il manifesto - 18 Luglio 2002
Un'altra religione è possibile
Il fondamentalismo non è connaturato alle religioni, ne è la loro degenerazione. Se non ci si rassegna al connubio delle chiese con il potere resta una enorme risorsa di valori e esperienze. E di relazioni aperte, senza frontiere, in cerca di liberazione
ENZO MAZZI
«Dopo l'11 settembre occorre prendere le distanze dal fondamentalismo economico, politico e religioso» ha detto Naomi Klein nella videointervista all'affollato incontro padovano del Sherwod Festival 2002 (il manifesto 12 luglio 2002). Ma si doveva aspettare il crollo delle torri gemelle per rendersene conto, ancora una volta a rimorchio? C'è chi sostiene che le religioni sono radicalmente intolleranti e fonte di intolleranza. Il fondamentalismo non sarebbe una degenerazione ma un connotato costitutivo di tutte le religioni. Non condivido una tale analisi. Non mi rassegno a consegnare alle strumentalizzazioni del potere, che esistono e sono forti, una immensa risorsa di valori e di esperienze positive e creative quali sono le religioni. Eppure il problema esiste e resiste. E' impertinente, ad esempio, domandarsi se ha qualcosa a che fare col fondamentalismo religioso la presa di distanza del cartello delle associazioni del mondo cattolico riunite sotto la sigla «Sentinelle del mattino»? Ernesto Diaco dell'Azione cattolica, presentando le loro iniziative «separate», ha tenuto a dichiarare che il cartello cattolico non deve essere confuso con quel «minestrone no global a cui non sentiamo di appartenere». Ma la religione non dovrebbe essenzialmente unire? Oppure la divisione e la intolleranza sono il collante ineliminabile delle aggregazioni e delle identità religiose? Oppure la divisione e la intolleranza sono sì costitutive delle religioni ma in quanto queste sono pietre di scandalo, profezie di condanna verso il mondo ingiusto? La mia tesi, o meglio la mia esperienza, è che sì è vero, le religioni sono un potente fattore di tolleranza e di impegno per un mondo nuovo, ma lo sono per una specie di codice genetico impresso nel profondo dalle esperienze che le hanno generate. Non lo sono invece per gli assetti ideologici e istituzionali che le religioni hanno assunto nella loro storia di connubio col potere. Le religioni sono un potente fattore di tolleranza nella misura in cui i «credenti» hanno il coraggio e la forza di ritrovare e rivitalizzare e portare a pienezza epoca per epoca quel codice genetico. Non lo sono nella misura in cui i «credenti» si assoggettano, si rassegnano, si adattano agli assetti ideologici e istituzionali della codificazione violenta.



L'ambiguità delle religioni

Ritengo importante analizzare a fondo questa ambiguità delle religioni per valutare correttamente la qualità e il senso dell'impegno e della collaborazione dei «credenti» anche nel gestire e indirizzare in senso sociale e solidale l'attuale processo di globalizzazione. Mi dà uno spunto il film di Pam Nalin Samsara, di cui condivido alcuni temi di fondo. In prima istanza è il protagonista, un giovane lama, che critica l'assolutismo radicalmente violento e intollerante della rinuncia come unica via al nirvana. La sua non è una critica di sole parole. Esce dal monastero, si innamora, si sposa e ha un figlio. Poi però dopo varie esperienze sente di nuovo l'attrazione del monastero e come Budda abbandona moglie e figlio per tornare alla vita della rinuncia radicale. Infine è la moglie di lui che accusa il buddismo di essere una esperienza di maschi per maschi. Intollerante verso la donna. Incapace di capire e valorizzare il contributo femminile alla illuminazione. Che illuminazione è quella del Budda, il maschio che abbandona la moglie e il figlio? E' una illuminazione a metà, è una illuminazione escludente e intollerante. «Buon viaggio» dice la moglie al marito che l'ha abbandonata e che dopo un drammatico colloquio sarebbe anche disposto a tornare a lei e al figlio. E così lo lascia ai suoi tormenti di maschio, eterno bambino, «credente» ma di una esperienza spirituale e in qualche modo religiosa che promette miracolose illuminazioni ma rende incapaci di relazioni piene. L'illuminazione è relazione sconfinata.

In termini diversi, la critica contenuta in Samsara si può applicare sostanzialmente anche alla religione cristiana e cattolica. Come l'illuminazione buddista, anche la salvezza cristiana è relazione. La verità, il sacramento, la rivelazione, il potere di sciogliere e di legare, il dogma, la legge vengono dopo. E viene dopo anche l'ovile, la relazione fra credenti, la Chiesa. Prima è la relazione in quanto relazione aperta, costantemente alla ricerca di un «oltre», protesa al superamento di tutti i confini. Si direbbe che prima è l'amore critico e creativo. Dio stesso è relazione. Dio non è monoteista ma relazione trinitaria che comprende tutte le relazioni. Attenzione, però, le comprende non imperialisticamente, le comprende senza dominarle dall'alto. Quindi Dio è relazione a sua volta compresa, realizzata creativamente da tutte le relazioni umane.



La teologia dei segni dei tempi

Ricordate la teologia dei segni dei tempi che innerva la Pacem in terris di papa Giovanni? Mettere un po' da parte (era moderato nell'esprimersi papa Giovanni) l'accoglimento di Dio che viene dal cielo, mettere da parte la dipendenza da Dio padre, dipendenza amorosa ma pur sempre dipendenza dall'onnipotente la cui rivelazione si riversa sul mondo mediata dai vertici della chiesa (e non solo), mettere un po' in ombra l'accoglimento del dono Dio, dono grazioso ma che pur sempre diviene dogma e norma e giudizio e amorevole paterno perdono o condanna (e che genera o sostiene una visione verticista della storia e dell'etica e una organizzazione autoritaria, «mon-archica», della società, democrazia compresa).

Accentuare piuttosto l'accoglimento di Dio che opera nell'intimo del mondo, nella rete delle relazioni e nella storia, e che dall'intimo del mondo si rivela. Non (o, se si vuole, non solo) sacrificio; ma rendimento di grazie, eucaristia. Non incarnazione dall'alto ma incarnazione dal basso (o se si vuole, dalle periferie). Non centralità della gerarchia ma centralità del Popolo di Dio. Non imposizioni e condanne ma valorizzazione dei percorsi di liberazione, partecipazione ai percorsi di affermazione dei diritti/doveri di tutti, comprensione, partecipazione e misericordia. Infine, non la paura come collante della società e della chiesa, ma fiducia e creatività. Ciò che tiene unito il mondo e che genera la pacem in terris è l'amore, critico e creativo, non la paura del giudizio di Dio, del peccato, della punizione eterna, millenaria sacra paura a cui oggi si aggiunge la paura, laica solo in apparenza, dell'apocalisse atomica. Non è la paura che tiene unito il mondo, che sia paura del giudizio di Dio onnipotente o del giudizio degli onnipotenti padroni del mondo. E' l'amore critico e creativo.

La teologia dei segni dei tempi è una teologia così poco papale che non è dato trovarla, per quanto ne sappia, in altre encicliche né precedenti né seguenti. Ecco, questa teologia, dovrebbe essere la nostra stella polare, la spinta del nostro slancio. Si liberano così, oggi così come avvenne nel dopoguerra, energie profonde represse appunto dalla cultura della religione-paura. C'è una pagina di Ernesto Balducci che esprime con rigore e radicalità una tale trapasso storico da lui chiamato «rivoluzione non-violenta»:«Le cose che devo dire sono certamente le più scandalose perché non appena tocchiamo i centri nevralgici della nostra violenta sistemazione culturale la reazione si fa più forte. Abbiamo esaltato all'infinito, sacralizzandoli, i nostri istinti di aggressività nell'idea di Dio. Dio è la cifra assoluta della aggressività umana. L'uomo ha scritto che Dio ha fatto l'uomo a sua immagine e somiglianza. La verità è l'opposto: l'uomo ha fatto Dio a propria immagine e somiglianza. Il Dio a cui siamo stati assuefatti è un Dio aggressivo, discriminante, implacabile, giusto nel modo con cui noi pensiamo che si debba essere giusti, capace di mantenere in totale estraneità da sé i cattivi per tutti i secoli dei secoli. All'interno di un Dio così pensato abbiamo collocato il Vangelo di Gesù Cristo» (Testimonianze 328/1990, pagg. 26-27).

Di fronte a questa lucida analisi risulta disarmante ad esempio il candore di cristiani e di religiosi che si gettano, e quanto giustamente, nella lotta contro la violenza espressa dai poteri politici o economici ma trascurano completamente di prendere consapevolezza e di denunziare la violenza insita nelle strutture religiose, evitando di cercare percorsi di fede alternativi. Si affacciano a denunziare gli eccessi di una pastorale escludente propria di alcuni settori della chiesa ma non pongono la scure alla radice millenaria della struttura stessa del cristianesimo. Teologia, comprensione biblica, liturgia, catechesi, simbologia religiosa, ordinamento canonico delle chiese: tutto questo va rovesciato come un guanto, dalla cultura dell'antagonismo alla cultura della non violenza. Bisogna sporcarsi col «dissenso creativo». «L'obbedienza non è più una virtù» deve valere anche per la vita interna delle chiese. Dopo trent'anni forse anche don Milani si sarebbe stancato di prendersela solo con certi uomini di chiesa e avrebbe agitato la frusta contro la stessa struttura mercantile della gestione del sacro. Altrimenti noi cristiani facciamo mancare alla rivoluzione non violenta una componente essenziale, lasciamo aperta una finestra, la finestra della gestione autoritaria del sacro, dalla quale rientra la violenza e l'intolleranza scacciata dalla porta.



Fedi diverse per un mondo diverso

Religioni diverse non solo nella forma o nelle parole, ma nella sostanza. Diverse perché capaci di diversa fedeltà al loro codice genetico generativo. Care «Sentinelle del mattino», vi attende, ci attende il mattino anche all'interno degli assetti religiosi. Non fate mancare la vostra veglia. «Noi che siamo i promotori di una rivoluzione non violenta, all'interno della Chiesa, dobbiamo compiere questa rivoluzione e scoprire il dio di Gesù Cristo»: Balducci, da buon intellettuale, usava l'indicazione «dobbiamo»: «dobbiamo liberarsi dalla cultura della violenza perfino nella nostra vita di fede». Noi da gente della strada abbiamo un'altra indicazione: «lavori in corso». Sto parlando della esperienza delle comunità di base e di altre simili. E' davanti a noi il discorso di liberazione di Gesù a Nazareth e i segni profetici delle guarigioni inviati da Gesù a Giovanni Battista. Lavoriamo per liberarsi e liberare per sanarsi e sanare. E non lavoriamo solo nelle regioni della consapevolezza. Lavoriamo anche oltre le frontiere delle consapevolezze e perfino oltre i limiti del sogno, ai confini dei grandi silenzi, silenzi nostri e sopratutto della gente umile, della gente da sempre repressa, da sempre inginocchiata a chiedere la salvezza dall'onnipotenza, incapace perfino di sognare. Ai confini del silenzio di donne e uomini dove l'inconscio si apre all'ignoto. Ai confini di quel silenzio che in noi, come in un utero pregno, cova nascite di mondi nuovi. Ai confini di quei silenzi che dotti e maestri e sacri pastori ignorano per cieca fiducia nella loro rumorosa, onnipotente razionalità, «verità vera», razionalità senza mistero. Lavoriamo per far emergere e sanare traumi spirituali e morali che la mente e il corpo hanno patito perfino a loro insaputa e che si manifestano poi come blocco della speranza, spavento senza parola, vuoto dell'anima (tutto questo è in straordinaria consonanza con le nuove frontiere della psicanalisi). Lavoriamo per passare dalla perdita inconsapevole e dall'angoscia talvolta senza nome alla ricerca di senso e di speranza: questo vuol dire per noi comunità, primato delle relazioni senza confini, cristianesimo dei segni dei tempi, religione dell'amore critico e creativo. Anche da qui, da questa rivoluzione delle e nelle religioni passa l'anima sociale e solidale del processo di globalizzazione.