Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati

SECONDO RAPPORTO SULL'INTEGRAZIONE DEGLI IMMIGRATI IN ITALIA

 

TERZA PARTE

APPROFONDIMENTI

 

CAPITOLO 3.2

 

DISCRIMINAZIONE E RAZZISMO

 

Introduzione

Nel capitolo sulla discriminazione del Rapporto 1999, è stata evidenziata la difficoltà di comporre un quadro ragionevolmente esteso degli atti e delle pratiche discriminatorie a causa della mancanza di un rilevamento sistematico e con criteri condivisi del fenomeno sul territorio nazionale. Dobbiamo dire fin da subito che questa situazione non è mutata sostanzialmente sebbene sono state realizzate alcune esperienze progettuali in aree circoscritte. Allo stesso modo, pur registrando dei miglioramenti nella conoscenza e applicazione a vari livelli delle norme anti­discriminazione contenute nel T. U. delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero - artt. 43 e 44 del d.lgs. 286/98 -, si deve osservare ancora che le norme in oggetto sono lungi dal dispiegare tutta la loro potenzialità nella prevenzione e contrasto del fenomeno. Daremo conto di seguito, in modo breve, delle prime esperienze note di applicazione delle norme anti-discriminazione o di casi in cui si ritiene potessero essere applicati.

 

1. Accesso ai servizi: la casa

Il reperimento di un alloggio e di un lavoro continua ad essere ai primi posti fra i problemi che molte persone immigrate incontrano nel processo d’integrazione e, in questi due settori, sono stati registrati gravi atti discriminatori. Proprio in fatto di ricerca di un alloggio si è registrato nel corso dell’anno uno dei primi casi di applicazione delle norme anti-discriminazione di cui diamo conto sotto. Le discriminazioni nel settore non sono limitate al solo mercato privato dell’affitto ma anche nell’accesso alle case popolari gestite dall’Iacp. Casi come quello che di seguito presentiamo rivestono un’importanza particolare in quanto si presentano come vere e proprie «discriminazioni istituzionali» sia per il carattere pubblico dell’ente e del servizio coinvolti sia perché si basano formalmente sull’applicazione di «norme generali che sono uguali per tutti».

Il caso in questione si riferisce ad un bando per la costituzione di una «graduatoria generale degli aspiranti all’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica nel Comune di Pordenone» (bando n. 32/1999). emanato il 26 febbraio 1999, i cui risultati sono stati pubblicati il 22 febbraio 2000. Dalla graduatoria sono stati esclusi gli immigrati che non sono riusciti a presentare parte della documentazione che dovevano farsi rilasciare dalle autorità dei paesi d’origine, tradotta e autenticata dalle rappresentanze consolari e diplomatiche italiane nei propri paesi, attestante eventuali redditi percepiti all’estero e la proprietà o nuda proprietà o l’usufrutto su case situate all’estero.

La legge regionale in materia di edilizia residenziale pubblica prevede che accedere alle case popolari occorre (L.R. n. 75/1982, art. 24 lett. c) «non essere proprietari, o nudi proprietari, di altra abitazione, ovunque ubicata, adeguata alle necessità del proprio nucleo familiare, intendendosi adeguato l’alloggio composto da un numero di vani catastali pari a quello dei componenti il nucleo familiare, maggiorati di 2, con un minimo di 4 vani. In caso di proprietà o comproprietà di più alloggi, si sommano i vani di proprietà o i vani teoricamente corrispondenti alla quota di comproprietà di ogni singolo alloggio. Viene inoltre considerato inadeguato l’alloggio dichiarato inabitabile con apposito provvedimento del Sindaco per motivazioni di natura statica o igienico-sanitaria, ovvero dichiarato non conforme alla normativa sul superamento delle barriere architettoniche, quando il richiedente il contributo o altra persona con lui convivente sia portatore di un handicap motorio». Inoltre prevede per i cittadini extracomunitari altri requisiti quali: il possesso di un permesso di soggiorno in corso di validità e l’essere residenti in regione da almeno cinque anni.

A verifica del requisito soggettivo previsto dalla legge regionale sopra riportata, la Commissione comunale incaricata di tale verifica ha stabilito che i cittadini extracomunitari partecipanti al bando (107 su 712 nella città di Pordenone) dovevano presentare «un’autocertificazione (1), accompagnata da un’ attestazione dell’autorità consolare competente dalla quale risulti motivatamente che la suddetta autocertificazione non è mendace, attestante gli eventuali redditi percepiti nel 1997, fuori del territorio italiano, da tutti i componenti del proprio nucleo familiare per il quale è richiesto l’alloggio». Inoltre si afferma che nella tale «autocertificazione dovrà risultare che nessuno dei componenti il proprio nucleo familiare sia titolare del diritto di proprietà, di nuda proprietà o di usufrutto su di un alloggio o porzione di fabbricato ovunque ubicati (quindi oltre che nel proprio paese d’origine anche in qualunque altro stato estero). Nel caso in cui tali diritti su abitazioni esistono, nell’autocertificazione dovranno essere dichiarate, e adeguatamente documentate, l’ubicazione di tale immobile, la quota di proprietà, le dimensioni e la destinazione dei singoli vani, allegando planimetria dell’immobile con le misure di ogni stanza». Nel caso che tutta questa documentazione sia in lingua diversa dalla lingua italiana, il tutto doveva essere tradotto e «certificato conforme al testo straniero dalla competente rappresentanza diplomatica o consolare, ovvero da un traduttore ufficiale».

L’esclusione dalla graduatoria dei partecipanti extracomunitari per «carenza di documentazione essenziale, deriva dall’interpretazione letterale operata dalla Commissione di Pordenone dell’espressione «ovunque ubicata», estesa non solo al paese d’origine ma anche in qualunque altro stato estero e dalle caratteristiche (autorità competente ed elementi costitutivi) della documentazione comprovante la condizione richiesta. Ai cittadini italiani la Commissione ha chiesto di presentare un’apposita autocertificazione o dichiarazione sostitutiva, mentre per i cittadini extracomunitari ha ritenuto di applicare per analogia, pare per evitare una possibile discriminazione «alla rovescia» a danno degli italiani, quanto previsto dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 217/90 in materia di accesso al gratuito patrocinio per un imputato straniero. Tale sentenza stabilì che per accedere al patrocinio gratuito, l’imputato straniero non doveva semplicemente procedere all’autocertificazione dei propri redditi nel paese d’origine presso la propria autorità consolare in Italia, ma che quest’ultima doveva, in modo motivato, dichiarare la veridicità delle condizioni di bisogno dichiarato dall’interessato, esplicitando gli accertamenti fatti in tale senso [Citti 2000].

Occorre evidenziare a questo punto che sia il bando sia la lettera di richiesta di integrazione della documentazione inviata ai cittadini extracomunitari partecipanti al bando erano entrambi precedenti all’entrata in vigore del regolamento di attuazione del T.U. sulla condizione dello straniero (Dpr. 31 agosto 1999, n. 394) che esclude la possibilità dell’autocertificazione consolare per i cittadini stranieri per fatti, stati, e qualità personali diversi da quelli certificabili da autorità italiane e rinvia a certificati o attestazioni rilasciati dalla competente autorità dello Stato estero, debitamente tradotti ed autenticati dall’autorità consolare italiana che ne attesta la conformità all’originale (Dpr. 394/99, art. 2 comma 2). Quando l’Ater di Pordenone indisse il bando, l’autocertificazione per i cittadini stranieri era unicamente regolata da un decreto del ministero di Grazia e Giustizia (D.lgs n. 431/95, art. 5) la quale prevedeva la possibilità per i cittadini extracomunitari residenti in Italia di certificare fatti, stati, e qualità personali non certificabili da autorità italiane mediante dichiarazioni fatte presso le autorità consolari dei paesi d’origine in Italia, con successiva facoltà delle autorità italiane di effettuare controlli sulla veridicità delle dichiarazioni rese, ricorrendo alle competenti autorità consolari italiane all’estero [Citti op. cit].

Il caso dell’Ater di Pordenone è interessante per diversi motivi: il primo è che a fronte di una formale «parità di opportunità» (la possibilità di partecipare al bando) fra cittadini italiani ed extracomunitari, si è scelto una procedura differenziata per entrambi, non espressamente prevista dalla legge (almeno non allora) e che ha portato all’esclusione dalla graduatoria in base alla nazionalità dei concorrenti extracomunitari. L’interpretazione estensiva della locuzione «ovunque ubicata» suscita seri dubbi in quanto così facendo la stessa viene estrapolata dal contesto dell’intero comma, il quale, fa riferimento all’eventuale dichiarazione di inabitabilità fatta dal Sindaco o non conformità con le norme sul superamento delle barriere architettoniche. E’ evidente che il sindaco di Lima o di Dakar non potrà emettere un provvedimento di inabitabilità o di non conformità ai sensi delle leggi italiane. Questi ultimi riferimenti fanno ritenere che l’espressione «ovunque ubicata» vada limitata ai soli immobili situati nel territorio italiano. Alla luce del principio di parità di trattamento degli immigrati regolarmente soggiornanti rispetto agli italiani e del divieto di discriminazione previsti dal T.U. sulla condizione dello straniero, l’esclusione dalla graduatoria degli extracomunitari fa prefigurare un atto discri­minatorio indiretto ed illegittimo, del tipo di quelli che la legge citata vieta.

Un secondo motivo è dato dal fatto che la richiesta di allegare la planimetria dell’immobile eventualmente posseduto dall’immigrato all’estero, nel presumere un’omogeneità (o quantomeno forte similarità) fra la struttura e l’organizzazione amministrativa italiana rispetto a quelle di tutti i paesi di provenienza degli immigrati coinvolti, esclude già in partenza coloro che non potranno presentare tale documentazione proprio per la diversità, a volte radicale, della struttura ed organizzazione amministrative. L’imposizione di una condizione che, in partenza, non può essere soddisfatta non per una caratteristica del soggetto ma per la sua «appartenenza ad una data nazione» e la cui rilevanza come requisito è fortemente dubbia, costituisce, stando alle norme anti-discriminazione del D.lgs 286/98, una discriminazione indiretta. Analogo ragionamento vale per quanto riguarda soggetti titolari di permessi di soggiorno per rifugio politico o umanitario, i quali non potrebbero per ovvi motivi tornare nei paesi d’origine per produrre la documentazione richiesta.

Inoltre, anche la richiesta di comprovare eventuale redditi percepiti all’estero in aggiunta alla dichiarazione dei redditi effettuata in Italia appare ingiustificata alla luce del fatto che, ai fini dell’assolvimento degli obblighi fiscali in Italia, la cittadinanza non ha rilevanza essendo la «residenza fiscale» il requisito decisivo. Qualunque soggetto che risulta avere la propria residenza fiscale in Italia - italiano o straniero che sia -  è tenuto a pagare le tasse su tutti i redditi che ha prodotto ovunque nel mondo, compresi quelli relativi a locazioni di eventuali immobili situati all’estero [Citti op.cit]. Pertanto, la richiesta di ulteriore documentazione sui redditi maturati all’estero appare come una condizione aggiuntiva imposta agli stranieri extracomunitari.

Infine, la richiesta della legge regionale (L.R. n. 75/1982, art. 24, lett. b) riguardo all’essere residenti in regione da almeno cinque anni quale condizione necessaria per poter concorrere all’assegnazione dell’abitazione, appare di per sé discriminatorio ed in contrasto con quanto previsto dal T.U. per cui lo straniero regolarmente sog­giornante gode dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano (D.lgs. 286/98, art. 2 comma 2). Quanto visto fin qui conferma che affinché si realizzi il principio di parità di trattamento ed il divieto di discriminazione, occorre che a vari livelli, si rivedano leggi, circolari, regolamenti, prassi consolidate oltre a certe consuetudini amministrative e/o professionali.

 

2. Il mercato privato della casa

La Commissione ha registrato per l’anno passato che tra il 60 e l’80% delle persone immigrate ha trovato un alloggio ricorrendo al mercato degli affitti [Zincone 1999]. Tuttavia molti immigrati incontrano ancora molte difficoltà nell’accesso alle case attraverso il mercato privato degli affitti. In un’indagine condotta a Verona monitorando per un anno le offerte di case in affitto pubblicate sui giornali locali, sono stati rilevati 96 annunci che riportavano in modo esplicito la dicitura «no extracomunitari» [CESTIM, MLAL 2000]. La pubblicazione di tale esplicita esclusione è cessata dopo che il settimanale è stato avvisato mediante lettera che tali annunci costituivano delle violazioni delle norme contro la discriminazione contenute nella legge sull’immigrazione; il direttore del settimanale si è impegnato a non pubblicarli più e fino alla fine di ottobre, non ne erano stati pubblicati altri del genere. La cessazione di questi annunci nulla ci dice sulle pratiche effettive presso le agenzie immobiliari e sul comportamento reale dei proprietari.

Rilevamenti effettuati in diverse città del Centro-Nord hanno evidenziato che molte agenzie immobiliari dichiarano di non poter affittare le case agli immigrati extracomunitari per il volere degli stessi proprietari di immobili i quali, spesso, comunicano all’agenzia tale volontà al momento della messa a disposizione dell’appartamento per una locazione. Anche nell’ipotesi che queste dichiarazioni siano vere, è del tutto evidente che i titolari delle agenzie immobiliari o le persone da loro incaricate rimangono responsabili di fronte alle legge delle discriminazioni compiute rifiutando di affittare delle case a delle persone a causa della loro vera o presunta appartenenza nazionale.

 

3. Accesso ai servizi: banche ed altri servizi finanziari

Fra gli aspetti dell’integrazione delle persone immigrate poco indagati c’è certamente quello dell’accesso ai servizi bancari, finanziari ed assicurativi. La stabilizzazione dell’immigrazione in Italia comporta, tra le altre cose, l’aumento della domanda di servizi come quelli bancari. Gli immigrati sono interessati non solo ai servizi definibili ordinari (aperture di conti correnti, libretti di risparmio, prestiti per l’impresa o per l’acquisto della casa eccetera) ma anche ai trasferimenti di denaro nei paesi d’origine. In base alle stime della Caritas di Roma e dell’ufficio italiano dell’Oil (Organizzazione internazionale del lavoro), anche per il 1999 le rimesse degli immigrati dall’Italia ha superato, così come per l’anno precedente, quelle in entrate dagli italiani emigrati (988 miliardi di lire contro 619). Le potenziali di questo aspetto particolare sono testimoniate dal grande interesse e dall’attivismo di alcune agenzie specializzate nel trasferimento di somme di denaro anche piccole.

Una recente indagine realizzata in Italia ed in altri quattro paesi dell’Ue (Belgio, Finlandia, Inghilterra e Spagna) ha cercato di individuare le entità e la qualità delle interazioni tra le popolazioni immigrate ed il sistema bancario nei singoli paesi [Lunaria 2000]. In Italia tale lavoro ha coinvolto alcune banche nelle città di Bologna, Milano, Napoli Padova, Perugia, Prato e Roma ed ha cercato di focalizzare alcuni obiettivi: verificare l’esistenza o meno di barriere all’accesso ai servizi bancari da parte degli immigrati; compilare un inventario dettagliato delle procedure richieste agli immigrati per accedere a diversi servizi bancari, rilevando eventuali differenziazioni di tali procedure per i cittadini italiani e gli stranieri immigrati; raccogliere informazioni su esperienze concrete di discriminazione vissute dagli immigrati nel rapporto con il sistema bancario; infine raccogliere informazioni sui servizi mirati, compresi eventuali agevolazioni, diretti ai clienti immigrati ed altri esempi di buone pratiche realizzate nel settore.

Da questa ricerca emerge, tra l’altro, che gli istituti bancari non considerano la popolazione immigrata in Italia un segmento di clientela interessante per motivi sia di ordine economico sia di tipo culturale. I motivi economici riguardano la precarietà del lavoro che caratterizza buona parte degli immigrati nonostante la crescita del numero di quelli regolarmente inseriti nel mercato del lavoro e il fatto di essere piccoli clienti con transazioni che presentano alti costi di gestione e bassa redditività. Appare chiaro allora che la scelta di predisporre servizi mirati a questa specifica clientela non viene fatta soltanto per ragioni di convenienza economica ma anche per ragioni sociali. Come fattore culturale alla base della scarsa considerazione, viene indicata la rappresentazione negativa che i media fanno del fenomeno e che ha contribuito a creare nell’immaginario collettivo un’immagine negativa delle persone immigrate. Molti esperti del settore interpellati concordano nel ritenere che la popolazione immigrata acquisirà maggior interesse per le banche in futuro sia per le potenzialità di sviluppo delle piccole attività imprenditoriali proprie di alcuni gruppi nazionali, sia per l’importanza crescente delle rimesse, e più in generale per le potenzialità che sono proprie di un fenomeno economico-sociale in crescita.

Sul piano normativo non ci sono impedimenti all’accesso degli immigrati ai servizi bancari. I rapporti tra le banche ed i clienti, immigrati compresi, sono regolati dalle norme sulla trasparenza bancaria contenute nel Testo Unico in materia bancaria e creditizia del 1994 (TUB) che dettano alcune regole miranti a tutelare la clientela. Le regole di tutela e trasparenza riguardano l’obbligo di esporre nei locali aperti al pubblico le informazioni sui tassi di interesse, le spese per le comunicazioni alla clientela ed ogni altra condizione economica relativa alle operazioni e ai servizi forniti, compresi gli interessi di mora e le valute applicate per il calcolo degli interessi. Il TUB impone inoltre, a tutela del cliente, la forma scritta dei contratti in parola pena la nullità del contratto: una copia del contratto deve essere consegnata al cliente. Le variazioni delle condizioni contrattuali devono inoltre essere comunicate al cliente pena la nullità delle stesse.

Dall’indagine, è risultato che tra le banche consultate solo una ha predisposto un modello del contratto per alcuni servizi più richiesti anche in lingua inglese mentre pochissime hanno tradotto alcune informazioni in lingue straniere (inglese, francese, tedesco, arabo, cinese e portoghese). In qualche caso le banche si sono limitate ad offrire al proprio personale dei corsi di inglese e francese nelle agenzie con una certa utenza immigrata. Se da questo quadro emerge una luce sulle possibili iniziative da adottare e da perfezionare nell’immediato in futuro per migliorare la qualità dei servizi offerti agli immigrati, è altrettanto chiaro che al momento e sul piano dell’informazione verso il clienti, l’utenza immigrata si trova in condizione di svantaggio (o quanto meno di trattamento di minor favore), in particolare quella parte che non conosce perfettamente l’italiano.

I servizi bancari più richiesti dall’utenza immigrata sono: il libretto di risparmio, il conto corrente con annessi (libretto degli assegni, carta bancomat, carta di credito), cambio di valuta, rimesse di soldi all’estero, prestiti e mutui per l’acquisto della casa. Gli istituti bancari sono liberi di decidere se offrire o meno l’accesso a un dato servizio, così come nel definirne le modalità nel quadro delle norme nazionali di riferimento. L’anagrafe bancaria non distingue tra italiani e stranieri ma solo tra residenti e non; ciò rende difficile avere dati disaggregati per nazionalità, è pure vero che la banca fin dal momento della richiesta del servizio la banca accerta l’identità del richiedente compresa ovviamente la nazionalità in base alla quale differenzia la richiesta di documenti da presentare. Le uniche banche, fra le interpellate, che hanno fornito dati specifici sono quelle che hanno predisposto servizi mirati ed agevolati per l’utenza immigrata. (2) Tuttavia alcuni dei dirigenti interpellati hanno esplicitamente riconosciuto l’esistenza di disparità di trattamento tra cittadini italiani e immigrati nell’accesso ad alcuni servizi.

I documenti richiesti per aprire un libretto di deposito o un conto corrente variano da banca a banca. Il primo (il libretto di risparmio) è un servizio che non comporta alcun rischio per la banca in quanto è facilmente e costantemente sotto controllo mentre il secondo (il conto corrente bancario) comporta qualche rischio in più per la possibilità che il cliente vada in rosso e questa possibilità determina una differenziazione delle condizioni di fruizione dei due tipi di servizio per qualunque cliente. Per aprire il libretto di risparmio, viene richiesto da tutte le banche solo il documento di identità ai clienti italiani, mentre agli stranieri immigrati alcune banche richiedono in aggiunta uno o più dei seguenti: la busta paga, il certificato di residenza, il codice fiscale ed il permesso di soggiorno. Appare difficile capire il perché una banca, per l’accesso di una persona immigrata ad un servizio che non comporta alcun rischio non ritiene sufficiente richiedere semplicemente il documento d’identità come fa con i cittadini italiani. Per l’apertura di un conto corrente bancario ad un immigrato, oltre ai documenti supplementari già visti, alcune banche ne aggiungono altri e precisamente, la garanzia di un altro cliente immigrato o italiano noto alla banca, la dichiarazione del reddito e un versamento iniziale. E sembra che a volte queste condizioni aggiuntive non bastino: in qualche caso, prima di aprire il conto corrente, la banca chiede al datore di lavoro la conferma che l’aspirante cliente è suo dipendente o collaboratore. E evidente che questo tipo di pratica rafforza ulteriormente il potere del datore di lavoro sul lavoratore immigrato, rendendo più difficile per quest’ultimo azioni di rivalsa in caso di controversie sulla condizioni di lavoro.

Una volta avuto accesso al conto corrente, l’accesso ai servizi di bancomat e carta di credito non conseguono automaticamente a richiesta per tutte le banche ed alle stesse condizioni richieste ai cittadini italiani. Quasi tutti gli istituti bancari interpellati concedono la carta bancomat solo dopo un congruo periodo di tempo al fine di verificare l’affidabilità del cliente, allo stesso modo condizionano l’accesso a questo servizio al versamento automatico dello stipendio sul conto corrente. Ciò significa che gli immigrati regolarmente presenti in Italia che hanno una precarietà lavorativa, che lavorano in proprio o che lavorano al nero non possono di fatto accedere a questi servizi. Ai cittadini italiani la carta bancomat viene di solito data dopo qualche settimana, raramente è necessario attendere per mesi, fatta eccezione per esigenze tecniche di approntamento dello strumento.

Maggiori difficoltà si presentano per l’ottenimento della carta di credito. Qualche banca non la concede affatto, altre chiedono una fideiussione e altre ancora chiedono un garante, l’anzianità del rapporto di lavoro oltre al versamento automatico dello stipendio sul conto corrente. La preoccupazione maggiore delle banche sembra essere quella della solvibilità del cliente. Le banche non sono state in grado di fornire dati sul tasso di insolvenza dei loro clienti immigrati. Solo le due banche che hanno predisposto servizi specifici per l’utenza immigrata hanno registrato, in un caso, un’insolvenza del 3,125% in tre anni e ritenuta nei limiti di quella dei correntisti italiani e, nell’altro, un’insolvenza del 5% che, sebbene preoccupi i direttori delle agenzie, non ha portato alla cessazione del servizio specifico ma solo al rafforzamento degli strumenti di controllo. (3) In generale, molti dirigenti bancari riconoscono che le verifiche che vengono svolte dagli operatori prima di concedere ad un immigrato l’accesso a questi servizi sono più accurate rispetto a quelle che vengono svolte nei confronti dei cittadini italiani.

L’accesso al credito è quello che presenta maggiori difficoltà per gli immigrati. La concessione di un prestito costituisce per la banca un operazione ad alto rischio che comporta la richiesta di garanzie particolari. Ciò vale sicuramente anche per i cittadini italiani: un cittadino italiano che non può provare di avere un reddito fisso e quindi che non è lavoratore dipendente, ottiene con molte difficoltà un prestito. Nel caso delle persone immigrate, le banche usano una prudenza ancora maggiore nel concedere prestiti. Dai dati della ricerca sembrano non essere molti gli immigrati che hanno richiesto questo servizio; alcune direzioni generali hanno dichiarato di aver concesso prestiti ad alcuni clienti immigrati. Le garanzie richieste sono: la dichiarazione dei redditi, il versamento su conto dello stipendio e, in alcuni casi, garanzie personali o patrimoniali. Emergono anche prove a sostegno del fatto che laddove la banca adotta una strategia per facilitare l’accesso al servizio mirata all’utenza immigrata, la domanda cresce. Una delle due banche del campione che hanno predisposto servizi agevolati ha concesso prestiti ad una quota pari al 21,5% dei propri clienti immigrati. Questa banca, nell’ambito dell’offerta specifica ed agevolata all’utenza immigrata, prevede l’erogazione di prestiti per far fronte a problemi familiari, per l’acquisto dei libri scolastici e per l’avvio di un’attività commerciale, con un meccanismo di rimborso mensile in tutti e tre i casi. (4) L‘ini­ziativa di questa banca gode di un fondo di garanzia a copertura di eventuali crediti non soluti. La procedura di accesso al credito è lunga e complessa soprattutto per quanto riguarda l’erogazione di finanziamenti a sostegno dell’impresa e mira a valutare a fondo la validità e la sostenibilità economica del progetto d’impresa. Secondo i responsabili di questo pacchetto presso la banca, sino alla metà di quest’anno non si erano riscontrati casi di insolvenza fra coloro che hanno ottenuto un finanziamento a sostegno della propria impresa.

L’invio dei propri risparmi ai familiari nel paesi d’origine è uno dei servizi che parte dell’utenza immigrata chiede alle banche le quali, formalmente lo offrono a tutti ma in via preferenziale, lo riservano ai clienti. Il costo di questo tipo di servizio non solo varia fra banche ma varia anche la quota fissa richiesta, alla quale alcune aggiungono una commissione proporzionale all’importo inviato in una percentuale che oscilla tra lo 0,5 e il 2%. Non si registrano differenziazioni del costo in base alla nazionalità tranne che nel caso delle due banche più volte menzionate che hanno predisposto delle offerte agevolate applicando un costo fisso decisamente inferiore rispetto alla forbice minima e massima registrata per le altre banche. (5)

In generale, gli immigrati sembrano preferire, allo stato attuale, l’utilizzo di altri canali diversi dalle banche per le rimesse a favore dei familiari (agenzie specializzate, viaggi propri, di amici o conoscenti); questa preferenza è dovuta solo in parte al costo dell’operazione tramite banca, ma soprattutto alla lentezza e alle complicazioni organizzative per i destinatari. Per queste ragioni, rapidità e relativa facilità di fruizione, si è affermata in pochi anni anche in Italia la Western Union, un’agenzia specializzata i cui servizi sono gestiti da un’organizzazione finanziaria non bancaria la Finint, che ha visto passare le proprie commissioni attive dai 4 miliardi di lire nel 1996 ai 19 miliardi del 1998.

L’accesso al servizio di cambio valuta non presenta particolari problemi anche se alcune banche tra quelle intervistate hanno dichiarato di richiedere, oltre al documento di identità normalmente ritenuto sufficiente per svolgere questa operazione, anche il permesso di soggiorno e il codice fiscale.

Abbiamo fin qui visto alcune delle zone d’ombra nei rapporti tra il sistema bancario italiano ed i migranti qui residenti. Tali ombre non si riferiscono ad una formale esclusione dall’accesso a determinati servizi ma si sostanziano in disparità di trattamento realizzate attraverso l’adozione di criteri o regolamenti che hanno l’effetto di limitare la fruizione di detti servizi da parte dell’utenza immigrata. Negare l’accesso a un servizio come l’apertura di un conto corrente a chi non può dimostrare di avere un lavoro dipendente può sembrare, a prima vista, ragionevole dato il rischio connesso a tale servizio per la banca; ma fare lo stesso nel caso del libretto di risparmio appare un’operazione gratuitamente discriminatoria. Ma anche nel primo caso è sufficiente pensare al numero elevato di immigrati titolari di permessi di soggiorno per lavoro autonomo e alla quota, fra questi, di effettivi lavoratori autonomi (titolari di piccole imprese di servizi, artigiani, esercenti libere professioni ecc.) per rendersi conto di quanto la ragionevolezza della richiesta delle banche sia più apparente che reale, se si accetta il principio di parità di trattamento dei singoli indipendentemente dalla loro nazionalità. In un periodo di crescente flessibilità e precarizzazione del lavoro, l’adozione di criteri come quelli sopra descritti rischia di escludere senza uscita molti lavoratori immigrati dalla fruizione di alcuni fra i più basilari servizi bancari.

Accanto a queste situazioni di svantaggio, emergono anche aspetti positivi. La ricerca qui considerata non ha effettuato un inventano delle buone pratiche di tutto il sistema bancario italiano rivolte all’utenza immigrata ma si è limitata a registrare quelle messe in atto dalle banche coinvolte nella ricerca. Abbiamo visto in precedenza che alcune banche hanno elaborato materiali informativo non solo in lingue europee come l’inglese, il francese o il portoghese ma anche in arabo e cinese. L’accessibilità delle informazioni contribuirà a favorire un maggior utilizzo dei servizi bancari da parte degli immigrati.

Ancora più importante sembra l’offerta di un pacchetto di servizi agevolati rivolti a clienti immigrati. La gamma delle agevolazioni comprendono alcune delle seguenti misure: l’apertura di un libretto di risparmio e/o di un conto corrente con una bassa spesa fissa annua; la possibilità di rimesse all’estero ad una spesa bassa e fissa; la possibilità di avere piccoli prestiti per far fronte a spese familiari, sanitarie, scolastiche o per la casa; finanziamenti a sostegno dell’attività commerciale; conti correnti agevolati per associazioni che rappresentano o svolgono servizi a favore degli immigrati; l’emissione della carta bancomat (6) polizza assicurativa che garantisce una certa diaria giornaliera in caso di ricovero per infortunio e un contributo spese per il rimpatrio della salma nel paese di origine in caso di morte.

Di altrettanto interesse sono le misure adottate per favorire le rimesse ai paesi d’origine. Alcune banche hanno realizzato accordi con istituti bancari di alcuni paesi di origine degli immigrati (Sri Lanka, Marocco, Tunisia, Filippine, Perù, Senegal) per facilitare l’invio di rimesse anche a quei familiari che non hanno un conto corrente dove ricevere direttamente gli invii dall’Italia. Altre hanno stretto già o stanno negoziando accordi con Finint per distribuire i servizi Western Union presso i propri sportelli in modo che il cliente immigrato potrà scegliere di effettuare la propria rimessa attraverso il bonifico bancario, che costa in media di meno ma è più lento, o se utilizzare il servizio Western Union presente nella sua banca, che costa molto di più ma consegna quanto inviato nel giro di poche ore. Infine, risulta che una banca ha stipulato un accordo con il Centro Islamico Italiano che prevede conti correnti agevolati per gli immigrati di religione musulmana. Gli interessi maturati su tali conti verrebbero devoluti al Centro Islamico poiché questa religione non ammetterebbe che siano corrisposti interessi ai titolare dei conti.

 

4. Accesso ai servizi assicurativi

Gli immigrati si avvalgono dei servizi assicurativi almeno per la responsabilità civile per l’uso dell’automobile. Segnaliamo in questa sezione una circolare (7) dell’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e di interesse collettivo uscita quest’anno e che non solo segnala alcune discriminazioni nei confronti degli stranieri extracomunitari ma precisa ulteriormente la nuova situazione determinata dal D.lgs. 286/98. Dalla circolare, ma anche da una sentenza della Corte di Appello di Milano (sentenza del 12.5.1999), (8) emerge che in casi di richiesta di risarcimento danni da parte di cittadini stranieri per incidenti stradali le compagnie d’assicurazione frequentemente richiamano il principio della reciprocità per la determinazione di quanto liquidare allo straniero. In sostanza succede che le assicurazioni in molti casi come quello ricordato sopra, propongono dei risarcimenti inadeguati nei confronti degli stranieri regolarmente soggiornanti, riconoscendo al danneggiato quanto verrebbe riconosciuto ad un cittadino italiano per un fatto analogo nel paese d’origine delle straniero.

La circolare ricorda che la legge di «riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato» stabilisce che «la responsabilità per fatto illecito è regolata dalla legge dello stato in cui si è verificato il fatto», per cui ogni sinistro che si verifichi in territorio nazionale è soggetto all’applicazione delle legge italiana in materia. Precisa inoltre che, anche nell’ipotesi che la reciprocità possa essere correttamente invocata in materia di assicurazione, tale principio comporta solo che il paese d’origine dello straniero riconosca al cittadino italiano, senza discriminazioni, i diritti civili connessi al risarcimento del danno e all’istituto dell’assicurazione.

Ancora più interessante è il richiamo della circolare alla legge 40/98 ed al T.U. e al modo in cui ha modificato lo stesso istituto della reciprocità. L’attenzione delle imprese del settore viene richiamata in particolare sull’articolo 2 comma 2 del T.U. che riconosce allo straniero il godimento dei diritti civili attribuiti al cittadino italiano e l’articolo 1 comma 1 del regolamento di attuazione che stabilisce che la reciprocità va accertata nei soli casi previsti dal T.U. o dalle convenzioni internazionali e secondo le modalità previste dallo stesso T.U..

Prosegue poi affermando che «appare evidente come il problema del risarcimento dei danni nei confronti dei cittadini stranieri possa considerarsi superato alla luce delle vigenti disposizioni in materia». Ritiene inoltre che, sotto il profilo del rispetto dei principi costituzionali, non sarebbe legittima neppure una disparità di trattamento a seconda che il cittadino extracomunitario sia regolarmente o irregolarmente soggiornante in Italia, in quanto l’eventuale irregolarità del soggiorno si riferisce a profili di polizia che non hanno alcuna incidenza negativa sul diritto al risarcimento. La valutazione e la quan­tificazione del danno biologico deve avvenire con riguardo al luogo dove il soggetto danneggiato conduce la sua esistenza e svolge la sua attività; in altre parole occorre far riferimento al paese di effettiva residenza del soggetto ed è ragionevole tenere conto di questo nel caso che il soggetto sia regolarmente o irregolarmente in Italia.

Conclude invitando le imprese del settore ad attenersi alle indicazioni contenute nella circolare, evitando che da un richiamo improprio del principio di reciprocità derivino discriminazioni a danno degli stranieri extracomunitari e ricordando che quanto affermato vale come principio generale per cui deve trovare applicazione non solo nel settore della responsabilità civile auto ma in tutto il settore della responsabilità civile tutte le volte che il danneggiato è un cittadino extracomunitario.

La circolare appena illustrata evidenzia la necessità che enti ed istituzioni adeguino i propri regolamenti interni alla norma sulla condizione dello straniero; nel caso delle imprese di assicurazione, è stato sufficiente richiamare al rispetto dell’equiparazione dello straniero al cittadino italiano in materia civile per evitare una illegittima discriminazione che si basava su un’incertezza interpretativa.

Sempre nel settore assicurativo, ci è stata segnalata da alcuni immigrati la buona pratica di alcune imprese; al fine di fornire la garanzia di cui all’articolo 23 comma i del T.U. D.lgs. 286/98 per l’ingresso per ricerca di lavoro, alcune assicurazioni hanno istituito un’apposita polizza a basso costo che copre la fideiussione nella misura richiesta dal regolamento attuativo e le circolari applicative. Si tratta di un atto di fiducia in grado di permettere ad un numero ragionevole di persone immigrate di attivare una filiera migratoria parentale e/o amicale che costituisce una buona base di partenza per l’integrazione nella società.

 

5. Accesso ai servizi sportivi

Nel corso dell’anno è emersa più volte la conferma che lo sport sia investito, in quanto fenomeno sociale ed al pari di tanti altri, dal problema del razzismo e della discriminazione, nonostante una diffusa retorica dello sport come elemento di unione fra i popoli. Lungi dall’unire i popoli, sempre più lo sport viene usato quale veicolo di un nazionalismo (9) che non di rado sfocia in vero e proprio razzismo. Così come era avvenuto in altre parti d’Europa, anche l’opinione pubblica italiana ha dovuto prendere atto nel corso dell’anno della crescente presenza di gruppi organizzati di tifosi che prendono lo sport come pretesto per manifestare apertamente il loro razzismo e la loro xenofobia. Tanto numerosi sono stati gli episodi di questo genere nella passata stagione sportiva, che il ministro competente è stato più volte costretto a minacciare l’interruzione delle manifestazioni sportive durante le quali gruppi organizzati esprimevano apertamente il proprio razzismo.

Anche nel mondo dello sport professionistico non sono mancati episodi di razzismo che hanno conquistato le cronache: in uno dei casi del genere avvenuto tra due giocatori entrambi stranieri non-Ue, un giocatore nero è stato insultato per il colore della sua pelle.

Al fine di valutare lo stato di integrazione degli immigrati anche in questo settore della vita pubblica, ovvero le opportunità di accesso e di fruizione delle attività del settore sportivo, ci si riferirà ad alcune delle discipline più praticate ed ai relativi organismi di governo (federazioni), alle regole interne, alle procedure e alla prassi in vigore: esamineremo brevemente le federazioni del calcio (FIGC), della pallavolo (FIPAV), della pallacanestro (FIP), dell’atletica (FIDAL) e del nuoto (FIN). Queste sono le discipline che contano il maggior numero di atleti e di pubblico ed intorno alle quali ruotano anche grossi interessi economici.

L’attività sportiva presenta una struttura organizzativa ben articolata a livello locale, nazionale e internazionale. Le federazioni sportive si occupano, attraverso le proprie sedi regionali, nazionali e internazionali, dell’organizzazione dello sport agonistico a livello giovanile, dilettantistico e professionistico. Delle federazioni fanno parte poi le società sportive (dette anche club) che organizzano e gestiscono le squadre. Federazioni e società sportive stilano i regolamenti per la pratica delle diverse attività, nel quadro di norme nazionali ed internazionali.

In linea generale, e comunemente a tutte, la discriminazione in queste discipline sportive si presenta in forma indiretta attraverso norme, regolamenti e prassi nazionali e locali che hanno, al di là dell’intenzione, effetti discriminatori nei confronti dei cittadini stranieri o di origine straniera regolarmente soggiornanti in Italia. Alcuni fra coloro che si occupano di sport agonistico a livello dilettantistico fra i giovani ed alcune famiglie straniere i cui figli intendono praticare sport agonistico ma non professionistico in Italia, segnalano l’esistenza di tali discriminazioni. La discriminazione maggiore sembra infatti riguardare quei giovani stranieri non-Ue residenti in Italia che, a causa della presenza di quote che limitano il tesseramento degli stranieri non-Ue, si ritrovano ad essere esclusi dall’attività sportiva.

Nel calcio il problema riguarda i giovani che hanno compiuto i sedici anni: solo uno di loro può essere tesserato per ogni squadra. In una grande città come Torino con circa 150 squadre di calcio, questa regola comporta che solo 150 ragazzi stranieri che hanno compiuto 16 anni potranno giocare a calcio a livello agonistico ma non professionistico. Una revisione del regolamento della federazione avvenuta nel 1999 non ha, contrariamente alle aspettative di molti, modificato tale regola. Anche i giovani naturalizzati non godono di parità di trattamento con altri cittadini italiani: ad essi è richiesta infatti un’anzianità di tesseramento con la FIGC di almeno 5 anni per poter essere in squadre senza limitazione di numero.

Per la pallavolo la limitazione scatta a tredici anni: nella categoria dilettanti non ci sono limitazioni al numero di tesserati stranieri, ma solo uno, tesserato con la FIPAV da almeno due anni, è ammesso in campo. (10) Nelle squadre giovanili di pallacanestro non sono invece ammessi gli atleti non comunitari. (11) Per l’atletica, ogni società può tesserare un massimo di 4 atleti (due maschi e due femmine per anno. (12) Per il nuoto, non vi sono limitazioni di numero per gli atleti non comunitari tesserabili, ma sono richiesti due anni di tesseramento per la partecipazione ad attività di squadra. (13)

Anche sul piano delle procedure, appaiono delle disparità di trattamento: agli atleti dilettanti non comunitari è richiesta la presentazione, oltre del permesso di soggiorno valido per almeno un anno e del certificato di residenza, anche di un’attestazione del datore di lavoro o del certificato di iscrizione a scuola. Nel caso della pallavolo, il tesseramento di cittadini stranieri è esclusiva competenza della federazione nazionale (invece che dei comitati provinciali) ed è subordinato alla presentazione, per gli atleti minori di 13 anni, di un certificato di residenza, uno di iscrizione a scuola e una certificazione del motivo di trasferimento della famiglia in Italia. Anche nel caso della pallacanestro e dell’atletica, oltre al permesso di soggiorno sono richiesti certificati di lavoro o di studio.

Da quanto visto fin qui, emerge una situazione di disparità di trattamento in base all’origine nazionale o alla cittadinanza che colpisce in modo particolare i minori stranieri non comunitari. La gravità di casi come questi può essere meglio apprezzata se si pensa alla situazione di quei giovani non comunitari nati in Italia da genitori entrambi stranieri che, in una fase di sviluppo psico-fisico delicata per tutti, scoprono questa loro differenza rispetto a coetanei ed amici con i quali, fino ad allora, hanno condiviso numerose esperienze. Ma anche per i non nati qui, rimane grave l’esclusione da un’attività che dovrebbe avere un ruolo educativo e di socializzazione importante.

 

6. Stato di applicazione delle norme contro le discriminazioni

L’anno in corso ha registrato le prime applicazioni delle norme anti-discriminazione del D.lgs 286/98 e si sono anche verificate molte altre situazioni in cui la violazione di tali norme era ragionevolmente ipotizzabile ma che ha dato seguito ad alcun ricorso alle autorità giudiziarie né ad altro soggetto per una ricomposizione extra­giudiziale. Al momento della stesura del presente rapporto, l’esito del ricorso alla giustizia civile come previsto dalle norme in oggetto è noto per due casi mentre altri sono ancora in via di determinazione. Pertanto, sebbene il numero dei casi sia limitatissimo, sarà bene passarli in rassegna perché rivelano alcune luci ed ombre delle norme stesse, della loro interpretazione ed applicazione. (14)

Il primo caso di applicazione ovvero di giudizio di un organo giudiziario in base alle previsione degli articoli in esame è avvenuto a Milano. Si tratta del caso di una donna straniera regolarmente soggiornante alla quale un’agenzia immobiliare ha rifiutato di affittare un alloggio con la motivazione che «i proprietari non avevano intenzione di affittare agli extracomunitari», (15) In seguito a questo rifiuto, la donna discriminata si è rivolta ad una associazione che offre consulenza legale alle persone immigrate; i volontari di questa associazione hanno contattato la stessa agenzia con la richiesta di un alloggio in affitto per una cittadina di un paese extracomunitario. Ai volontari è stata data la stessa risposta negativa. In sede di giudizio, l’agenzia chiamata in causa ha negato di aver ricevuto una richiesta per locazione da parte della donna straniera, ma il giudice ha ritenuto provata la circostanza denunciata, riconoscendo attendibilità ai testimoni del ricorrente: i volontari dell’associazione che avevano fatto la telefonata di «controllo» in seguito alla lamentela della donna discriminata. Inoltre, lo stesso giudice ha riconosciuto alla vittima della discriminazione il diritto al risarcimento dei danni morali, quantificati in lire un milione, oltre alle spese processuali.

Il secondo caso di azione di tutela civile contro la discriminazione promossa in base al D.lgs 286/98 e sulla quale si è già pronunciato un tribunale si è verificato a Firenze. In questo caso, una donna di origine straniera extracomunitaria ha denunciato un controllore dei servizi di trasporto del Comune di Firenze -  l’ATAF - per avere effettuato la verifica a bordo del titolo di viaggio iniziando da lei e trascurando gli altri passeggeri, averla obbligata a scendere dal mezzo; non aver creduto alle generalità da lei rese, averla rincorsa e fermata e fatta salire su una macchina dell’ATAF senza segni di riconoscimento per accompagnarla alla Polizia e per averla minacciata di farla rimpatriare nel paese d’origine. Il ricorso è stato respinto perché dall’istruttoria non è emersa una «specificità discriminatoria» ma solo «un comportamento arbitrario» da parte del controllore, che avrebbe potuto verificarsi, indipendentemente dalla razza, con qualunque altro soggetto che fosse entrato in contrapposizione con lo stesso in quel contesto relazionale.

Un primo aspetto d’interesse dei due casi citati è rappresentato dal ruolo dei testimoni nella valutazione di ciascuna. Nel primo, i testimoni del ricorrente sono stati ritenuti attendibili anche di fronte alla negazione dell’agenzia immobiliare di aver ricevuto una richiesta di locazione da parte della donna. Nel secondo invece, il testimone della ricorrente (sua sorella) e quelli del controllore (due suoi colleghi) tutti presenti durante l’evento, hanno sostenuto posizioni diverse che sono finite in qualche modo per «annullarsi». Pur rilevando, quindi, un comportamento arbitrario, definito nell’ordinanza «reazione stizzita ed abnorme» l’atteggiamento della donna, si è ritenuto che l’origine etnica di questa non fosse la causa dell’accaduto, o almeno non sono emerse prove a sostegno.

Entrambi fatti raccontati rimandano al problema della prova in casi di discriminazione su qualunque base. L’esperienza di lotta alle discriminazioni nei confronti delle donne dimostra che è estremamente difficile ed a volte impossibile per una vittima di un atto discriminatorio dimostrare l’accaduto; basti pensare ai casi in cui la vittima è sola mentre l’attore ha dalla sua uno o più testimoni pronti a sostenere posizioni favorevoli allo stesso, o ai fatti i cui elementi di prova sono in possesso del soggetto che ha compiuto l’atto discriminatorio, e ancor più se questo rappresenta un organo istituzionale [Mughini 2000]. Le esperienze di protezione legale contro le discriminazioni dimostrano che non c’è un’efficace tutela di legge contro un atto discriminatorio in assenza dello spostamento dell’onere della prova a carico dell’accusato/a, è per questo che, in molti paesi europei e nella legislazione dell’Unione europea, questo spostamento viene previsto in ogni provvedimento contro le discriminazioni. La legge 40/98 e il Testo Unico nella quale è stata trasfusa non prevedono lo spostamento dell’onere della prova e ciò rappresenta un limite grosso al quale bisognerà porre rimedio quanto prima, anche in ottemperanza alla previsione della recente direttiva Ue in materia di parità di trattamento indipen­dentemente dalla razza e dall’origine etnica. (16) Torneremo in seguito a questo problema quando esamineremo le due recenti direttive dell’Ue e quali cambiamenti comporteranno nella legislazione nazionale.

Altro aspetto d’interesse è dato dal risarcimento del danno non patrimoniale concesso nel caso dell’agenzia immobiliare. L’applicazione di questa previsione conferma la novità rappresentata dal risarcimento del danno morale svincolato dall’ipòtesi di sussistenza degli estremi del reato [Mantello 1999; Mughini op. cit.; Pipponzi 2000]. Questa novità è implicita nell’orientamento facilmente riscontrabile in molte legislazioni adottate di recente sulle discriminazioni, che preferisce l’uso di

norme del diritto civile per contrastare buona parte degli atti discriminatori anziché fare ricorso al diritto penale. In altre parole, la lotta mediante legislazione alle discriminazioni pone sempre più l’accento sulla cessazione della discriminazione e sul rimedio per la vittima mentre ridimensiona l’aspetto della punizione per il responsabile per tali comportamenti. A sostegno di questa linea di condotta si citano come limiti la pesantezza e rigidità del procedimento penale oltre i tempi lunghi che richiede per arrivare a sentenze definitive che possono disincentivare molte vittime dall’intraprendere azione legale a tutela dei propri interessi. D’altra parte, ben difficilmente potrà essere adottata una misura come lo spostamento dell’onere della prova in un procedimento penale.

Fra i casi di azione civile promossa ai sensi degli artt. 43 e 44 del D.lgs 286/98 ma ancora in via di definizione, vale la pena citare quello di un lavoratore immigrato, socio di una cooperativa di lavoro e inviato presso un’altra azienda con la prospettiva di restarci a lungo. (17) Questo lavoratore denuncia ad un numero verde, istituito da alcune Ong locali per il monitoraggio della discriminazione e del razzismo, che nell’azienda dove lavora ci sono bagni separati evidenziati da due cartelli differenti indicanti uno «per dipendenti» e l’altro «per ospiti» e che ai lavoratori stranieri è vietato fare uso del bagno dei dipendenti. Il lavoratore afferma che in precedenza, c’era un cartello, all’ingresso dello stabilimento, con la scritta «vietato agli extracomunitari» e che sul posto di lavoro c’è un clima molto ostile nei confronti dei lavoratori stranieri. Come parte della procedura di controllo e verifica dei casi segnalati al numero verde, gli operatori hanno contattato, senza successo, la direzione aziendale per avere il suo punto di vista e sono poi andati a visitare lo stabilimento senza riuscire ad entrarvi. Poco dopo l’ultimo tentativo (una telefonata) di parlare con la direzione aziendale, il lavoratore denunciante è stato licenziato dalla stessa, dicendo di «non voler aver problemi». Il lavoratore ha potuto proporre ricorso al giudice con il sostegno dell’Osservatorio; al momento della stesura del presente rapporto il procedimento è ancora in via di definizione [CESTIM, MLAL 2000].

Al di là dell’esito del procedimento in corso, il caso conferma l’importanza di avere un centro regionale di osservazione, studio e informazioni sulle discriminazioni e la gravità della sua non realizzazione da parte delle regioni e province autonome. Un centro regionale dotato di adeguati poteri di interlocuzione avrebbe potuto quantomeno richiedere alle forze di pubblica sicurezza la verifica di quanto dichiarato dal lavoratore immigrato oltre ad essere investito di legittimità a discutere direttamente con la direzione aziendale.

 

7. Aggiornamento quadro europeo

Nel primo rapporto sull’integrazione, abbiamo dato conto delle due proposte di direttiva della Commissione europea per attuare l’art. 13 di Amsterdam. Le due proposte erano inserite in un pacchetto che comprendeva una proposta di decisione del Consiglio che stabilisce un programma d’azione comunitaria di lotta contro la discriminazione (2001-2006).

La direttiva che «attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica» è stata adottata a giugno, mentre quella che «stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro» ed il programma d’azione sono stati approvati entrambi ad ottobre, ma al momento dell’uscita del presente rapporto, non sono stati ancora pubblicati sulla gazzetta ufficiale della Comunità europea. La direttiva che attua il principio della parità di trattamento fra le persone presenta molte luci e qualche ombra rispetto alla normativa nazionale. Una fra le prime è rappresentata dalla definizione della discriminazione che viene distinta in diretta ed indiretta’ rispetto alla normativa nazionale, la definizione della discriminazione diretta risulta più semplice e più facile da comprendere. Secondo la direttiva sussiste discriminazione diretta quando, a causa della sua razza od origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia stata o sarebbe trattata un ‘altra in una situazione analoga (art. 2 (2) lett. a). La definizione della discriminazione indiretta è sostanzialmente uguale a quella contenuta nel T.U. sulla condizione dello straniero; infatti ai fini di attuare il principio della parità di trattamento, sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone, a meno che tale disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari (art. 2 (2) lett. b). A queste due definizioni la Direttiva della Commissione Europea aggiunge due elementi che le integrano: stabilisce che le molestie, definite conformemente alle leggi e prassi nazionali, sono da considerarsi una discriminazione in caso di comportamento indesiderato adottato per motivi di razza o di origine etnica e avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante. umiliante od offensivo’ in secondo luogo viene esplicitato che l’ordine di discriminare persone a causa della razza o dell’origine etnica è da considerarsi una discriminazione.

Altro aspetto positivo riguarda l’onere della prova; l’articolo 8 afferma che «gli Stati membri prendono le misure necessarie, conformemente ai loro sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che, allorché persone che si ritengono lese dalla mancata applicazione nei loro riguardi del principio della parità di trattamento espongono, dinanzi a un tribunale o a un’altra autorità competente, fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, incomba alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio della parità di trattamento». Lo spostamento dell’onere della prova viene esplicitamente escluso per i provvedimenti penali e vengono fatte salve disposizioni in materia di prova più favorevoli alle parti attrici, mentre gli stati membri «non sono tenuti» ad applicano «ai procedimenti in cui spetta al giudice o all’organo competente indagare sui fatti».

Abbiamo visto in precedenza che l’assenza nella normativa nazionale dello spostamento dell’onere della prova rappresenta un ostacolo a volte insormontabile per una vittima di discriminazione quando cerca la protezione della legge. Questo sarà pertanto uno dei punti in cui tale normativa dovrà adeguarsi alla direttiva in oggetto.

Un altro aspetto che comporterà un adeguamento della normativa nazionale riguarda l’istituzione di uno o più organismi per la promozione della parità di trattamento di tutte le persone senza discriminazioni fondate sulla razza o l’origine etnica ed indica tra le competenze di tali organismi

a) l’assistenza indipendente alle vittime di discriminazioni nel dare seguito alle denunce da essi inoltrate in materia di discriminazione;

b) lo svolgimento di inchieste indipendenti in materia di discriminazione;

c) la pubblicazione di rapporti indipendenti e la formulazione di raccomandazioni su questioni connesse con tali discriminazioni.

La necessità di un adeguamento non deriva da una mancanza di simile previsione nella legge nazionale ma dalla non attuazione da parte delle regioni e province autonome di quanto previsto dalla legge stessa, ovvero la costituzione dei centri regionali di osservazione e studio delle discriminazioni e di assistenza alle vittime. Ad integrazione ditale previsione, si potrà stabilire la costituzione di un organismo nazionale di coordinamento con poteri ben definiti al fine di espletare le proprie funzioni in modo efficace.

Infine, il grosso limite della direttiva rispetto alla normativa nazionale è dato dal fatto che non copre le differenze di trattamento basate sulla nazionalità, né qualsiasi trattamento derivante dalla condizione giuridica dello straniero non comunitario. E' evidente lo sforzo di non sovrapporsi a parti delle varie disposizioni nazionali in materia d’ingresso e soggiorno dei cittadini di paesi terzi, col rischio d’irritare alcuni paesi membri dell’Unione ma, così facendo, lascia uno spazio vuoto che non permetterà di raggiungere l’obiettivo dichiarato di avere un livello di protezione minima e garantire la parità di trattamento. Fortunatamente, la normativa nazionale èpiù puntuale ed inclusiva nella protezione che offre in quanto prevede lo stesso divieto di discriminazione sulla base della sola condizione di essere straniero o dell'appartenenza da una nazionalità o cittadinanza, salvo nei casi previsti dalla legge stessa. Così facendo, il legislatore ha tenuto distinte le norme, con connesse pratiche e procedure, sulla condizione dello straniero dalla necessità di tutelare e garantire la pari dignità di ogni persona e non solo dei cittadini, anche in osservanza del dettato costituzionale [Luciani 2000].

Per garantire un livello minimo di protezione contro le discriminazioni, la direttiva afferma che gli Stati membri possono introdurre o mantenere, per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle fissate nella stessa direttiva e che l’attuazione della stessa non può in alcun caso costituire motivo di riduzione del livello di protezione contro la discriminazione già previsto nell’ordinamento nazionale nei settori di applicazione della direttiva.

 

8. Proposte

A più di due anni dall’uscita del D.lgs 286/98, constatiamo che rimangono diversi problemi nella sua attuazione, il primo dei quali è che la norma è ancora poco conosciuta ed applicata, a partire dalla mancata attivazione dei centri regionali fino all’adeguamento dei regolamenti, prassi e procedure in diversi settori ed a più livelli.

Questa mancanza ha comportato che la nostra conoscenza della diffusione del fenomeno e delle buone pratiche messe in atto ha progredito poco e con difficoltà. In alcuni casi, dove i regolamenti sono stati rivisti dopo l’entrata in vigore della legge 40/98, le norme anti-discriminazione non sono state tenute in considerazione (esempio di alcune federazioni sportive). Proposta: occorrono più iniziative per promuovere la conoscenza e l’applicazione di queste norme; in attesa che le regioni attivino i centri di osservazione, la Commissione potrebbe promuovere ricerche specifiche per rilevare il grado di adeguamento di regolamenti, prassi e procedure in alcuni settori chiave della vita pubblica come quelli del lavoro e dell’alloggio. L’iniziativa in esame al Dipartimento per gli Affari sociali per l’attivazione di un numero verde nazionale contro le discriminazioni può costituire una buona occasione di rilancio di quanto la legge prevede in materia di tutela contro la discriminazione.

Il ruolo positivo degli organismi di promozione della parità di trattamento nel rendere efficace la lotta contro le discriminazioni è largamente riconosciuto dalle istituzioni sia del Consiglio d’Europa sia dell’Unione e ciò viene riaffermato nella recente direttiva di quest’ultima sulla parità di trattamento. Abbiamo osservato in precedenza che per questo aspetto, basterebbe pochissimo per adeguare la normativa nazionale alla direttiva in quanto il T.U. sulla condizione dello straniero aveva già previsto tali organismi, affidandone la competenza alle regioni. Poiché la suddetta direttiva prevede che gli stati membri dell’Unione si adeguano entro il 19 luglio 2003, occorre sollecitare le regioni e province autonome fin d’ora onde evitare un frettoloso adeguamento all’ultimo minuto dettato più dall’esigenza di non incorrere in procedure d’infrazione da parte della Commissione europea. L’assetto più funzionale di un tale organismo non potrà che essere trovato dopo un congruo periodo di tempo che permetta di far emergere i diversi problemi coinvolti (metodologie comuni o simili, comparabilità dei dati, raccolta e disaggregazione dei dati in base all’origine nazionale o etnica ecc.). Quest’ultimo aspetto richiede che si avviino riflessioni in merito per le molte questioni che solleva; il timore dell’utilizzo di tali informazioni per mettere in atto discriminazioni anziché per verificare l’attuazione del principio di parità di trattamento è certamente forte e necessiterà di predisporre le necessarie garanzie e meccanismi ma anche una campagna per una corretta informazione alla cittadinanza.

Si conferma la bontà della scelta di consentire alle associazioni di rappresentanza o di tutela dei diritti degli stranieri o quelle sindacali di poter intervenire, promuovendo azioni legali in casi di discriminazioni. Si verifica in molti casi che le vittime di atti di discriminazione non intraprendono azioni legali a propria tutela a causa di vari fattori: l’impatto emotivo dell’esperienza, l’esigenza di dover ancora risolvere il problema (esempio ricerca di una casa in affitto) per la quale l’azione legale non offre una soluzione, i tempi lunghi dell’azione giudiziaria e, a volte, anche la pressione di familiari ed amici che temono eventuali ritorsioni. Abbiamo visto sopra che nel caso dell’agenzia immobiliare condannata a risarcire il danno per discriminazione, l’apporto dell’associazione di volontariato che ha assistito la vittima è stato decisivo nell’acquisizione della prova. Occorre potenziare il sostegno alle associazioni della società civile che si occupano della tutela dei diritti di migranti, rifugiati, Rom, Sinti e camminanti; grazie al sostegno della Commissione europea,

alcune di queste hanno già intrapreso azioni (18) per la promozione della parità di trattamento e di contrasto alla discriminazione in base alle nuove condizioni rese possibili sia dalla direttiva europea sia dalla legge nazionale.

 

Riferimenti bibliografici

 

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2000 «Diritto, Immigrazione e Cittadinanza» (rivista trimestrale promossa dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione e da Magistratura democratica), anno II, n. 1 e n. 2, F.Angeli, p. 116-117.

 

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2000 Immigrazione: Dossier statistico 2000, edizioni Anterem, Roma.

 

CESTIM (Centro studi suII’immigrazione) - MLAL (Movimento Laici America Latina)

2000 Relazione finale del progetto «Numero verde Schengen... una telefonata contro la discriminazione», Verona, dicembre 1999-ottobre 2000.

 

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2000 Riflessioni in merito alle modalità di accesso degli immigrati alle graduatorie per l’assegnazione degli alloggi in edilizia residenziale pubblica dall'ATER (ex-Iacp) di Pordenone, ASGI, documento non pubblicato.

 

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2000 Circolare 12 aprile 2000, n. 407-D; in «Diritto, Immigrazione e Cittadinanza», anno II, n. 2, F.Angeli, p. 199-201.

 

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2000 La Costituzione nella società plurale, in Atti del convegno «Migrazioni e società multiculturale, le regole della convivenza», Agenzia Romana per la preparazione del Giubileo, Napoli, novembre.

 

Mantello, M.

1999 Discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi: profili della tutela civile (artt. 41 e 42 legge 6 marzo 1998 n. 40), Commissione per l’Integrazione, «Working paper», n. 6.

 

Mughini, L.

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Pipponzi, M. Scheda

2000 Tribunale di Milano, ordinanza del 30 marzo 2000, in «Diritto, immigrazione e cittadinanza», anno II, n. 2, cit.

 

Taguieff P.

1999 Il razzismo - pregiudizi, teorie, comportamenti, Raffaello Cortina Editore.

 

Wierviorka, M.

2000 Il razzismo, Editori Laterza.

 

Direttiva 2000/43/CE del Consiglio del 29 giugno 2000 che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, in «Gazzetta ufficiale delle Comunità europee», E. 180/22 del 19.07.2000.

 

Direttiva 2000/43/CE del Consiglio del 29 giugno 2000, in «Gazzetta ufficiale delle Comunità europee», L. 180/22 del 19/07/2000.

 

Rete d’urgenza contro il razzismo, Rapporto di ricerca sulla discriminazione, Torino, 2000.

 

Note:

 

1) IACP per la Provincia di Pordenone, lettera del 25 agosto 1999, oggetto: richiesta documentazione ex art. 49 L.R: 75/1982. Questa lettera indica il termine per la presentazione dell’integrazione richiesta in 40 giorni dalla data della stessa.

 

2) Fra gli interpellati, risultano aver predisposto un pacchetto di servizi mirati ed agevolati il Banco Ambrosiano Veneto e la Banca popolare di Milano. Il numero di clienti che hanno richiesto questi pacchetti risulta nel primo caso pari a 3.500 cioè lo 0,4% del numero totale dei clienti, nel secondo pari a 5.000 (0,3% del totale).

 

3) La Banca popolare di Milano (BPM) che ha predisposto il conto corrente «Extrà» ha dichiarato che su 8000 conto correntisti avuti in tre anni, solo 250 sono risultati insolventi. Il Banco Ambrosiano Veneto che ha predisposto il conto «People» ha registrato, su 5.000 correntisti, 250 insolvenze.

 

4) L’intero pacchetto di servizi offerti nell’ambito del conto «Extrà» dalla BMP è stato elaborato e realizzato in collaborazione con la Camera di Commercio di Milano, la Fondazione San Carlo, il Fondo di garanzia per il credito al Commercio e al Turismo (FIDOCOMET) e gli uffici stranieri dei sindacati CGIL, CISL e UIL.

 

5) Il costo fisso per l’invio di denaro tramite le banche coinvolte va dalle 15.000 alle 37.000 lire mentre la Banca Popolare di Milano e il Banco Ambrosiano Veneto hanno previsto costi agevolati rispettivamente di 10.000 e 5.000 lire.

 

6) Questa non sembra un’agevolazione di per sé in quanto di norma viene emessa, a richiesta, alla clientela di cittadinanza italiana dopo l’apertura di un conto corrente.

 

7) Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni: Circolare 12 aprile 2000, n. 407-D; in «Diritto,

Immigrazione e Cittadinanza» (rivista trimestrale promossa dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione e da Magistratura democratica), anno 11, n. 2/2000, F. Angeli, p. 199-201.

 

8) «Diritto, Immigrazione e Cittadinanza», cit. p.1 16-117.

 

9) The European model of sport, Consultation document of DGX

(http://europe.eu.int/comm/dg10/sport/publications/doc_consult_en.html - 18/08/99)

 

10) FIPAV, Guida pratica, Stagione agonistica 1998/99.

 

11) FIP, Carte federali, 1995; FIP, Regolamento esecutivo, maggio 1998.

 

12) FIDAL, Regolamento organico, 1998.

 

13) FIN, Regolamenti federali, 1999.

 

14) Nel capitolo sulla discriminazione del Primo rapporto sull‘integrazione degli immigrati in Italia, si rinviò ad altre parti dello stesso per una valutazione strettamente giuridica degli artt. 43 e 44 del d.lgs 286/98, limitandosi ad evidenziare alcune novità introdotte dagli stessi articoli. Quel rimando non trova alcun riscontro in quanto questa parte è stata scorporata e pubblicata come documento a sé; si veda pertanto Mantello, M. 1999: Discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi: profili della tutela civile (artt. 41 e 42 legge 6 marzo 1998 n. 40), Commissione per l’integrazione, Working paper n. 6.

 

15) Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, p.74 - 75; Rivista trimestrale promossa dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione e da Magistratura democratica, anno Il, n.2/2000; Franco Angeli editore.

 

16) Si veda inoltre la Direttiva 2000/43/CE del Consiglio del 29 giugno 2000 che attua il principio

della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica;

Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, L. 180/22 del 19.07.2000. Si veda inoltre la Direttiva

97/80/CE del Consiglio del 15 dicembre 1997 riguardante l’onere della prova nei casi di

discriminazione basata sul sesso. Sulla giurisprudenza della Corte di giustizia europea, si vedano in

particolare: Danfoss, causa C-109/88, sentenza del 17 ottobre 1989, «Raccolta della giurisprudenza»,

1989, pag. 3199, par. 16; Enderby contro Frenchay Health Authority, causa C-127/92, sentenza del

27 ottobre 1993, «Raccolta della giurisprudenza», 1993, pag. 5535, par. 13 e 14; Royal Copenhagen,

causa C-400/93, sentenza del 31 maggio 1995, «Raccolta della giurisprudenza», 1995, pag. 1275, par.

24.

 

17) CESTIM - Centro studi sull’immigrazione; MLAL - Movimento Laici America Latina: Relazione finale del progetto «Numero verde Schengen... una telefonata contro la discriminazione », Verona, dicembre 1999 - ottobre 2000.

 

18) Per questa parte del Rapporto, abbiamo attinto molto dai rapporti di progetti simili sostenuti finanziariamente dall’Ue e realizzati da organizzazioni non-lucrative di utilità sociale (ONLUS) nazionali.