Le nostre città malate di paura
di FURIO COLOMBO
da "La Repubblica " del 06 Maggio 2000

NEW York è stata quasi bloccata da un funerale, alcuni giorni fa. Migliaia di guidatori di taxi e limousine sono andati in corteo a salutare uno di loro. Nella città della "tolleranza zero", dove alcuni di noi amano sognare che la mano pesante del sindaco abbia risolto ogni problema, i guidatori di taxi e di auto pubbliche sono bersaglio di omicidi e ferimenti molto frequenti la notte. Chi è stato a New York ricorda la parete di vetro antiproiettile, o di metallo perforato (ma i buchi sono molto piccoli) che divide lo spazio del guidatore da quello dei passeggeri nei taxi della lucente e festosa "grande mela". Ricorda, anche, che i guidatori di taxi non sono quasi mai americani e masticano ben poco l'inglese. C'è una piccola morale, in questa storia di ordinaria vita delle metropoli. Si potrebbe ricordare a chi ci dice senza imbarazzo che "negli altri paesi questi problemi (criminalità e immigrazione) sono stati risolti", che non sono stati risolti. A giudicare dai giornali di New York, nessuno dice che quella città è il Far West. Ma nessuno sembra preso dal panico. E questa, forse, è l'altra morale. Non è una consolazione sapere che le cose vanno male anche altrove. Piuttosto dobbiamo domandarci perché le difficoltà che sconvolgono l'intero mondo post-industriale, vengono vissute in altri paesi come problemi da risolvere. Mentre da noi appaiono spesso, o vengono annunciate, come una tragedia senza uscita, a meno di cambiare governo, polizia, giudici, leggi, frontiere. Qual è la ragione del senso di panico che rischia di aprire la strada a chiunque promette di applicare immediatamente modelli che non esistono? Provo a offrire alcune risposte, alcune riflessioni su un tema che ci tormenta. Comincio con il proporre che non è giusto e non è saggio dire che i cittadini hanno torto a sventolare fatti e statistiche e tristi storie metropolitane. La percezione del pericolo è già un pericolo, è già emergenza. Chiede un'estrema e continua attenzione. Aggiungo qualcosa che per me è ragione di scandalo. Coloro (ciascuno di noi) che sono coinvolti nel problema "paura nelle città", non sempre svolgono un ruolo esemplare. Non lo svolgono i cronisti che si precipitano a dichiarare "albanese" l'autore di quasi qualunque delitto o tentato delitto non risolto. In seguito si scopre che il crimine (quasi sempre i crimini più gravi) era italiano. Ma l'annuncio ha già fatto il suo giro. Non lo svolgono i poliziotti che confidano ai cittadini: "Cosa vuole che le dica, noi non possiamo farci niente". Né quei giudici che citano leggi, articoli, commi per dire che hanno le mani legate. E, s'intende, non fanno un buon servizio quei politici che offrono molte parole ma poche verifiche, che rinunciano a rivedere caso per caso, fatto per fatto, ciò che è realmente accaduto in una strada o in un quartiere. Non fanno un buon servizio coloro che passano il tempo a rassicurare ma non vivono sul posto e a promettere ma non tornano a vedere se la promessa sia realizzata. Non coloro che elencano sempre le buone cose fatte senza domandarsi perché, allora, la gente si sente così infelice. C'è, in questo carosello, un brutto vizio nostrano. Oguno dà la colpa a un altro, passa il cerino acceso. E questo spiega molto dello stato d'animo deluso e frustrato e allarmato dei cittadini italiani. Eppure non basta. Conosco sindaci che non mollano, questori che tornano la notte a vedere se sono state osservate le istruzioni date di giorno, giudici che si adoperano per far funzionare il casellario giudiziario non solo nei giorni feriali. Il turbamento metropolitano causato dalla immigrazione di solito ha due facce. Di qua ci sono i cittadini che si sentono soli. Di là ci sono i nuovi venuti che, anche quando non sono fuorilegge, sono legati fra loro, sono relativamente solidali, abituati ad agire insieme. Vi è dunque, prima ancora dell'impatto fra culture diverse, che è già un momento difficile, un marcato dislivello di forze. Ciascun italiano è isolato, con i suoi anziani, i suoi bambini. Raramente conosce il vicino di casa o la persona del piano di sotto. Ciascun nuovo venuto è parte di una comunità, tende ad agire in gruppo. E, anche quando non fa niente di male, esprime l'idea di un potere (il potere di gruppo) che la maggior parte dei nostri concittadini non ha e non sente. In un'epoca di nuclei familiari piccoli, la grande persuasione italiana che contino soltanto i legami di sangue mostra la sua debolezza. Da soli chiediamo troppo, riceviamo poco, la paura cresce, diminuisce il senso di appartenenza e di identità. Sono le condizioni che preparano le peggiori avventure politiche. Che cosa manca a noi italiani, rispetto al tipico quartiere americano invaso da nuovi venuti? Ci manca il senso della "community", persone come noi, che conosciamo bene e con le quali verifichiamo sentimenti ed esperienze. Si rompe la solitudine, si rafforza l'identità e si può parlare sia con l'autorità che con il presunto nemico, tracciando percorsi, indicando limiti, negoziando insieme gli spazi di tolleranza e le regole comuni. Direte che molti quartieri italiani hanno formato associazioni. Ma questo è avvenuto tardi, fra gente già spaventata. Non aver fatto mai, prima, insieme la battaglia per salvare un albero o una scuola (i compiti tipici di una "block association" di New York) o per risolvere insieme il problema dei cani (che sporcano, abbaiano, o sono un pericolo per i bambini) negoziando con i proprietari e amici dei cani, lascia spazio solo allo stare insieme a causa della paura. È troppo poco per avere, e far sentire, il senso della comunità. Ma la comunità, quando esiste, viene presa sul serio dal sindaco, dalla polizia e anche da chi intende rappresentare i nuovi venuti. Una "comunità" di cittadini organizzati, per fini di vita, di promozione del quartiere, di monitoraggio della scuola, dell'ospedale, di sostegno della parrocchia, di organizzazione dello sport dei bambini e dei giovani e della bocciofila degli anziani, non può essere spinta indietro e ridotta a vivere di paura dall'improvviso emergere di altre culture nella strada accanto. I fini naturali di solidarietà e di reciproco sostegno nei momenti difficili ci saranno, ma saranno impliciti, senza la tentazione di violare la legge o di invocare le armi. Perché la forza di una personalità collettiva si sente, si vede, si rispetta. Detta le sue condizioni di convivenza civile prima ancora di aprire bocca. Naturalmente la "comunità" non affronta la malavita. Ma rende più facile, agli occhi del gruppo rasserenato, una distinzione immediata tra nuovo venuto e criminale. E induce i nuovi venuti a farsi, a loro volta, riconoscere. Per interesse di convivenza, tenderanno a separarsi nettamente da quelli di loro che vivono violando la legge. Sto parlando di un di più di vita sociale spontanea, che altri - in altri paesi - hanno. Noi, per tradizione storica, ne abbiamo di meno o non ne abbiamo affatto. Ci manca il rapporto fiducioso fra vicini e abitanti dello stesso quartiere della stessa strada o addirittura della stessa casa. Tutto il resto del discorso, funzionamento delle istituzioni e presenza, conoscenza, controllo del territorio resta da fare con urgenza, e dovrà essere richiesto in modo perentorio finché non ci saranno risultati rassicuranti. Ma il mondo in cui viviamo è un cantiere. Non sarà mai una costruzione finita. L'importante, per i cittadini, è di partecipare ai lavori. Con la fiducia che viene dallo stare insieme invece del panico di tante vite isolate.