cestim on line

LE MONDE diplomatique - Novembre 2000

Il lavoro globalizzato

Ma perché emigrano?

di Saskia Sassen*

 

Tenendo conto che la globalizzazione economica ha trasformato profondamente gli stati e il sistema interstatale, si può ancora pensare all'immigrazione come a una dinamica indipendente dagli altri settori? Come se il suo «trattamento» fosse ancora di pertinenza esclusiva della sovranità nazionale unilaterale? Nella riflessione sulle migrazioni internazionali, si possono ancora ignorare le trasformazioni fondamentali subite dallo stato, sia sul piano interno che su quello delle relazioni internazionali? In Europa occidentale, in Nord-America e in Giappone si è imposta l'idea di una crisi del controllo sull'immigrazione. Su queste basi si può difficilmente avviare un dibattito sereno. La questione importante infatti non è tanto l'efficienza del controllo degli stati sulle frontiere, di cui si conosce il carattere necessariamente imperfetto, quanto la natura di tale controllo. Come si possono inserire le politiche migratorie nel nuovo corso mondiale, con la sua integrazione economica, i suoi accordi internazionali sui diritti umani, l'estensione agli immigrati residenti di diversi diritti sociali e politici, la moltiplicazione degli attori politici e così via? Se lo stato-nazione dispone ancora del potere di organizzare una politica dell'immigrazione, i vari obblighi internazionali fanno sì che la sua politica di immigrazione, nel senso convenzionale del termine, riguardi solo gli aspetti marginali delle realtà migratorie. Ma prima di parlare di un'eventuale crisi del controllo statale, bisogna analizzare i sempre più numerosi vincoli esterni accettati dagli stati che, ancor più delle azioni sulle frontiere e sugli individui, ne definiscono la politica migratoria. Le migrazioni internazionali infatti non rappresentano fenomeni autonomi. Tra i principali responsabili di queste migrazioni, anche se raramente identificati come tali, ricordiamo: ¥ le società multinazionali che, attraverso il loro ruolo nell'internazionalizzazione della produzione, si sostituiscono ai piccoli produttori locali, limitando così le prospettive di sopravvivenza di questi ultimi nell'economia tradizionale e creando una manodopera mobile; inoltre, la creazione di poli di produzione rivolti all'esportazione contribuisce a creare collegamenti tra paesi che chiedono capitali e paesi esportatori di capitali; ¥ i governi, che attraverso operazioni militari provocano spostamenti di popolazioni, flussi di profughi e di migranti; ¥ le misure di austerità imposte dal Fondo monetario internazionale (Fmi), che obbligano i poveri a considerare l'emigrazione (interna o internazionale) una strategia di sopravvivenza; ¥ infine, gli accordi di libero scambio che, rafforzando i flussi di capitali, di servizi e di informazioni transfrontaliere, determinano la circolazione transfrontaliera di lavoratori specializzati. Ma perché allora l'attenzione dei responsabili politici sulle migrazioni internazionali sembra più scarsa che sugli altri settori? Quando si tratta di valutare le conseguenze economiche delle trasformazioni del commercio estero e della politica internazionale, gli esperti e i politici valutano il peso degli effetti di ogni decisione nei vari settori e cercano un certo compromesso tra i diversi aspetti. Ma l'immigrazione non è mai considerata come uno di questi settori: la si tratta isolatamente dagli altri grandi campi di azione politica, come se la si potesse considerare in modo autonomo. Una mancanza di attenzione che spiega l'inadeguatezza delle politiche adottate rispetto agli obiettivi - che si sia o no d'accordo con questi. Non sarebbe meglio se i responsabili delle politiche sull'immigrazione riconoscessero l'esistenza delle interazioni tra i diversi campi politici e le integrassero nelle loro riflessioni e ipotesi? Quando nel 1988 ho cominciato a scrivere su questo argomento, un'idea del genere era inimmaginabile, anche come semplice tema di discussione. L'economia rurale destabilizzata Nel 1992 il dibattito sul Nafta ha permesso di valutare gli effetti dell'immigrazione, in particolare quella della popolazione messicana negli Stati uniti. In un innovativo rapporto di ricerca, pubblicato nel 1990 dall'ufficio immigrazione del ministero americano del lavoro, compare uno dei primi riconoscimenti ufficiali dell'impatto delle attività estere degli Stati uniti sulla formazione dei flussi migratori. Per quanto marginali possano apparire, questi due casi rappresentano comunque un primo importante varco nel baluardo dell'autonomia costruito attorno alla politica di immigrazione. È sicuramente più complicato descrivere questo impatto che vedere nell'immigrazione una semplice conseguenza della povertà, il risultato della scelta individuale degli emigranti. Dobbiamo tuttavia collegare gli eventi migratori alle politiche che ne possono essere responsabili. Tutto lascia supporre che è proprio a partire dalle scelte dei paesi più sviluppati, importatori di manodopera, che si costruiscono i legami che uniscono i paesi di emigrazione a quelli di immigrazione, e che si creano (in questi paesi e all'estero) le condizioni che fanno dell'emigrazione una delle scelte di sopravvivenza delle popolazioni. In primo luogo, lo sviluppo dell'agrobusiness americano e la globalizzazione del mercato dei prodotti agricoli spingono molti paesi emergenti a sviluppare un'agricoltura su vasta scala diretta all'esportazione. Questa scelta riduce le possibilità di sopravvivenza dei piccoli proprietari, che diventano lavoratori dipendenti nelle grandi tenute, trasferendosi spesso dall'una all'altra. Una volta entrati in questo ciclo di migrazioni regionali (talvolta stagionali), i lavoratori diventano i principali candidati all'emigrazione internazionale. Allo stesso modo, quando le grandi imprese occidentali hanno creato manifatture e stabilimenti di montaggio nei paesi con manodopera a basso costo, l'assunzione dei lavoratori locali ha contribuito a destabilizzare le economie rurali tradizionali, in cui le donne giovani svolgevano un ruolo essenziale nella produzione. Così gli uomini hanno seguito le donne, prima in città, poi all'estero. Dove? Il lavoro presso le imprese occidentali significa contatti con i paesi da dove provengono i capitali; ciò riduce la distanza soggettiva tra il lavoratore straniero e questi paesi. In altre parole, se posso cogliere qui la frutta per le famiglie americane, se posso montare qui i componenti di un elettrodomestico, posso farlo altrettanto bene negli Stati uniti! Inoltre i quadri dirigenti, soprattutto nelle manifatture, formano gli operai non solo rispetto alle competenze richieste, ma anche a un comportamento «consono» al luogo di lavoro. In questo modo la direzione abitua i lavoratori e li prepara a lavorare in Occidente. Come si è visto soprattutto in Messico, a Haiti e nella Repubblica domenicana, questi operai formano la principale avanguardia dei futuri gruppi di emigranti. L'osservazione sul terreno delle cause dell'emigrazione tende a dimostrare che i flussi si inseriscono nel tempo e nello spazio, e dipendono in gran parte dalle politiche condotte negli altri settori. Numerose ricerche universitarie in tutto il mondo lo dimostrano: non si tratta né di invasioni di massa né di movimenti spontanei della povertà verso la ricchezza. La storia ci insegna che in Europa, in assenza di controllo, a distanze ragionevoli e anche quando le situazioni variano molto da un paese all'altro, sono poche le persone che lasciano le regioni più povere per trasferirsi in quelle più ricche (1). L'impressione di crisi non sembra quindi giustificata. E se gli stati esercitano un controllo inferiore a quello che vorrebbero, è proprio perché l'immigrazione risponde ad altre dinamiche. Nel corso del tempo e a livello mondiale, la migrazione ha prodotto flussi estremamente delimitati, regolati ed equilibrati da meccanismi particolari. Questi movimenti di popolazione si protraggono per un periodo di tempo determinato - spesso una ventina di anni - prima di scomparire. E i movimenti di riflusso sono più numerosi di quanto si creda: basti pensare agli intellettuali e ingegneri ebrei sovietici che sono tornati da Israele in Russia, ai messicani che sono rientrati nel loro paese attraverso i programmi di regolarizzazione - i loro «documenti» permettevano la libera circolazione tra i due paesi. Molti studi sul campo lo dimostrano: la maggior parte delle persone non vuole emigrare in un paese straniero e molti di coloro che hanno dovuto farlo sarebbero, se solo ne avessero la possibilità, emigranti circolari anziché immigrati permanenti. Ma, oltre alla globalizzazione dell'economia, un'altra grande trasformazione delle relazioni internazionali controbilancia il potere degli stati in materia di controllo dell'immigrazione: l'affermazione dei diritti umani all'interno degli stati e delle convenzioni internazionali. Un elemento che trasforma i «dimenticati» del diritto internazionale - i popoli emergenti, gli emigranti, i profughi, le donne - in soggetti giuridici. Questo nuovo status può provocare tensioni tra diversi settori di uno stesso stato. Così nei paesi più sviluppati il potere giudiziario, quando si trova a difendere i diritti degli immigrati, dei profughi e dei richiedenti asilo contro le decisioni del potere esecutivo, si vede investito di un ruolo strategico (2). Inoltre, l'espansione del diritto amministrativo e il carattere sempre più giuridico della vita politica implicano in tutti i paesi l'abbandono dello statalismo. In materia di immigrazione, in Europa occidentale come negli Stati uniti, si fa sempre più spesso ricorso ai tribunali per contestare le decisioni del legislatore. Il potenziamento dell'autorità di polizia nel settore dell'immigrazione - che non è certo in sintonia con la difesa dei diritti individuali e della società civile, così importante in questi paesi - non sfuggirà quindi alla contestazione giuridica. Relegando la politica migratoria alla sola dimensione poliziesca, lo stato provoca una moltiplicazione dei contenziosi e la sua capacità di regolare i flussi si fa sempre più ridotta. Così la globalizzazione dell'economia e il regime internazionale dei diritti umani hanno modificato il terreno sul quale si definiscono le relazioni tra gli stati; hanno contribuito alla formazione o al rafforzamento di un nuovo settore di azione civile, che va dal mondo del business a quello delle organizzazioni non governative (Ong) internazionali. L'immigrazione rafforza sempre di più questi nuovi mondi, con i quali stringe rapporti particolari, sfuggendo così - almeno in parte - al controllo dello stato sovrano. Lo stato stesso ha contribuito alla realizzazione del nuovo ordine economico mondiale. Il capitalismo mondiale ha imposto le sue ragioni agli stati nazionali, che hanno reagito producendo nuove forme di legalità. I governi hanno dovuto inventare una nuova geografia economica, non solo in termini di procedure collettive e di infrastrutture indispensabili, ma anche di lavoro statale per produrre o legittimare nuovi regimi legali. Un numero crescente di meccanismi valica le frontiere per diventare transnazionale, a tal punto che i governi fanno sempre più fatica a trattare i grandi problemi in modo unilaterale. Ciò non significa la fine degli stati nazionali, ma il cambiamento «dell'esclusività e della finalità delle loro competenze» (3): si fanno più rari i settori in cui l'autorità e la legittimità dello stato possono agire in modo da escludere gli altri attori. Allo stesso tempo il sistema interstatale, inteso nel senso stretto del termine, si vede superato dall'istituzionalizzazione crescente di sistemi di potere che non sono più incentrati sullo stato - in particolare per quanto riguarda la finanza e l'economia mondiali (4). Un'emigrazione «privatizzata» Ma se da un lato tutto spinge verso il multilateralismo, dall'altro il trattamento dei problemi di immigrazione rimane unilaterale. Questa contraddizione è superata dalla crescita di fatto (più che di diritto) del bilateralismo e del multilateralismo nella gestione di alcuni aspetti specifici dell'emigrazione internazionale. È quanto succede in Europa occidentale, dove la costruzione dell'unione economica ha imposto ai governi l'adozione di politiche sovranazionali in tutti i settori. Negoziati tra l'Unione europea e i paesi dell'Europa centrale trasformati in zona cuscinetto per i richiedenti asilo (5), misure destinate a vietare il transito tra l'Unione e l'Europa centrale di migranti clandestini: tutte prove del ricorso all'azione multilaterale, indipendentemente dalle discussioni retoriche sull'esercizio unilaterale del potere sovrano nazionale. Fenomeno unico nel suo genere, la costruzione europea illustra la difficoltà a far convivere la libera circolazione dei capitali con quella degli emigranti. La definizione e la realizzazione di una politica comune ha messo in evidenza la necessità, per ogni politica di immigrazione, di tener conto della rapida internazionalizzazione dell'economia. Uno studio delle fasi di questa costruzione permette di precisare in quale momento gli stati devono affrontare le loro contraddizioni - e per quanto possibile cercare di risolverle (6). Più gli spazi economici transnazionali sono istituzionalizzati, più il quadro della politica di immigrazione è problematico (7) - in particolare nei paesi sviluppati, dove questa politica si scontra con la crescita dell'integrazione economica mondiale. Ma l'integrazione economica supera le restrizioni alla libertà di circolazione imposte dalle politiche di immigrazione. Così, alcune prerogative della sovranità dello stato-nazione sono trasferite a entità sovranazionali - tra cui le più importanti sono l'Unione europea e l'Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Gran parte degli strumenti intellettuali di cui dispongono i governi e che permettono loro di controllare le popolazioni e il loro territorio, si trova ormai nelle mani di istituzioni non statali. Lo dimostrano i regimi privatizzati transnazionali, che gestiscono il commercio transfrontaliero e l'importanza crescente del mercato finanziario mondiale rispetto alle politiche economiche nazionali. I nuovi regimi speciali per la circolazione della manodopera nel settore dei servizi, previsto nel quadro dell'Accordo generale sulle tariffe doganali e il commercio (Gatt) e dell'Accordo di libero scambio nordamericano (Nafta), sono stati svincolati da qualunque nozione sull'emigrazione, anche se di fatto inquadrano migrazioni di lavoro temporanee. Entrambi gli accordi intendono favorire la mobilità sotto il controllo di entità sovranazionali indipendenti dai governi come il Wto (8). In questo caso si può osservare la privatizzazione di alcuni aspetti della regolamentazione del lavoro transfrontaliero. In realtà questi due grandi accordi internazionali ufficializzano, ancora una volta, la privatizzazione di ciò che è gestibile e redditizio. Riguardano infatti le sole componenti della politica di immigrazione caratterizzate da: ¥ un alto valore aggiunto - cioè persone dotate di un alto livello di istruzione o di capitale; ¥ flessibilità - persone che hanno grande possibilità di essere migranti temporanei, che lavorano nei settori di punta dell'economia, quindi immigranti visibili, identificabili e sottoposti a un controllo effettivo; ¥ profitto - grazie alla nuova concezione liberale degli scambi e degli investimenti. Questo significa che i governi rischiano di conservare sotto il loro potere solo la gestione degli elementi «problematici» e «a basso valore aggiunto» dell'immigrazione: poveri, lavoratori non specializzati a basso costo, profughi, famiglie dipendenti e, nel caso di lavoratori specializzati, solo quelli suscettibili di provocare tensioni di natura politica. Questa selezione tra chi si sposta in cerca di lavoro avrà una forte influenza sulla categoria dei cosiddetti «immigranti». Ed è facile immaginare le implicazioni politiche di una concezione dell'emigrazione internazionale ridotta al suo settore più difficile.