Da Il Corriere della Sera di giovedì, 9 ottobre, 2003

E Umberto Bossi votò in America...

Gian Antonio Stella

Il giovane Umberto Bossi da Fossato sbarcò all' Ellis Island il 12 dicembre 1909 e, se scelse di andare a vivere in Stati come il Wiscounsin o il Minnesota, gli fu permesso di partecipare alle elezioni fin dal giorno dell' arrivo. Al suo omonimo Umberto Bossi da Cassano Magnago non importerà un fico secco, ma nell' America del 1900, spiega lo storico Stefano Luconi, il 27 per cento degli stranieri immigrati risiedeva in Stati dove il voto era un diritto anche di chi non aveva la cittadinanza americana. Bastava la semplice dichiarazione che questa cittadinanza sarebbe stata richiesta. Eppure, non è che negli States ci vedessero allora con particolare benevolenza. Col tempo sì, ci saremmo fatti onore dimostrando di essere un popolo che meritava stima, rispetto, riconoscenza. Ma allora noi italiani avevamo un tasso di analfabetismo intorno al 56% contro il 3% degli immigrati tedeschi o dell' Europa settentrionale, un tasso di specializzazione così basso da umiliarci (7% contro 40%) perfino nei confronti degli immigrati russi dall' impero zarista, un tasso di mortalità infantile così spaventoso che l' età media in cui si moriva era di poco superiore ai 15 anni, un tasso di omicidi quattro volte più alto di quello austriaco, cinque di quello francese o scozzese, otto di quello tedesco. Ma votavamo. Col sistema che abbiamo detto in molti Stati, con il diritto acquisito insieme con il passaporto in altri. Si dirà: appunto, col passaporto! Vero: ma veniva concesso dopo una attesa di 5 anni fin dal 1801. Basti ricordare la storia di Giovanni Martino, il trovatello di Sala Consilina che, entrato negli Usa clandestinamente (come illegalmente espatriarono almeno altri 4 milioni di italiani) si arruolò due anni dopo col nome di John Martin nel Settimo Cavalleggeri proprio per avere la cittadinanza Usa, finendo diritto dentro la tragedia di Little Big Horn dalla quale fu l' unico a trarsi miracolosamente in salvo. O ricordare i bisticci tra il nostro governo e quello americano intorno a decine di nostri emigrati linciati senza processo, con Washington che rifiutava di pagarci ogni forma di risarcimento sostenendo che questo o quel poveraccio, a volte arrivati sul posto da meno di due anni, erano ormai da considerare cittadini americani a tutti gli effetti. Votavamo quasi subito negli States, votavamo quasi subito in Australia dove fin dal 1901 c' era la possibilità di essere naturalizzati dopo solo 5 anni di residenza, scesi di recente a due anni. E votavamo quasi subito in Sudamerica, dove anzi, come ricorda Fernando Devoto nel saggio La partecipazione politica in America Latina nell' enciclopedia dell' emigrazione di Donzelli curata da Emilio Franzina, «il numero e la forza della comunità italiana» erano tali che proprio sulla base di «considerazioni relative alla ""sicurezza"" nazionale» si pensò che «per risolvere il problema un modo d' integrare gli immigrati fosse il coinvolgimento nel sistema politico». Al punto che in Brasile a partire dal 1889 i nostri diventavano brasiliani dopo due anni di domicilio e che in Argentina fin dal 1901 fu «disegnato un complicato meccanismo giuridico per far votare gli stranieri senza una esplicita dichiarazione di nazionalità». L' idea d' integrare i nuovi arrivati coinvolgendoli quanto prima come concittadini, del resto, era diffusa. E si rivelò vincente ovunque, a maggior ragione quando un italiano di origine assumeva responsabilità di rilievo. Gli italiani di Francia a lungo chiamati «babis» (rospi) o «français de Coni» (francesi di Cuneo) si sentirono per la prima volta sul serio un po' francesi quando arrivò al potere Leon Gambetta. E così gli italiani del Cile si sentirono più cileni quando laggiù diventò presidente Arturo Alessandri, e quelli dell' Uruguay si sentirono più uruguagi quando lì brillò la stella di Domenico Arena e quelli d' Australia si sentirono più australiani quando diventò governatore del Victoria Giacomo Gobbo e quelli d' America si sentirono americani quando a San Francisco diventò sindaco Angelo Rossi, l' uomo che avrebbe costruito in pochi anni il famoso Golden Gate, e a New York Fiorello La Guardia, che sarebbe diventato il più amato di tutti i sindaci newyorchesi vendicando finalmente decenni di emarginazione e insulti e ironie. Certo, non dappertutto è andata così. La Svizzera, fatta eccezione per quei Cantoni dove gli stranieri residenti da 10 anni hanno il diritto di voto fin dal 1850 (Neuchatel) e dal 1879 (Giura), è sempre stata riottosa a dare i diritti politici a quegli stranieri che in certe fasi, come a cavallo tra gli anni Sessanta e i Settanta, producevano un quinto del suo Pil. Ma è quello il modello da seguire? Quel modello che i nostri emigrati hanno tenacemente combattuto per anni e anni chiedendo, visto che lì lavoravano e producevano ricchezza e pagavano le tasse, di poter dire la loro su come i «loro» soldi venivano spesi? Mirko Tremaglia, che da sempre si occupa di questi temi, sa quanto hanno patito i nostri emigrati. Non a caso è stato il primo, lui, un «ragazzo di Salò» rispettato anche dalla sinistra, a sostenere la tesi oggi coraggiosamente sposata da Gianfranco Fini. Il primo a spiegare che riconoscere il diritto di votare alle amministrative e partecipare alla vita collettiva a chi è venuto a lavorare qui, rispetta le leggi e paga le tasse, non è solo un dovere in un' Europa che in vari Paesi questi diritto lo riconosce spesso da decenni. Non è solo la scelta intelligente di rompere l' isolamento e coinvolgere comunità che in paesi come i vicentini San Pietro Mussolino o Crespadoro sono ormai il 20% della popolazione e producono ciascuna 8 milioni di euro e non danno quasi più (lo dicono i sindaci, non di sinistra) problemi di ordine pubblico. E' anche un modo che guardare alla storia dei nostri nonni con un po' più di rispetto.

Gian Antonio Stella