta.
Il posizionamento degli
stessi attori musulmani nei confronti dell'islam varia dunque in funzione del
contesto storico, delle tradizioni culturali che variano da paese a paese, e
dell'impatto della modernità che talvolta ha destrutturato intere società ‑
come nel caso algerino ‑ o ha modificato il rapporto stesso con la
modernità politica. (10) Questo
fenomeno, anch'esso complesso, ha posto le basi di ciò che viene chiamato
l'ideologizzazione dell'islam.
3. Un nuovo
posizionamento politico: l'ideologizzazione dell'islam
Un fenomeno inedito nella
storia del mondo musulmano è l'emergere, a partire dagli anni '20‑'30 del
novecento, di movimenti politico‑religiosi che sono, a loro modo,
profondamente moderni. L'egiziano Hassan al Banna creò nel 1929 l'associazione
confraternita dei Fratelli Musulmani; suo nipote, Tarek Ramadan, residente in
Svizzera, docente di filosofia al liceo, funge a tutt'oggi da leader
carismatico di parte dei giovani musulmani immigrati in Europa. (11) All'altro estremo geografico del mondo
musulmano, nel subcontinente indiano, Abdul al Mawdudi fondò nel 1941 la Jamaat
Islamiyya. Questi due movimenti, che avranno un'eco importante in tutto il
mondo musulmano durante il XX secolo, hanno introdotto una rottura nei confronti
del ruolo tradizionalmente svolto dalla corporazione degli ulema.
Si tratta degli islamisti che
vedono nell'islam in primo luogo un'ideologia politica. Per loro le società
musulmane di oggi non hanno più nulla di islamico, perché gli Stati che le
governano non si sono ispirati ai principi islamici. L'unico modello di società
islamica che riconoscono è quello dell'epoca del profeta Mohammed e dei suoi
quattro successori, chiamato anche paradigma medinese, in cui lo spazio del
religioso e quello del politico si intrecciano strettamente. Nell'islamismo
radicale, la questione dello Stato è al centro della riflessione politica: per
essi non basta applicare la legge musulmana (shari'a), come pensano gli ulema
fondamentalisti, bisogna creare un sistema politico islamico. Il pensiero
radicale è stato formulato in particolare da Sayyd Qutb (1906‑1966),
principale ideologo dei movimenti islamisti contemporanei. (12)
I movimenti messi in moto dai
segmenti dell'islam contemporaneo non sono semplici partiti politici, o partiti
nel senso tradizionale della parola: il rapporto fra mistica e politica è così
forte che spesso queste organizzazioni si ispirano al tradizionale modello
delle confraternite religiose (turuq, sing. tariqa), in cui ogni
membro o adepto è chiamato a cercare ciò che chiamano l'islam autentico,
decontaminandolo da tutte le aporie della storia, sotto la direzione spirituale
di una guida (mahdi) o di un capo (amir). Allo stesso
tempo sono anche organizzazioni sociopolitiche, che mirano a mobilitare i
diversi settori della società, per preparare il loro arrivo al potere,
attraverso elezioni o con altri mpzzi quali strategie eversive, lotta politico‑militare,
ecc. I movimenti del radicalismo islamico hanno tratto dunque dai movimenti
progressisti alcune forme moderne di organizzazione della società (sindacati
professionali, movimenti della gioventù, movimenti femminili eccetera). Come si
è visto nell'Irak degli anni '60‑'70, nel Libano degli anni '80, (13) nell'Algeria degli anni '90, i radicali hanno
sviluppato tutte le forme della moderna comunicazione politica, utilizzando
supporti come club e associazioni, raduni sportivi, biblioteche, conferenze, e
oggi Internet. Questo militantismo, che spesso ha attecchito nelle zone di
grande concentrazione urbana segnate da crisi economiche endemiche e situazioni
sociali degradate, ha sviluppato una forte azione caritativa: prestito senza
interesse tramite nuove forme bancarie islamiche, dote per le ragazze povere, trasporto
gratuito per gli studenti, assistenza sanitaria eccetera. E' evidente che
questo sistema ha spesso colmato un deficit dello Stato e talvolta si è anche
sostituito ad esso (è significativo in proposito il caso algerino negli anni
'80 e '90), consentendo una crescita esponenziale del fenomeno fino agli anni
'90. Storicamente il fenomeno non è nuovo: queste attività si erano sviluppate
già nell'Egitto degli anni '50, e in seguito nelle popolazioni sciite del nord
dell'Irak e del Libano, in particolare della valle della Bekaa e della zona di
Tiro e Sidone. Più recentemente il partito Refah in Turchia e il Fronte
Islamico di Salvezza in Algeria hanno sviluppato la stessa strategia; non a
caso il logo del FIS è: «Eravate sul bordo di un abisso di fuoco e siete stati
salvati» (estratto dalla Sura 3, La famiglia di Imran).
Va sottolineato però che nel
mondo sciita, al contrario di quanto avviene nel mondo sunnita, questa
mobilitazione, iniziata negli anni '60, si è svolta non per il tramite di
organizzazioni politiche, bensì del clero sciita, coniugando in modo eclettico
visione terzoniondista e specificità rivoluzionaria sciita. Intorno agli anni
'70 un teologo come Ali Shari'ati sviluppò una forma di teologia della
liberazione; altri teologi sciiti, in particolare l'ayatollah irakeno Baqer al‑Sadr
e l'ayatollah Khomeini, partendo dalla specificità sciita, approdarono a una
vera e propria costruzione rivoluzionaria. (14)
Il fenomeno che emerge a
partire dagli anni '70, è dunque quello dell'islam della contestazione e
dell'islam militante contemporaneo. (15)
I movimenti islamisti divengono, negli anni '70, la principale forza di
opposizione nei paesi del Medio Oriente e del Nordafrica e tra i movimenti
studenteschi islamici in Europa.
Tre fattori principali sono
all'origine di questo fenomeno, per i paesi usciti dal periodo post‑coloniale:
in primo luogo l'usura del potere; secondariamente, la disastrosa sconfitta
araba nella guerra dei sei giorni contro Israele, un autentico trauma per
l'intellighenzia araba e musulmana che la sospinge alla ricerca di nuovi
valori, tra cui l'islamismo sarà la pietra angolare, in opposizione a un
nazionalismo sempre più debole nella formulazione dei valori politici; infine,
un cambiamento socioeconomico che sconvolgerà in poco tempo l'intera società
tradizionale dei paesi islamici, vale a dire la rapida urbanizzazione e la
nascita di nuovi agglomerati metropolitani in conseguenza dell'esodo rurale e
della crescita demografica, con la scolarizzazione di massa, l'accesso
all'istruzione universitaria per la gioventù nata dopo la decolonizzazione,
l'ingresso della donna nella vita attiva.
Le correnti, le élite
islamiste sono dunque il prodotto di questa modernizzazione; i nuovi quadri, i
nuovi funzionari sono spesso giovani urbanizzati, formati presso facoltà
scientifiche che, anche se provengono da famiglie di tipo tradizionale, hanno
acquisito in patria una cultura già occidentalizzata oppure perché, nel caso
delle famiglie più agiate, la loro formazione universitaria si è svolta in un
paese occidentale. Lo stesso Ali Shariati studiò con l'orientalista Jacques
Berque e conseguì un dottorato a Parigi. Ma alla formazione di queste élite non
sempre corrisponde la loro promozione in uno spazio sociale e politico,
semplicemente perché il potere in uno Stato di tipo neopatrimoniale (16) è controllato da un complesso sistema
segmentario a base clientelare; il potere dunque si autoriproduce impedendo il
ricambio delle élite. Il risultato è una contestazione politica al di fuori
delle ideologie ufficiali. Questo fenomeno è all'origine della crisi del Fronte
di Liberazione Nazionale in Algeria e dell'ideologia nasseriana in Egitto.
Parallelamente alle élite è apparsa una nuova classe popolare, risultato delle trasformazioni strutturali di queste società, della crescita del mondo urbano e della destrutturazione dei gruppi che hanno lasciato il mondo rurale per affacciarsi al mondo urbano. Questi gruppi di recente urbanizzazione vivono male nelle moderne città e costituiscono gran parte della popolazione delle cinture urbane del Cairo, Algeri, Casablanca ecc. Essi andranno a costituire la massa dei futuri militanti islamici. Fra gli anni '80 e '90 le politiche del fondo monetario internazionale spingono questi paesi, in cui l'economia aveva come supporto il settore pubblico, a mettere fine all'espansione di quest'ultimo, provocando un considerevole aumento dei disoccupati, diplomati e non. E proprio alla fine degli anni '80, le politiche economiche di controllo della spesa pubblica si riverseranno direttamente sui generi di prima necessità: l'aumento dei prezzi di farina, latte, cous cous, riso ed altro, saranno all'origine di rivolte popolari in Marocco, Egitto e Algeria; la più celebre sarà la «rivolta del cous cous» in Algeria nell'ottobre 1988.
A questi dati sociali ed
economici si aggiunge una dimensione culturale del fenomeno, dovuta al contatto
della cultura occidentale con la società tradizionale. Il turismo di massa, la
televisione, la pubblicità, la promiscuità nella scuola, l'Occidente che arriva
tramite le antenne paraboliche, provoca ciò che lo studioso Dariush Shayegan (17) ha evidenziato nel suo saggio dal titolo
«Schizofrenia e terzo mondo». Un processo di attrazione e repulsione attraversa
la gioventù dell'islam, che però non ha i mezzi per accedere a questo nuovo
mondo; i movimenti giovanili nel mondo musulmano si trovano in bilico fra il
ripiegamento comunitario e la ricerca di un visto per l'Occidente.
Negli anni '80, i presupposti
per una nuova violenza politica si erano già innescati. La matrice
terzomondista rimaneva la stessa: mentre i loro padri fra la fine degli anni
'50 e gli anni '60 manifestavano e contestavano sotto la bandiera rossa ‑
ricordiamo il ruolo del partito Tudeh in Iran ‑ a partire dagli anni '80
questi giovani lo faranno sotto la bandiera verde dell'islam. Questo aspetto
dell'islam radicale troverà il suo apice nella rivoluzione islamica d'Iran nel
febbraio 1979: per la prima volta una rivoluzione popolare, condotta in nome
dell'islam, metteva fine a un regime che rappresentava il pilastro
dell'influenza occidentale nella regione. La rivoluzione islamica d'Iran ha
avuto un impatto considerevole in tutto il mondo musulmano, ma si è trattato di
un impatto soprattutto simbolico, emozionale; non ne è mai seguita una vera e
propria mobilitazione politica. Lo schema della rivoluzione bolscevica del 1917
in questo caso non ha funzionato, perché quella iraniana non ha dato nascita a
una serie di partiti islamici legati alla «patria dell'islamismo», fatta
eccezione per i partiti sciiti dei Medio Oriente come il gruppo Amal e gli
Hezbollah in Libano, il Consiglio della Rivoluzione islamica in Iran e i due
partiti sciiti in Afghanistan. Oggi lo scacco della rivoluzione islamica è
palese; nel caso iraniano la forte caratterizzazione dell'identità nazionale
ha impedito alla rivoluzione islamica d'Iran di funzionare da modello anche per
gli altri paesi islamici.
Mentre in Europa si credeva
che una «internazionale» dell'islam sul modello bolscevico avesse preso piede
nei paesi islamici, in realtà nei paesi in cui l'islam radicale aveva
attecchito, si stava sviluppando l'islamo‑nazionalismo sul piano politico
accanto un neofondamentalismo sul piano dei valori. Le organizzazioni islamiche
locali definivano le loro strategie in funzione dello Stato di appartenenza,
adottandone gli interessi strategici particolari. La guerra del Golfo può
essere considerata il banco di prova di questa tendenza: mentre i Fratelli
Musulmani del Kuwait condannavano l'invasione del loro paese, i Fratelli
Musulmani giordani la approvavano, e altri movimenti come il FIS in Algeria
assumevano posizioni ambigue. (18)
Assenza di coordinamento e di una vera strategia politica, importanza del
fattore locale e soprattutto nuovo impulso della categoria Stato‑nazione
nella cultura politica, hanno probabilmente minato le velleità
internazionaliste dell'islamismo radicale. E come afferma lo studioso Olivier
Roy, nell'islamismo radicale non sono gli islamici che si appropriano dello
Stato, ma è lo Stato che si appropria di loro.
L'islamo-nazionalismo è
dunque figlio di quel nazionalismo che, a partire dagli anni '50‑'60, con
le ideologie di liberazione nazionale aveva strutturato interi popoli in nome
di un paese liberato ed emancipato. E, anche se larga parte della legittimità
politica di questi paesi si è fondata sulla nazione, la crisi politica del
nazionalismo fra gli anni '80 e '90 non si è tradotta, come nel caso
dell'impero sovietico, nella disgregazione totale del potere politico e degli
assetti territoriali, essendo l'islamonazionalismo un potente freno nei
confronti delle tendenze centrifughe.
4. L'islam in
Europa: percorsi e posizionamento. Dall'umma tradizionale all'umma atomizzata
In una situazione di
immigrazione, la umma (comunità dei credenti) non è più la stessa: essa
è coinvolta direttamente o indirettamente in trasformazioni profonde che non
sempre appaiono a prima vista, ma che possono essere lette nelle sue varie
manifestazioni e comportamenti, sia sul piano culturale e religioso che sul
piano politico. Ad esempio, nella sfera della politica si è notato che le popolazioni
immigrate tradizionaliste, vale a dire quelle per cui l'islam rappresenta un
codice identitario, si mobilitano soltanto nel quadro di una solidarietà
nazionale o etnica e talvolta anche di una solidarietà rurale e clanico‑familiare.
Sul piano affettivo, esserimangono sensibili all'immaginario universalistico
della umma, ma si disinteressano della sua realizzazione e trasformazione
politica. Lo scarso o nullo interesse degli immigrati musulmani nei confronti
dei recenti conflitti in Bosnia, nel Kosovo o del conflitto israelo‑palestinese
mostrano il venir meno di una valenza politica nella percezione della umma.
Negli ambienti militanti dell'islam l'interesse è maggiore; tra gli algerini in
Francia, ad esempio, alcuni elementi si sono mobilitati per costituire una base
d'appoggio al Gruppo Islamico Armato (GIA) o al Fronte Isiamico di Salvezza
(FIS), come hanno fatto anche alcuni elementi arrestati qualche tempo fa a
Milano e Napoli. Questo fenomeno si è sempre inscritto nella prospettiva del
paese d'origine, e non aveva lo scopo di introdurre il terrorismo nel paese
ospitante; quelle basi vanno considerate nella maggior parte dei casi come
relative a reti logistiche di sostegno dall'estero. (19)
Nei paesi europei, nei quali
l'immigrazione di origine musulmana è più vecchia ‑ Francia, Belgio,
Germania, Gran Bretagna ‑ si sviluppa anche un nuovo internazionalismo,
al di fuori degli Stati e dei paesi musulmani e delle grandi organizzazioni
internazionali islamiche, quali ad esempio i Fratelli Musulmani. Dal punto di
vista della struttura, questi movimenti nati nell'ambito dell'immigrazione
musulmana europea hanno più affinità con un sistema di reti che con veri e
propri partiti organizzati. Sono formati soprattutto da giovani, appartenenti
alle nuove generazioni di musulmani europei, spesso deculturati, che nella
maggior parte dei casi hanno perso l'uso della lingua d'origine a favore del
francese o dell'inglese. L'internazionalizzazione di queste reti è conseguenza
più dell'occidentalizzazione che del mantenimento dell'identità musulmana del
paese d'origine. L'occidentalizzazione, in questo caso, ha prodotto la
deculturazione, ma non è riuscita ad ancorare gli immigrati ad una nuova
identità nazionale, quella del paese d'accoglienza; e ciò è avvenuto per molti
musulmani. Sociologicamente, infatti, la ribellione islamica esercita un
fascino maggiore sui perdenti, sugli sconfitti dell'integrazione, che sui
vecchi settori tradizionalisti. In questo caso la politicizzazione dell'umma
non è frutto di un'elaborazione concettuale, o conseguenza di un'ermeneutica
sul corpus della tradizione islamica, ma piuttosto il risultato di una
politicizzazione elaborata e vissuta nelle banlieue delle grandi
metropoli, in Europa o negli Stati Uniti. Il gruppo responsabile dell'attentato
di alcuni anni fa al World Trade Center di New York riuniva egiziani,
pakistani, palestinesi e altri, ma la sua base era in una banlieue del
New Jersey. L'autore degli attentati del 1995, in Francia, Khaled Kelkal, era un
ragazzo algerino nato in Francia, anche lui male integrato, il cui ritorno
all'islam era avvenuto durante un soggiorno in carcere; e il suo passaggio
all'islamismo militante e all'attivismo politico risultava proprio dalla
cattiva integrazione, come sottolineato dalla politologa Séverine Labat: «Gli
islamici sono riusciti a fornire un'identità a numerosi ragazzi che provengono
dall'immigrazione». (20)
La rappresentazione politica
della umma nell'islam dell'immigrazione fa emergere un altro aspetto,
quello di una struttura ideologica che pone la umma in conflitto con
l'Occidente; ma si tratta di una umma fittizia, perché i suoi componenti
provengono da segmenti sradicati, spesso doppiamente sradicati, nei confronti
del paese d'origine e del paese d'accoglienza, di cui spesso hanno ottenuto la
cittadinanza. La comunità dei credenti, pensata politicamente, è allora del
tutto virtuale, perché si basa essenzialmente sull'attuale facilità degli
scambi, delle comunicazioni ‑ Internet, satelliti eccetera ‑ e
sull'internazionalizzazione linguistica: si usa il francese ma soprattutto
l'inglese. Questa umma è il puro prodotto del meccanismo di
deculturazione che accompagna i processi di occidentalizzazione e dello
smantellamento della solidarietà tradizionale. La nuova identità musulmana si
formula dunque nell'acculturazione: ciò spiega la debolezza dell'islam.
politico nella sua relazione con la maggioranza della popolazione musulmana
immigrata, spesso ancora legata alle tradizioni e alla cultura d'origine.
Paradossalmente, l'acculturazione veicolata da una politica di integrazione mal
gestita, provoca la nascita di una nuova identità musulmana sconnessa da
qualunque riferimento culturale, linguistico o nazionale. Questa nuova identità
è vissuta sostanzialmente in modo etnico, come negli Stati Uniti, e non come
traslazione di un'identità portata dai paesi d'origine; diviene espressione,
nella cultura dominante, di una sottocultura nata dall'esclusione sociale che
si nutre di miti terzoniondisti più che religiosi. La umma presuppone, per
definizione, una territorialità in cui l'islam è dominante, il dar‑al‑islam
(territorio dell'islam), e l'assenza effettiva di una tale comunità dei
credenti in Europa fasi che l'islam europeo si definisca e si definirà come
religione minoritaria e delle minoranze.
Nelle società d'accoglienza,
in Italia e in Europa, emergono nuove tipologie di aggregazione all'interno
dell'islam; sono esse che definiscono le nuove relazioni fra islam ed Europa, e
in particolare fra l'islam e i singoli Stati che compongono l'attuale ,contesto
europeo. Per capire questo fenomeno bisogna partire dal fatto che le relazioni
fra islam e Occidente sono relazioni asimmetriche, e ciò essenzialmente per due
motivi: il primo è che il processo di mondializzazione si svolge sotto il
controllo occidentale, che orienta la cultura dominante. Il secondo è che la
stessa Europa ‑ o l'Occidente come prolungamento dell'Europa ‑ ha
smesso di definirsi come religiosa, nel senso di un ethos fondativo. (21) La distinzione fra pubblico e privato ha
certamente modificato in Occidente il rapporto con il religioso, anche se i
dibattiti in Germania sul concetto di Leitkultur (cultura dominante), (22) le polemiche in Italia sulla laicità dello
Stato, come pure le attuali polemiche sulla definizione dell'eredità culturale
nella carta europea dei diritti tendono a rimettere in causa i fondamenti laici
dello Stato. (23) Oggi, sottolinea l'antropologo
Jean‑Loup Amselle, sembra venir meno la neutralità dello Stato nei
confronti del religioso, a partire dal momento in cui le questioni religiose
intervengono nella sfera pubblica, mettendo in crisi la laicità dello Stato. (24)
L'islam dunque costituisce un nuovo spazio identitario nell'ambito delle società europee contemporanee. Possiamo distinguere quattro tipologie di modellizzazione dell'islam nella sua relazione con lo Stato in Europa.
La prima è il comunitarismo
di tipo neofondamentalista: in questo caso il musulmano non definisce la
propria identità in funzione della sua origine, bensì di un sistema di norme e
di codici comportamentali basati soprattutto sul conflitto fra lecito e
illecito. L'identità nazionale d'origine, o la cultura etnica di partenza, non
servono a definire chi sia o non sia musulmano: è il codice comportamentale,
l'ortoprassi che definisce l'identità islamica. Ciò implica un conflitto
latente e una delegittimazione degli altri musulmani, impedendo l'espressione
di altre forme di solidarietà, su base culturale, linguistica o etnica. Questo
modello si è spesso sviluppato in Europa attraverso l'organizzazione del tabligh,
movimento pakistano che ha percorso le strade del continente cercando di
convertire o riconvertire i «cattivi musulmani» nelle banlieue delle
grandi città. Ma, in modo più ambiguo, è il comunitarismo praticato dai gruppi
legati alla fratellanza musulmana, che si sono organizzati in Europa a livello
nazionale, come l'UCOII in Italia e i suoi corrispettivi in Francia, Belgio,
Germania ecc.
Il secondo tipo è quello che
formula l'identità a partire da un comunitarismo di tipo neoetnico: in questo
caso non è l'ortoprassia ma la filiazione musulmana che definisce il musulmano.
Il gruppo etnico si definisce, nella sua relazione con lo Stato, come un gruppo
specifico, minoritario ma pur sempre un tassello nel mosaico delle minoranze.
Il diritto delle minoranze e il multiculturalismo offrono allora un supporto
alla definizione dell'appartenenza religiosa come elemento costitutivo del
gruppo dato, al coniugare etnicità e appartenenza religiosa. Questo tipo è
tipico, ad esempio, dei musulmani marocchini e dei musulmani turchi. Molti
studiosi hanno evidenziato che si tratta qui di una trasposizione dell'assetto
delle dhimi (minoranze) nel mondo musulmano; (25)
questa trasposizione indurrebbe la frattura fra identità religiosa e
cittadinanza. L'etnicità in questo caso consente il mantenimento dell'identità
del gruppo, occultando tutto ciò che avviene nella traiettoria di integrazione
dei musulmano in Europa, impedendo allo stesso tempo l'elaborazione teorica
della riflessione religiosa e bloccando la trasformazione in atto nel rapporto
dei musulmani con la religiosità. Questo comunitarismo neoetnico è stato quello
che, nella ex Yugoslavia, ha definito i musulmani come nazionalità con il
censimento del 1971, anche se la loro provenienza dal punto di vista etnico era
originariamente variegata; si è passati dall'islam in quanto fede, all'islam in
quanto rappresentazione etnica. E sappiamo che questa concezione è in grado di
scatenare polemiche sulla capacità dell'islam a integrarsi nelle società
europee, come si è visto di recente in Italia nei dibattiti sulla Lega o nelle
polemiche intorno alle affermazioni dei cardinale Biffi. (26)
Il terzo tipo corrisponde a una visione laica dell'islam e alla sua interiorizzazione sul piano individuale. Corrisponde al gruppo che alcuni studiosi hanno chiamato dei «musulmani sociologici», vale a dire i musulmani che hanno accettato la separazione fra pubblico e privato e che si riferiscono all'islam in quanto comunità culturale, dimensione simbolica e tradizione piuttosto che identità collettiva forte. Questo terzo gruppo rappresenta comunque, anche se non strutturato e non rappresentato, il gruppo più numeroso dei musulmani in Europa; una loro eventuale strutturazione sarebbe in contrasto con la loro identità intellettuale.
L'ultimo tipo è definito dalla
percezione privata e individuale della religiosità. In questo caso l'identità
religiosa implica un accento sul lato spirituale, mistico e etico della fede
islamica. Questa impostazione è il risultato del contatto permanente dell'islam
in Europa con lo spazio religioso cristiano, in un processo di «contaminazione»
con un cristianesimo vissuto ormai come religione individuale. In questo caso,
la problematica giuridica è molto ridimensionata, perché il diritto musulmano
in questo contesto non ha la funzione di strutturare gli individui fra loro, ma
ha essenzialmente il ruolo di fornire un assetto alle questioni etiche. Si
tratta di un'attitudine che non si formula certo attraverso il comunitarismo,
ma si propone di integrare l'islam in uno spazio di modernità compatibile. Sul
piano sociologico, è una tendenza in crescita nell'islam europeo, come
confermano il caso francese (si veda la ricerca della sociologa Leila Babès) e
quello italiano (si vedano i lavori dei sociologi Enzo Pace e Chantal Saint‑Blancat).
(27) Nei giovani musulmani immigrati,
le indagini sul rapporto fra islam e percezione di Dio, mostrano una crescente
personalizzazione della religiosità. In un'intervista citata da Leila Babès,
una giovane algerina affermava: «Quel che mi importa è il rapporto con Dio. E'
un rapporto personale fra Lui e me». (28)
Questa tendenza alla privatizzazione della religiosità crescerà in modo esponenziale nei prossimi vent'anni, per la semplice ragione che una religione senza chiesa come l'islam sunnita, in una situazione di deterritorializzazione, dovrà trovare altri elementi di mantenimento dell'identità e di strutturazione della stessa. Ora, non essendo più in presenza di un'entità che definisce l'islam come religione di Stato o dello Stato, in cui l'elemento religioso è una condizione di legittimazione dello stesso spazio territoriale, l'identità religiosa si coagula direttamente sugli individui e non più sui gruppi territorializzati. Questo tratto innovativo implica, nell'approccio all'islam in Europa, che la questione del rapporto fra Stato e comunità vada riformulata, tenendo conto che la comunità non è espressione di una territorialità, bensì di una pluralità di fonnulazioni dell'identità religiosa.
Ma come definire una comunità
plurale ? E come dare assetto giuridico a una strutturazione comunitaria che
del resto non è prevista sul piano testuale e sul piano storico dall'islam
stesso? L'idea di intesa implica una visione standard delle religioni, una
simmetria fra le diverse religioni, che nella realtà dei fatti non esiste. Lo
studioso Olivier Roy si chiedeva: se nell'islam non c'è una chiesa, è compito
dello Stato inventame una? C'è da chiedersi se nel caso dell'islam non siamo in
presenza di un'impasse giuridica. (29)
5. L'islam e le nuove frontiere della democrazia. Questioni giuridiche dell'islam in Europa: dal diritto musulmano ai diritti dei musulmani
La traiettoria degli
immigrati musulmani in Europa, che in alcuni paesi come Francia, Belgio e
Germania sono già alla terza generazione, ha un tratto comune nello
sradicamento e nella diluizione delle identità. L'appartenenza religiosa non
veicola più l'identità strutturando un gruppo sociologicamente definito, ma si
esprime essenzialmente in una fede di tipo privato. Questa riformulazione nel
ruolo dell'islam implica un quadro di pensiero che l'islam storico non aveva
previsto, perché l'identità islamica in questo caso definisce una minoranza, e
una minoranza non gode delle stesse condizioni di visibilità e pervasività del
religioso di cui godeva nei paesi d'origine. Il musulmano immigrato deve allora
costantemente rinnovare la sua fede entro un sistema che non incoraggia affatto
la manifestazione della religiosità.
Se nei paesi d'origine le
stesse istituzioni musulmane inducono in un certo senso a una manifestazione
passiva dell'identità islamica ‑ perché vi è sempre la chiamata alla
preghiera in tutte le città e i villaggi dell'islam, e i quotidiani pubblicano
ogni giorno il calendario delle preghiere ‑ nel contesto europeo tutto
questo scompare. Il musulmano, se vuole essere definito come tale, deve
ricorrere alla sua convinzione personale, dal momento che nel contesto europeo
non vi è traccia di richiami esterni; a volte manifesta l'appartenenza mediante
timidi segni esteriori, sempre volontari, come ad esempio il velo o la barba.
Questo fenomeno si sta sviluppando, come abbiamo visto, al di fuori di un
quadro di pensiero; e spesso l'approccio metodologico delle intese sottende che
per islam si intende essenzialmente l'insieme di religione e diritto, come
fanno del resto gli ulema quando definiscono l'islam come Din wa Dunya wa
Dawlat, vale a dire «religione, mondo e Stato». Ma, come abbiamo visto,
nell'islam in Europa non si assiste alla semplice trasposizione di un islam
definito geograficamente su un nuovo spazio geografico; si assiste invece a un
mutamento profondo del rapporto fra identità religiosa e territorio, che spinge
l'islam a riformulare il sua profilo.
Sul piano ermeneutico la
teologia dell'islam è risultata incapace di dare corpo e visibilità a
interpretazioni di tipo moderno; ma dalla fine del XIX secolo fino ai giorni
nostri numerosi teologi ‑ come ad esempio Mohammed Abduh nell'Egitto
d'inizio '900, Mohammed Iqbal nel subcontinente indiano degli anni '30,
Mohammed Arkoun attualmente in Europa ‑ hanno cercato di farsi interpreti
di una lettura moderna dell'islam. Queste letture riformiste dell'islam non si
sono quasi mai tradotte sul piano istituzionale, proprio perché identità
territoriale e identità religiosa sono percepite come inscindibili nel Dar‑al‑islam.
La prima ha bisogno della seconda per manifestarsi; e i movimenti del
radicalismo islamico ne sono perfettamente consapevoli, perché subordinando
l'una all'altra spingono lo Stato a islamizzarsi sempre più. (30)
L'islam in Europa spezza ora l'unità fra identità territoriale e identità religiosa. E ciò che il pensiero moderno dell'islam non aveva potuto elaborare nei paesi islamici, nell'islam dell'immigrazione viene invece formulato dal basso. Le stesse condizioni d'esistenza dell'immigrazione definiscono una nuova pratica e formulazione dell'identità religiosa. E' perciò che se il diritto musulmano è funzionale allo Stato negli stessi paesi musulmani, nell'islam dell'immigrazione esso non può che rappresentare una scelta etica, una serie di norme comportamentali, e dunque in Occidente non può essere espressione di un diritto positivo. La situazione di minoranza impedisce una compatibilità fra norme sheriatiche e diritto europeo; possono essere trovati degli accomodamenti in casi specifici, ma il diritto musulmano non potrà mai divenire parte integrante dei principi generali del diritto in occidente. Lo Stato in Europa è il risultato di un'altra storia, di un'altra cultura, è erede della filosofia dei Lumi che ha sancito la divisione tra sfera pubblica e sfera privata. E' in questo contesto che il musulmano interagisce con la nuova cultura che lo circonda: davanti a lui non ci sono califfi né emiri, ma una cultura politica che definisce la laicità come paradigma con cui le diverse istanze si devono confrontare. In questo contesto le minoranze islamiche devono modulare le proprie richieste, e definire uno spazio di contrattazione che non sconvolga i fondamenti delle democrazie europee. Nelle bozze di intesa tuttora in corso di elaborazione in Francia, Belgio, Germania si vedono chiaramente apparire da una parte i limiti alla base della filosofia delle intese, e dall'altra la necessità di pensare l'islam tenendo conto di questi cambiamenti sociologici.
Nel delicato passaggio fra
diritto musulmano e diritti dei musulmani, risulta chiaro che in Europa il
diritto musulmano non può funzionare da pricipio fondativo ma può essere
utilizzato in alcuni casi nella mediazione giuridico‑culturale tra i due
sistemi giuridici. Il reato di apostasia, sanzionato con la pena capitale nel
diritto musulmano classico, è giuridicamente impossibile in un paese europeo;
non vi può essere simmetria fra le religioni, anche perché il cristianesimo si
è laicizzato. Ciò che invece appare possibile sono gli studi di compatibilità
fra alcune norme del regime matrimoniale islamico e le norme del diritto
internazionale. Questa ricerca di compatibilità è sempre pensata in funzione
della tutela delle parti più deboli, anche perché nel diritto musulmano il
matrimonio è un contratto e non un sacramento. (31)
D'altra parte, l'osservazione sociologica dimostra che molto spesso le coppie
musulmane immigrate si sposano in Europa secondo le norme del diritto civile in
vigore nel paese in cui vivono.
Rimane il problema di
definire chi sia l'interlocutore musulmano dello Stato europeo, questione
complessa e delicata, difficile a causa delle molteplici rappresentanze etniche
e nazionali e delle molteplici sensibilità che attraversano l'islam in Europa.
E' evidente che ciascun paese europeo interagisce secondo la propria tradizione
storico‑politica e giuridica. In Belgio, dopo aver privilegiato come
interlocutore il Centro culturale islamico belga, fondato negli anni '70 dalla
Lega islamica mondiale, lo Stato si è scontrato alla fine degli anni '80 con la
direzione saudita di allora, e da allora ha cercato altre soluzioni, come
l'organizzazione di elezioni di personalità rappresentative musulmane e la
creazione di un comitato tecnico e di un consiglio dei saggi. La creazione di
questi organismi ha urtato la sensibiltà di un'altra organizzazione concorrente
sotto l'egida del Centro islamico. Solo di recente, tra il 1999 e l'estate del
2000, sono stati eletti sulla base di elezioni su tutto il territorio nazionale
dei rappresentanti che dovrebbero creare un Consiglio dell'islam nella forma di
una Camera dei rappresentanti dell'islam in Belgio.
In Francia, invece, fu creato
alla fine degli anni '80 un Consiglio di riflessione sull'islam in Francia, che
elaborò una Carta dei musulmani di Francia. In esso ha avuto un ruolo
importante il rettore della moschea di Parigi, la prima moschea edificata in
Francia negli anni '20, che estendeva il suo controllo sui musulmani
provenienti da tutti i paesi delle colonie francesi. Ma, anche in questo caso,
alcune moschee dalla forte connotazione nazionale si sono scontrate con
l'iniziativa dello Stato. Oggi lo Stato francese sembra privilegiare nuovamente
il ruolo della grande moschea di Parigi, che ha già provveduto all'elezione di
alcuni rappresentanti musulmani sul territorio. L'attuale piattaforma elaborata
dai rappresentanti musulmani francesi è stata peraltro contestata in
particolare sulla questione della libertà religiosa e sulla possibilità del
musulmano di cambiare fede, non prevista dalla piattaforma.
Nel caso della Germania,
della Svezia e dell'Olanda le organizzazioni islamiche si sono sviluppate
principalmente su base etnica, a partire dalle comunità turche, marocchine,
pakistane eccetera. Si sta però delineando la tendenza verso una federazione
dei musulmani in Germania, in Olanda e in Svezia. Nel caso olandese in
particolare, la relazione fra le comunità musulmane e lo Stato è normata dalla
legge sulle libertà religiose, che sancisce una separazione netta fra Stato e
Chiesa, permettendo allo stesso tempo di filtrare gli elementi di ritualità
religiosa compatibili con la laicità dello Stato. Ad esempio, la legislazione
olandese del lavoro riconosce, con alcune limitazioni, ai lavoratori musulmani
il diritto di chiedere un giorno di congedo da sottrarre alle ferie in
occasione delle feste religiose. Alcuni contratti collettivi contengono
clausole che riguardano le feste non cristiane. Nelle scuole pubbliche olandesi
la legge sull'istruzione obbligatoria autorizza gli scolari ad assentarsi in
occasione delle loro feste religiose. Recentemente sono entrate in vigore nuove
disposizioni che permettono di seppellire secondo il rito musulmano, ma con
l'interdizione di inumare il defunto prima di 36 ore dal decesso, una
prescrizione che contrasta con le consuetudini musulmane che obbligano a
inumare entro 24 ore. Riguardo ai regimi matrimoniali, il caso olandese è il
più interessante in Europa: si parte dal presupposto che un matrimonio in
Olanda è civile: proprio in virtù della laicità dello Stato, è possibile una
celebrazione religiosa del matrimonio solo dopo la sua conclusione civile, ma
essa non ha conseguenze legali. I musulmani olandesi possono celebrare il loro
matrimonio secondo rito islamico senza conseguenze giuridiche. Per i musulmani
in Olanda che non sono cittadini olandesi, è possibile contrarre un matrimonio
islamico nei consolati dei paese d'origine, e in questo caso gli effetti
giuridici sono riconosciuti. Ma le legislazioni dei paesi d'origine
differiscono fra loro: la legge turca, la legge marocchina o la legge tunisina
sono completamente diverse in materia di regimi matrimoniali: ad esempio quella
tunisina vieta il matrimonio poligamico.
In ogni caso, nell'eleborare
una norma giuridica nell'intesa con l'immigrazione musulmana, è essenziale
tener conto statisticamente e demograficamente della presenza di una prima, una
seconda e un'eventuale terza generazione. Nell'Europa del Nord, ad esempio,
numerosi immigrati della seconda generazione, che hanno acquisito la
cittadinanza del paese d'accoglienza, tendono ad assumere il controllo delle
loro comunità, modificandone l'impostazione di partenza.
6. L'islam in
Italia: una religione minoritaria.Prospettive e conseguenze
Fenomeno relativamente
recente, l'immigrazione di matrice musulmana in Italia accomuna il nostro agli
altri paesi europei. Certo, storicamente la presenza musulmana in Italia non è
cosa nuova, poiché già nel IX secolo una dinastia musulmana si installò in
Sicilia e ne fece un emirato rimanendovi circa tre secoli e mezzo. Ma,
all'epoca, la Sicilia faceva parte dell'immensa geografia politica del Dar-al‑islam.
E come il grande studioso Michele Amari scrisse alla fine dell'Ottocento,
quelli erano musulmani di Sicilia, e non siciliani musulmani. (32) Dunque il retaggio storico dell'islam in
Italia è ormai remoto: importanti orientalisti come Francesco Gabrielli,
Alessandro Bausani, Umberto Rizzitano hanno contribuito a una sintesi
importante di questa eredità. (33)
Come abbiamo visto, nell'islam contemporaneo uno dei fattori più propulsivi del cambiamento risiede nell'immigrazione, perché essa sposta la problematica religiosa in direzioni inedite ‑ sul piano etico e spirituale, sul piano delle libertà religiose, di nuovi diritti di cittadinanza, eccetera ‑ suscitando nuovi interrogativi. Se nel cristianesimo il processo di secolarizzazione è stato il prodotto di trasformazioni storiche e intellettuali, nell'islam dell'immigrazione esso si esprime direttamente nel vissuto e nelle modalità con cui il musulmano testimonia la sua fede in terra non musulmana.
Fenomeno recente in Italia,
avviatosi soprattutto a partire dagli anni '80, l'immigrazione musulmana nel
nostro paese è oggetto, da qualche anno, di un'importante letteratura. Le
ricerche del sociologo Stefano Allievi sono state pionieristiche in Italia,
perché si sono nutrite direttamente di inchieste sul campo. (34) Sul piano della morfologia dell'islam in
Italia, sono stati importanti i lavori di Enzo Pace, Chantal Saint‑Blancat,
Ottavia Schmidt di Friedberg (35) e,
sul versante giuridico, di Francesco Castro e di Silvio Ferrari. Da queste
ricerche, emerge un denominatore comune: l'islam dell'immigrazione in Italia ha
una caratterizzazione diversificata, sul piano delle origini etniche e sul
piano dei registri nei quali esso si manifesta. Essendo un'immigrazione legata
al lavoro, essa si è concentrata prevalentemente nelle aree del Centro‑Nord
in cui è maggiore la densità di imprese, e nelle aree del Sud in cui è forte la
richiesta di manodopera stagionale nell'agricoltura. Secondo il dossier
statistico 1999 della Caritas, all'inizio del 1999 i musulmani immigrati in
Italia erano pari a 436.000, rappresentando il 34,9% del totale degli immigrati
in Italia. (36) Le statistiche del
ministero degli Interni riferiscono che nel 1999 la componente musulmana
dell'immigrazione in Italia è stata pari al 38,3% del totale al Nord, al 26,7%
al Centro, al 40,3% al Sud e al 44,5% nelle Isole.
Ma il fenomeno migratorio,
anche nella sua composizione etnica e religiosa, non può più essere letto solo
in funzione del mercato del lavoro e della legge dell'offerta e della domanda,
anche se oggi in Italia l'immigrazione si muove in funzione del mercato. Una
serie di altri fattori dirompenti si inserisce oggi nella genesi del fenomeno:
la globalizzazione dei mercati e lo stato di crisi politica endemica in alcune
aree geografiche ‑ Kurdistan, Albania, Est europeo, Africa subsahariana,
eccetera ‑ favoriscono gli spostamenti di popolazione. Ciò pone anche il
problema, come sottolinea Saskia Sassen, (37)
della possibilità di distinguere fra rifugiati e immigrati. Probabilmente
l'attuale fase storica porterà a una maggiore elesticità in questa distinzione.
A differenza di quanto
avviene in paesi come Francia, Germania e Gran Bretagna dove esiste una matrice
etnica dominante nell'immigrazione ‑ maghrebini per la Francia,
indo-pakistani per la Gran Bretagna e turchi per la Germania ‑ l'Italia è
caratterizzata dalla forte differenziazione etnica nelle popolazioni musulmane
immigrate. E sebbene la comunità marocchina risulti quella con il tasso di
crescita più alto, la presenza importante di molte altre componenti
contribuisce a definire l'Italia un mosaico interetnico, secondo la lettura dei
dati del ministero dell'Interno, che quantifica la popolazione immigrata
musulmana in possesso di permesso di soggiorno nel 1991 e il nel 1998. La
frammentazione etnica è dovuta nel caso italiano a due fattori. L'Italia non ha
mai intrattenuto relazioni privilegiate con le sue ex colonie: non si è mai
verificata un'immigrazione massiccia dalla Somalia, dall'Etiopia o dalla Libia.
Il sistema coloniale italiana era basato su un assetto di protettorato o di
indirect ruIe, fatto che ha relativamente ammorbidito tutta la fase di
decolonizzazione. Quello stesso processo, nel subcontinente indiano o in
Algeria, ha provocato gravi crisi politiche ‑ la spaccatura fra India e Pakistan
nel 1947 alla vigilia dell'indipendenza, la guerra di liberazione coloniale fra
il 1954 e 1962 tra Francia e Algeria ‑ che hanno messo in moto già
all'epoca importanti flussi migratori da quei paesi verso l'Europa.
L'altro fattore risiede nella
particolare collocazione geopolitica dell'Italia, con il suo doppio versante
mediterraneo, quello balcanico e quello arabo‑africano, che comprime il
paese fra due spinte, una da Sud e l'altra da Est investendo quest'ultima sia
il litorale adriatico che la terraferma, in particolare la zona di Gorizia.
Confinando con la Slovenia, l'Italia funge da ponte per l'immigrazione
mediorientale e balcanica, perché la Bosnia non richiede agli stranieri il
visto d'ingresso.
In generale, lo strumento
statistico evidenzia due aspetti del fenomeno: la diversità etnica delle
popolazioni musulmane e la loro localizzazione sul territorio in funzione delle
richieste del mercato del lavoro. Ma se l'approccio statistico è indispensabile
per visualizzare il fenomeno, limitarsi ad esso può risultare fuorviante,
perché la consistenza statistica e demografica degli immigrati può facilmente
diventare conseguenza del modo in cui si è definiti. Esiste un uso strumentale
del dato statistico, di cui spesso i gruppi più avversi all'immigrazione si
sono appropriati per dimostrare la pericolosità del fenomeno migratorio. Quando
la popolazione immigrata viene definita in funzione dell'appartenenza
religiosa, il dato statistico può essere usato per spingere verso politiche
antitetiche al processo di integrazione.
In Italia il discorso
pubblico sull'islam è stato spesso scandito e amplificato dai mass media
spettacolarizzando alcuni avvenimenti. Mentre in Francia è stata la questione
del hijab o foulard islamico a sollecitare l'opinione pubblica scatenando
una serie di polemiche, in Italia il tema al centro delle polemiche è la
questione delle moschee, iniziata con la costruzione della moschea di Roma
realizzata sotto l'egida dell'Arabia Saudita (principale sostenitore
finanziario dell'iniziativa), fino alla recente questione della moschea di Lodi
e le parentesi delle moschee di Milano, Venezia ed altre. La moschea sembra
rappresentare una posta in gioco di valore strategico, perché è espressione di
una visibilità dell'islam, perchè introduce un criterio di eguaglianza nel
trattamento giuridico e culturale nei confronti delle altre fedi, che hanno il
loro tempio. Sia nel contesto italiano che in quello europeo, la costruzione di
una moschea porta alla luce una serie di tensioni, in quanto essa rappresenta
il luogo in cui un gruppo o una tendenza particolare si affermano, o in cui
varie sensibilità si confrontano. Il discorso sulle moschee è dunque molto
complesso, perché a monte pone il problema di chi le gestisce, e dunque di
quale si il personale destinato al culto che rivendica il diritto di
controllarle. Si tratta di un problema aperto, non risolto, ma fondamentale e
determinante nella costruzione di uno spazio pubblico dell'islam in Italia e in
Europa. Negli ultimi anni sono state avanzate molte proposte riguardo alla
formazione del personale di culto, ma invano; sia il progetto Averroé proposto
dal filosofo Mohammed Arkoun che il progetto di una facoltà teologica islamica
a Strasburgo sono rimasti lettera morta per la semplice ragione che alcune importanti
organizzazioni islamiche internazionali li hanno vietati o li disapprovano. Il
problema, solo rimandato, probabilmente troverà la sua soluzione a livello
europeo.
La moschea può essere al
centro di tensioni, perché è il luogo intorno al quale gravitano diverse
organizzazioni islamiche, ed è anche il tramite attraverso il quale viene
esercitato un controllo territoriale sui credenti. In questi ultimi anni,
alcune espressioni culturali e politiche si sono coagulate in un certo numero
di associazioni musulmane, alcune su base etnica ‑ si pensi ai musulmani
somali, o alla confraternita senegalese dei muridi ‑ e altre sulla base
di approcci che variano dal neofondamentalismo, passando attraverso emanazioni
della lega islamica mondiale (Rabitat), ai gruppi di musulmani
convertiti. Ma nel panorama dell'islam italiano vanno considerate quelle che
ufficialmente hanno chiesto un'intesa con lo Stato italiano, e che a tutt'oggi
sono quattro:
‑ l'UCOII (Unione delle
comunità e organizzazioni islamiche in Italia);
‑ l'AMI (Associazione
Musulmani Italiani);
‑ il Centro Islamico
Culturale d'Italia;
‑ il CO.RE.IS (Comunità
Religiosa Islamica).
Queste associazioni si
diversificano sia nella composizione che nell'estensione territoriale, e
divergono nell'interpretare il ruolo dell'islam in Europa. I contrasti tra di
esse traducono le importanti poste in gioco politiche legate a una forma di
controllo dei musulmani in Italia, e mettono in luce gli equilibri sempre più
labili fra le loro componenti. Alcune di queste associazioni, come l'UCOII, non
sono espressioni peculiari dell'islam in Italia perchè lo stesso modello, con
altre sigle, si ritrova in Francia, in Belgio e altrove. Nel caso dell'UCOII,
fondata nel 1990 come espressione dell'Unione degli Studenti Musulmani Italiani
e del Centro Islamico di Milano, appare palese l'influenza dell'organizzazione
dei Fratelli Musulmani, organizzazione transnazionale nata nel 1929,
all'origine dell'ideologia fondamentalista, che sviluppa una concezione
essenzialmente comunitaria dell'islam, veicolata dal ruolo dell'ortoprassia.
L'UCOII è l'associazione più estesa sul piano nazionale.
Il Centro Islamico Culturale
d'Italia, l'associazione più vecchia nel nostro paese, è l'unica ad aver
ottenuto dallo Stato con il DPR del 21 dicembre 1974 il riconoscimento quale
ente morale di diritto privato; esso ha una rappresentanza diplomatica sia
presso lo Stato italiano che presso la Santa Sede. Si tratta di un Centro
transnazionale, ma con i limiti di un islam legato alla presenza straniera e al
peso politico e diplomatico di alcuni paesi; la sua gestione è difficile,
perchè diversi paesi se ne contendono il controllo. In particolare la
competizione fra Arabia Saudita e il Marocco è significativa dei limiti del
Centro nel costruire uno spazio allargato di rappresentatività. Va però notato
che, su iniziativa dello stesso Centro, è stato fondato un Consiglio Islamico
d'Italia, il cui principio ispiratore sarebbe quello di coordinare tutte le
tendenze sviluppatesi ufficialmente sul territorio italiano, sia per appianare
antiche diatribe, sia per allargare lo spazio del consenso verso tutti i
musulmani d'Italia. Ma è ancora prematuro esprimersi sulla effettiva
fattibilità degli obiettivi del Centro.
L'Associazione dei Musulmani
Italiani è basata essenzialmente sul principio del rapporto fra identità
religiosa e cittadinanza. Essa rappresenta soprattutto gli italiani convertiti
all'islam; la cittadinanza è per loro un criterio di effettiva
rappresentatività e garanzia di un islam compatibile con i fondamenti dello
Stato italiano. Questa associazione considera dunque le altre strutture
inadeguate a rappresentare l'islam in Italia, o perché da esse il criterio
della cittadinanza non viene preso in considerazione, o perché accusate di
essere di stampo neofondamentalista o di essere legate ad alcuni Stati
islamici.
Il CO.RE.IS. è formato
anch'esso da molti convertiti all'islam, ma la cui conversione è passata
attraverso ciò che potrebbe essere chiamato l'«esoterismo islamico», incarnato
in particolare dal filosofo Réné Guenon, francese convertito all'islam e
deceduto in Egitto nel 1951. La matrice esoterica e mistica è alla base del
pensiero «tradizionalista» di Guénon, in cui la tradizione funge da paradigma
che individua nelle religioni «tradizionali» altrettanti sistemi chiusi; tra
essi l'islam rappresenta quello che più degli altri avrebbe mantenuto salda la
propria integrità. Sul piano politico, ciò si traduce in un neoconservatorismo
astratto; perciò le questioni sociali e dunque anche quelle legate all'immigrazione
non sono cruciali per questo gruppo.
In Italia, come nella gran
parte degli altri paesi europei, rimane però sospesa la questione di chi
rappresenti chi e che cosa. Dal momento che non esiste una chiesa nell'islam
sunnita, non è chiaro come tradurre strutturalmente una rappresentatività
allargata in grado di esprimere tutto l'arco delle sensibilità che attraversa
l'islam in Italia e in Europa. La rappresentatività è il punto di partenza nel
rapporto fra comunità e Stato, ma di fatto le associazioni si contendono
l'egemonia della rappresentatività dei fedeli. Le richieste contenute nelle tre
bozze d'intesa giunte al Presidente del Consiglio dei Ministri, rispecchiano
l'architettura tipica delle richieste di tutti i musulmani in Europa, e possono
essere riassunte come segue:
‑ attribuzione di
terreni per la costruzione di moschee e luoghi di culto;
‑ concessione di aree
nei cimiteri per i musulmani;
‑ riconoscimento del
diritto a macellare la carne secondo il rito islamico (hallal) con la
garanzia che pasti hallal possono essere concessi nelle mense
scolastiche e altre;
‑ possibilità per la
donna musulmana di essere ritratta fotograficamente con il fazzoletto che
lascia visibile il volto e copre i capelli;
‑ adattare gli orari di
lavoro durante il mese sacro del ramadan;
‑ rispetto degli orari
delle cinque preghiere giornaliere;
‑ rispetto delle
festività islamiche;
‑ assistenza religiosa
ad opera di personale di culto nelle carceri e negli ospedali;
‑ nomina delle guide
del culto;
‑ riconoscimento degli
effetti civili del matrimonio islamico;
‑ insegnamento della
religione islamica nelle scuole per gli alunni di fede musulmana;
‑ possibilità di aprire
scuole private musulmane come avviene per i cattolici e gli ebrei.
Nel panorama delle richieste
avanzate dalle associazioni musulmane, alcune di esse rappresentano una
elaborazione recente, inesistente nei paesi islamici, e risultato del contatto
dell'islam con una cultura diversa; ad esempio le richiste di personale di
culto per le carceri sono un po' la risposta sociale che i musulmani cercano di
dare al disagio vissuto nelle carceri. Sulla questione del venerdì come giorno
festivo, non vi è assolutamente unanimità nei paesi islamici nel considerarlo giorno
festivo: l'Algeria solo nel 1978 ha sancito il venerdì come giorno festivo,
mentre ad esempio in Marocco e in Siria è un giorno lavorativo. Altre richieste
sono relative a questioni estremamente delicate, in particolare quelle relative
agli effetti civili del matrimonio islamico. Qui la conflittualità fra
ordinamento giuridico italiano e diritto musulmano è flagrante, anche perché,
come già detto, il matrimonio nell'islam è un contratto. Anche riguardo al
matrimonio i sistemi giuridici dei paesi islamici divergono.
Ma la questione più delicata è ancora quella legata al personale di culto: dove lo si forma e chi lo forma ? Come spezzarne la dipendenza ideologica dagli istituti teologici all'estero in cui sono attualmente formati ? Questo delicato problema va affrontato o sulla base della creazione ufficiale di una facoltà teologica islamica in Europa, o su un partenariato fra istanze italiane e istituti teologici nei paesi d'origine.
In ogni caso, la
frammentazione comunitaria di queste associazioni ne indebolisce molto la
rappresentatività, e la formulazione di alcune richieste rende difficile
un'intesa nell'odiema situazione storica; come afferma il giurista Silvio
Ferrari, essa andrebbe a scapito di uno sviluppo autonomo dell'islam in Italia.
E' nel disegno di legge sulla libertà religiosa che va cercata una via d'uscita
dall'impasse. Il modello olandese di libertà religiosa è interessante in
proposito, perché permette di costruire uno spazio di compatibilità fra alcune
esigenze dello Stato e il mantenimento della libertà religiosa. Lo scopo
essenziale di quel disegno di legge è di armonizzare tutto l'apparato giuridico
relativo all'esercizio dei culti diversi dal culto cattolico. Nella filosofia
giuridica che ne traspare appare centrale l'idea di un ordinamento giuridico
che non può essere minato da costruzioni ad esso antitetiche. Esso
permetterebbe dunque di filtrare le norme del diritto musulmano classico
impedendo loro di divenire norme di diritto positivo, come ad esempio nel caso
del matrimonio poligamico. Inoltre essa accompagnerebbe una serie di
trasformazioni in atto nell'islam in Italia e in Europa: maggiore
individualizzazione della fede, indebolimento del riferimento giuridico in
quanto espressione di identità, eccetera.
La questione dell'islam in
Italia, come negli altri paesi europei, pone dunque il problema centrale
del'integrazione. Sul versante delle popolazioni immigrate, le politiche di
integrazione vanno viste come strumento di cambiamento dell'islam in Europa. Da
un punto di vista più generale, esse dovrebbero permettere di introiettare la
questione dell'islam in Europa, perché l'islam è ormai parte del paesaggio, il
suo diritto di cittadinanza va costruito passo per passo.
Note:
1) Cfr. Edward Said, Covering Islam, Londra, 1994.
2) Cfr. Edward Said, Orientalismo, trad. it. Torino 1991; Maxime
Rodinson, La fascination del'islam, Paris, 1980.
3) Cfr. Robert Mitchell, Muslim Brothers, New York, 1969;
Gilles Kepel, Le prophète et le pharaon, Paris, 1991; Fran~ois Burgat,
L'islamisme au Maghreb, Aix‑en Provence, 1993.
4) Cfr.
AAVV, Televisione e islam. Immagini e stereotipi del'islam nella comunicazione
italiana, a cura di Carlo Marletti, Roma 1995.
5) Cfr. Jean Paul Charnay, Sociologie de l'islam, Paris,
2, 1994.
6) Cfr. Hervée Lejeu, intervista in «MARS ‑ Le
Monde Arabe dans la Recherche scientifique», n. 2,
Paris, 1996.
7) Si
vedano gli articoli usciti sul quotidiano «La Padania» fra ottobre e novembre
2000.
8) Cfr. AAVV, Les régimes politiques arabes, Paris, 1990.
9) Cfr. Olivier Roy, L'Afghanistan. Islam et modernité politique, Paris,
1981.
10) Cfr. Pierre Bourdieu, Sociologie de l'Algérie, Paris, 1965.
11) Sulle
polemiche sulla figura di Tarek Ramadan si veda «Le Monde» dei 27 settembre
2000. Il leader carismatico di numerosi musulmani immigrati in Francia,
accusato di essere un comunitarista antioccidentale, ha recentemente risposto
alle accuse sulle stesse colonne di «Le Monde».
12) Sui
movimenti islamisti contemporanei si vedano gli importanti lavori di Olivier
Carré.
13) Cfr. AAVV, Intellectuels et militants dans l'islam contemporain, Paris,
1992.
14) Si veda Ali Shariati, Histoire et déstinée, Paris,
1979.
15) Cfr.
Khaled Fouad Allam, L'islam contemporaneo, in AAVV, L'Islam, a cura di Giovanni
Filoramo, Roma‑Bari, 1999.
16) Cfr.
Bertrand Badie, I due Stati. Società e potere in islam e occidente, trad. it. Genova 1990; Ghassan
Salamé, Démocratie sans démocrates, Paris, 1996.
17) Cfr. Dariush Shayegan, Le regard mutilé.
Schizophrénie et tiers monde, Paris, 1990.
18) Cfr. AAVV, La guerre du Golphe dans la presse arabe, IMA., Paris, 1992, dattiloscritto non pubblicato.
19) Lo
stesso fenomeno si osserva anche nel rapporto fra componente immigrata ed
eversione politica nel caso dei tamil.
20) Cfr. «Le Monde» del 13 ottobre 1995.
21) Cfr.
Marcel Gauchet, Il disincanto del mondo, trad. it. Torino, 1991.
22) Si
veda l'attuale dibattito in Germania nella Cdu sul ruolo del cristianesimo come
fondante per l'identità
europea.
23) Mi
riferisco alla Carta europea dei diritti che dovrebbe essere adottata a Nizza,
e alla questione del rapporto fra identità europea e dimensione culturale.
Rimane il problema dell'eterogeneità delle
culture nel panorama europeo
e del ruolo loro attribuito.
24) Cfr. Jean‑Loup Amselle, Logiche meticcie, trad,
it. Torino, 1999.
25) Xavier de Planhol, Les minorités dans le monde
musulman, Lione, 1998.
26) Cfr.
Khaled Fouad Allam, editoriale in «La Stampa», Torino, 28 settembre 2000.
27) Cfr. Enzo Pace, Rapporto sull'islam nel Veneto, dattiloscritto non pubblicato, 1999; Chantal Saint‑Blancat (a cura di), L'islam in Italia. Una presenza plurale, Roma, 1999.
28) Leila
Babès, L'altro islam, Roma, trad. it. 2000.
29) E' la
tesi del giurista Silvio Ferrari apparsa sul quotidiano «Avvenire».
30) Cfr. Francesco Castro, Acculturazione e modelli giuridici nell'islam, Roma, 1980. A questo studioso si deve il concetto di shariatizzazione del diritto, che indica il processo di contaminazione delle norme del diritto positivo con quelle del diritto musulmano in alcuni paesi islamici.
31) Cfr.
Fréderic‑Jérome Pansier e Karim Guellaty, Le droit Musulman, Paris, 2000.
Si veda anche Filippo Corbetta, Osservazioni in materia di diritto di famiglia
islamico e ordine pubblico internazionale italiano, in «Diritto immigrazione e
cittadinanza», n. 3, settembre 2000.
32) Cfr. Michele Amari, Storia dei musulmani in Sicilia, 2a, Catania, 1939.
33) Cfr. AAVV, Gli arabi in Italia, Milano, 1995.
34) Cfr. i
lavori di Stefano Allievi; in particolare Il ritorno dell'islam. I musulmani in
Italia, Roma, 1993.
35) Cfr.
Ottavia Schmidt di Friedberg, Islam, solidarietà e lavoro. I muridi senegalesi
in Italia, Torino, 1994.
36) Queste
cifre danno per scontato che tutti coloro che vengono da paesi islamici siano
di religione islamica
37) Cfr.
Saskia Sassen, Migranti, coloni e rifugiati, trad. it., Milano, 1999.