censis

LE PAURE DEGLI ITALIANI  

criminalità e offerta di sicurezza

Sintesi dei principali risultati dell’indagine

ricerca completa di tabelle illustrative sul sito del censis 

Roma, 20 luglio 2000

 

La crescita dell’allarme sociale e la centralità della sicurezza come problematica nazionale e locale, sono due fenomeni che attraversano  tutti gli anni 90, collegati solo in parte ad un effettivo innalzamento dei livelli di criminalità.

La crescita della domanda di sicurezza tuttavia non è un fenomeno esclusivamente italiano, poiché negli anni scorsi ha caratterizzato tutti i maggiori paesi europei, assumendo caratteristiche comuni.

In primo luogo, la crescita dell’allarme sociale è ovunque correlata alle preoccupazioni nei confronti dei reati di cosiddetta “microcriminalità” o criminalità diffusa; dunque di illeciti che, pur non avendo, generalmente un valore economico elevato, colpiscono direttamente la persona (gli scippi, le rapine) e la propria privacy (i furti in appartamento); in secondo luogo la preoccupazione è forte soprattutto nei confronti di determinate categorie sociali, ad esempio in Italia i nomadi e i delinquenti comuni; in terzo luogo la domanda si connota per il suo carattere territoriale, per cui le richieste sono diverse da contesto a contesto; infine, la domanda di sicurezza diventa una richiesta di miglioramento degli standard qualitativi dell’esistenza, richiedendo anche un ripensamento delle politiche urbane in materia di arredi urbani, offerta ricreativa, servizi sociali, trasporti, dislocazione ed orari degli esercizi commerciali.

Secondo gli intervistati il problema principale della propria zona di residenza è la delinquenza comune, segnalata dal 37,1% del campione; più importante della disoccupazione (36,4%), del traffico urbano (27,3%), della droga (24,8%), dell’immigrazione extracomunitaria (21,9%) e della carenza di servizi sociosanitari (21,4%).

Il confronto con i dati relativi ad un'analoga indagine effettuata dal Censis nel 1997 mette in rilievo come, tra i problemi più direttamente vissuti dagli italiani, la microcriminalità ha avuto un incremento significativo passando dal quarto posto di tre anni fa con il 24,8% delle risposte al primo posto attuale con appunto il 37,1% .

Il dato senza dubbio più rilevante è che la domanda di sicurezza è un’istanza avvertita, sia pure con intensità diversa, da tutta la società, con un impatto trasversale rispetto alle classi di età, al titolo di studio, al livello di reddito, alla ripartizione geografica ed alla dimensione del comune di residenza.

In sostanza, al di la delle enfatizzazioni mediatiche e delle semplificazioni politiche, il tema della sicurezza nelle opinioni dei cittadini si impone come problema reale. In particolare, la distribuzione delle risposte per ripartizione geografica e per ampiezza del comune di residenza evidenzia:

-   la specificità del Nord-est del benessere crescente e diffuso dove la delinquenza comune è, di gran lunga, il problema più preoccupante (lo richiama il 48,5%), seguita dall’immigrazione extracomunitaria (45%); mentre nelle altre aree, ai primi posti ci sono problemi diversi, come il traffico nel Nord-ovest (38,2%) e nel Centro (27,6%) e la disoccupazione (64,8%), che rappresenta il problema fondamentale per i residenti nel Meridione (tab. 2);

-    l'irruzione del problema nei contesti medio-piccoli visto che la delinquenza comune è considerata il problema prioritario nei piccoli centri fino a 10 mila abitanti (42,1%) e in quelli tra 10 e 30 mila abitanti (38,4%); nelle città tra 30 mila e un milione di abitanti, invece, il traffico e la disoccupazione sono considerati più importanti, mentre nelle aree metropolitane è solo il traffico urbano a preoccupare più della delinquenza comune.

In linea con l’emergere della criminalità come problematica nazionale e locale, e a conferma di un allarme sociale alto è il dato per cui il  76,9% degli intervistati si dichiara convinto che nell’ultimo anno i reati in Italia sono in aumento, contro un 18,6% che ritiene che siano rimasti costanti e un esiguo 1,7% che è convinto che sono diminuiti.

Il confronto con lo stesso dato di precedenti indagini del Censis del 1994 e del 1997 evidenzia come il fenomeno accompagni tutto il decennio scorso, anche se si registra una lieve diminuzione di quanti ritengono che i reati sono cresciuti rispetto al 1994 (quando il 78,4% degli intervistati optava per un aumento della criminalità) ed un aumento rispetto al 1997 (in quell’anno il 66,4% degli italiani era convinto che i reati fossero cresciuti) (tab.3).

Anche nella valutazione sull’andamento della criminalità nella zona in cui vivono, gli “allarmisti” prevalgono sugli “ottimisti”. Infatti, a fronte di un 46,9% di intervistati che ritiene che negli ultimi cinque anni non vi siano state variazioni di rilievo; il 36,4% giudica la propria zona maggiormente pericolosa e solo il 9,8% meno pericolosa .

Il confronto con la stessa domanda, posta nelle due indagini precedenti, rivela come, al momento attuale, si assista ad un abbassamento della tensione sul territorio rispetto al 1994 (quando il 48,0% degli italiani era convinto che la criminalità fosse in aumento) e ad una leggera ripresa rispetto al 1997 (allora gli “allarmisti” erano il 34,7% del totale).

In accordo con quanto si rileva anche in altre sezioni dell’indagine, i cittadini del Nord-est esprimono la valutazione più allarmista, fotografando una realtà locale che, in base alla loro percezione, si va facendo via via più pericolosa: in quest’area ben il 49,2% degli intervistati ritiene che nell’ultimo quinquennio sia aumentata la pericolosità, a fronte del 39,8% di quanti risiedono nel Nord-ovest, del 36,6% dei residenti nel Centro e del 26,7% degli abitanti nelle aree meridionali ed insulari .

Con riferimento ai reati di cui si teme maggiormente di rimanere vittima e che dunque possono essere identificati come quelli che generano maggiore allarme sociale, prevalgono, nel cuore degli italiani, le preoccupazioni nei confronti di quegli illeciti che determinano una violazione della propria privacy (i furti in casa sono al primo posto con il 65,7% delle risposte) o che, comunque, possono capitare a chiunque e risultare lesivi della propria incolumità (al secondo posto si trovano gli scippi ed i borseggi, con il 30,1% delle risposte, al terzo le aggressioni, minacce, percosse con il 29,4%, al quarto le rapine con il 17,4%) .

Quando poi gli intervistati sono chiamati a dare un giudizio sulla gravità di alcuni reati (sono stati esclusi a priori quelli più efferati quali gli omicidi e gli atti di pedofilia), emerge con chiarezza come la gente faccia una distinzione netta tra criminalità predatoria, composta di reati di lieve entità ma a forte impatto sociale, e criminalità organizzata e violenta, in grado di provocare nelle vittime effetti fisici e psicologici devastanti.

Al primo posto, come reato più grave, il 41,1% degli italiani, maschi o femmine, colloca la violenza sessuale: questa risposta segna il grande cambiamento avvenuto nella coscienza collettiva rispetto ad un reato che, sino a pochi anni orsono, non era neppure percepito come tale dalla massa degli italiani ed era sanzionato solo come reato morale (tab.7). Al secondo posto si trovano le estorsioni (23,5% delle risposte), che precedono lo spaccio di sostanze stupefacenti (21,5%), le rapine (18,9%) e i reati perpetrati all’interno delle mura domestiche (17,9%).

Se dalle percezioni si passa ai dati reali, ovvero all’analisi di quanti sono stati effettivamente colpiti da eventi criminali, l’indagine riserva alcune sorprese e alcune conferme:

-   l’elemento che desta qualche sorpresa è quello per cui, in base al confronto con le indagini precedenti, il numero delle vittime di reato negli ultimi anni è rimasto costante, facendo addirittura registrare un lieve calo tra il 1997 e il 2000 (nel 1994 l’11,1% degli intervistati dichiarava di aver subito un reato nell’ultimo anno, nel 1997 la quota era del 13,6%, nel 2000 è dell’11%) ;

-   risulta invece assai consistente la quota di italiani che, nel corso della propria esistenza, ha subito almeno un reato: complessivamente essi risultano essere il 34,5% del totale.

Riguardo ai luoghi in cui gli italiani si sentono meno sicuri, al primo posto figurano le strade, in particolare quelle buie, isolate o poco frequentate che rappresentano un pericolo per il 43,4% degli intervistati e, soprattutto, per le donne (51,4% del totale).

Meno preoccupanti sembrerebbero le aree degradate o periferiche (le teme particolarmente il 26,0% degli intervistati), o i grandi snodi di interscambio (stazioni, metropolitane, porti preoccupano il 23,4% del campione) . Sono pochi, infine, coloro che dichiarano di avere paura quando partecipano a manifestazioni collettive (4,0%) o quando rientrano all’interno della propria abitazione (il 3,2% non si sente sicuro soprattutto in garage e nell’androne del proprio palazzo).

Di particolare interesse il dato relativo alle categorie di soggetti che fanno più paura: al primo posto, il 36,7% degli intervistati colloca gli zingari, seguiti, a breve distanza, dai delinquenti comuni (li segnala come particolarmente pericolosi il 35,4% degli intervistati), dagli spacciatori di droga (segnalati dal 31,9% del campione) e dai tossicodipendenti (31,5%) .

Questi dati confermano come siano particolarmente stigmatizzate quelle categorie che vengono individuate come le principali responsabili della crescita della criminalità predatoria ed, in particolare, di quei reati che, lo abbiamo visto, generano maggiore allarme sociale.

Sebbene gli immigrati extracomunitari non rappresentino una minaccia concreta per la tranquillità del vivere quotidiano, il 74,9% degli intervistati è convinto che esiste una correlazione diretta tra presenza degli immigrati e crescita della criminalità .

Tale nesso dipenderebbe soprattutto dalla condizione di marginalità in cui versano questi ultimi, per cui ottengono maggiore credito quelle opinioni che tendono a considerarli come vittime piuttosto che come artefici e responsabili della loro condizione di devianza. Infatti, la principale ragione che, secondo gli italiani, induce gli immigrati a delinquere è lo stato di necessità (34,6% delle risposte), seguito dalla condizione di marginalità indotta dalla clandestinità (16,9%) e dall’essere vittima di organizzazioni criminali (16,6%).

L’esistenza di un rapporto, seppure indotto dalla condizione di marginalità, tra immigrazione e criminalità non influenza le opinioni relativamente alla necessità della presenza di forza lavoro immigrata, soprattutto per svolgere quei lavori che gli italiani non sono più disponibili a svolgere; infatti:

-   il 62,0% degli intervistati non è d’accordo con l’affermazione per cui gli immigrati tolgono lavoro agli italiani;

-   e il 73,4% è convinto che gli stranieri siano disponibili a svolgere quei lavori necessari che gli italiani non vogliono più fare .

In sostanza, non risulta particolarmente diffusa la convinzione che la presenza degli stranieri generi disoccupazione, idea che in altri paesi (Francia, Germania) ha originato e dato forza a movimento xenofobi particolarmente virulenti.

Esiste, invece, un consenso ampio e in linea con le istanze espresse dal mondo imprenditoriale, sul fatto che gli immigrati rappresentano una risorsa economica indispensabile per il nostro paese.

In un contesto carico di problematicità quale è quello in cui si inseriscono i flussi migratori, gli intervistati ritengono che l’immigrazione sia una questione nazionale, rispetto alla quale sono necessarie risposte adeguate innanzitutto da parte dello Stato. Infatti, il 68,8% degli intervisti dichiara che lo Stato deve garantire l’integrazione degli immigrati .

Dall’indagine emerge però che si è in presenza di una insoddisfazione diffusa nei confronti delle politiche attuali, dato che il 74,5% degli italiani le giudica troppo permissive .

Le risposte fornite consentono anche di individuare alcuni interventi ritenuti necessari per attivare politiche sull’immigrazione che ottengano un consenso più generalizzato:

-   l’88,1% degli intervistati ritiene che il governo dovrebbe limitare i flussi di entrata degli immigrati;

-   il 59,1% è convinto che gli stranieri in regola con il permesso di soggiorno e residenti in Italia da un certo numero di anni dovrebbero avere diritto di voto alle elezioni amministrative (tab. 16).

Alla luce di queste opinioni risulta evidente che la gestione dei flussi migratori così come è stata effettuata sino a questo momento, viene considerata inadeguata; è pertanto necessario rendere trasparenti e socialmente comprensibili i criteri con cui vengono programmati gli ingressi, stabilendo uno stretto legame tra numero di immigrati e posti di lavoro disponibili. In assenza di tale programmazione si rischia di favorire l’ingresso nella clandestinità di immigrati che sarebbero assorbibili dal sistema delle imprese, con le inevitabili conseguenze di marginalità che sono alla base della partecipazione alle attività criminali.

E su questo punto gli italiani sembrano avere già fatto un “passo avanti” rispetto ai nostri governanti, poiché si dichiarano per la maggioranza favorevoli a concedere il diritto di voto agli immigrati. Inoltre, è da sottolineare il fatto che il 67,7% degli intervistati dichiara che, nell’era della globalizzazione, ognuno dovrebbe essere libero di scegliere il luogo in cui vivere, mostrando una disponibilità, almeno in linea di principio, nei confronti di una società aperta in cui la mobilità delle persone deve essere guidata dalle opportunità economiche e dalle libere scelte individuali. .

La presenza, reale o presunta, di criminalità determina l'adozione di una serie di comportamenti preventivi, messi in atto con l'obiettivo di evitare di rimanere vittima di reato.

Tali comportamenti, generalmente più diffusi tra le categorie più deboli, condizionano fortemente la qualità della vita e finiscono con il limitare le possibilità di partecipazione sociale.

Infatti, se i tre quarti degli intervistati dichiarano di avvicinarsi con fare guardingo ad uno sconosciuto, la percentuale sale all'80,9% tra le donne, ed all'85,3% tra gli individui con più di 65 anni. Maggioritaria, e pari al 62,4% del totale è anche la quota di coloro che evitano di attraversare a piedi quartieri o zone malfamati; e anche in questo caso la percentuale  è massima tra le donne e gli ultrasessantacinquenni.

Accanto ai comportamenti spontanei cresce anche il ricorso a forme più "strutturate" di difesa con particolare riguardo ai sistemi di tutela della propria abitazione. Il sistema più diffuso è la porta blindata che difende il 48,5% delle case degli italiani .

Ma il dato che più colpisce è che gli italiani che non adottano nessuna misura di sicurezza rappresentano ormai una minoranza, pari al 17,2% del totale; e nel Nord-est, il 26,9% dei residenti dichiara di utilizzare quattro o più sistemi di difesa .

Ovviamente tali accorgimenti sono integrativi rispetto alla filiera istituzionale dell'offerta di sicurezza che coinvolge una pluralità di soggetti che esplicano ruoli e compiti diversi e che contribuiscono, in varia misura, a determinare il grado di efficienza e di efficacia dell'apparato e delle concrete strategie operative.

In relazione alla fiducia che i cittadini accordano a ciascun soggetto si rileva che gli italiani compiono una distinzione netta tra quelli che operano sul terreno ai quali danno fiducia e quelli che, invece, sono chiamati ad elaborare gli strumenti normativi, regolatori ed organizzativi necessari a garantire la sicurezza, verso i quali prevale un sentimento di scarsa fiducia. Più precisamente:

-    la fiducia più elevata viene accordata agli operatori della sicurezza e, in particolare, ai vigili del fuoco (7,9 di media in una graduatoria che va da 1 a 10) ai carabinieri (6,9), alla polizia (6,8) e alla guardia di finanza (6,3) ;


-   molto più basso è il grado di fiducia accordato ai soggetti che hanno il compito di elaborare le strategie della sicurezza come, in particolare, il governo (4,5), il parlamento (4,4), e i sindaci (5,2) che pure non ottengono un punteggio di rilievo.

In un contesto di diffuso e crescente allarme sociale, un'attenzione specifica deve essere data alla giustizia che dovrebbe esercitare un ruolo particolare nel rassicurare i cittadini sulla capacità delle istituzioni di garantire il rispetto della legge tutelando i diritti di tutti, dalle vittime dei reati a coloro che entrano come presunti colpevoli nel circuito giudiziario. Dai dati emerge che solo il 10,7% degli intervistati ritiene che la giustizia sia amministrata in modo sostanzialmente giusto, a fronte del 46,4% che, invece, la considera ingiusta e "piegata" a favore di certe categorie sociali o tipologie di reato, e del 42,9% che ritiene che non sia possibile dare un giudizio univoco, visto che ciò che conta è la professionalità e la personalità dei singoli magistrati .

Alla luce delle opinioni dei cittadini una giustizia giusta, ben amministrata deve garantire una linea di equità indipendentemente dall’identità e dalla collocazione sociale dell'imputato e dalla tipologia di reato a lui ascritto e, inoltre, deve innalzare la qualità professionale dei magistrati per tentare di ridurre al massimo le fluttuazioni nelle decisioni, legate alla personalità ed alla preparazione di chi è chiamato a giudicare.

Da ultimo, si è proceduto alla rilevazione delle opinioni degli intervistati rispetto ad una batteria di potenziali interventi che investono sia il campo della prevenzione che quello della repressione del crimine.

Dai dati emerge che esiste un sostanziale consenso dei cittadini rispetto all'attuazione di progetti di prevenzione della marginalità sociale (92%), all'incremento del dispiegamento delle forze dell'ordine sul territorio (86,7%), alla limitazione dell’ingresso degli extracomunitari (77,5%), all' inasprimento delle pene per i diversi reati (68,7%) ed alla restrizione dei benefici per i detenuti (73%) .

Viceversa, si determina una netta contrarietà in relazione alla riduzione dell'età della punibilità per i minori (70,5% di contrari), al ristabilimento della pena di morte (70,9% di contrari) ed alla liberalizzazione della droga (76,5% di contrari).

Il consenso quasi plebiscitario per l’attivazione di progetti di prevenzione sociale, a fronte della sostanziale inesistenza di una politica su tale terreno, è probabilmente tra i fattori che più spiegano la scarsa fiducia attribuita ai responsabili dell’offerta di sicurezza.

Infatti, il modello italiano ha seguito orientamenti prevalentemente repressivi. Su questa scelta si può affermare che vi sia stata una singolare continuità di intenti in tutto il secolo, a partire dall'Italia sabauda, passando per quella fascista, per giungere a quella repubblicana fino ai giorni nostri.

La risposta al crimine è sempre stata eminentemente punitiva. Sono cambiate le tattiche della repressione, c'è stata modernizzazione, miglioramento dell'efficienza di determinati settori, costituzione di nuovi organismi che permettessero di fronteggiare le diverse emergenze man mano che si presentavano. Ma la risposta al crimine è sempre stata ex-post facto.

Ora, sebbene siano da ascrivere all’attivo di tale modello negli anni novanta una maggiore incisività contro la criminalità organizzata tradizionale ed una relativa stabilizzazione nel numero di reati è indubbio che ha fallito nell’obiettivo fondamentale: rassicurare i cittadini bloccando l’ascesa dell’allarme sociale.

Ecco perché, alla luce del consenso sociale che l'indagine ha individuato tra i cittadini, diventa necessaria un'articolazione del modello di offerta della sicurezza che affianchi al potenziamento della struttura e della capacità operativa degli apparati repressivi, un'efficace iniziativa di prevenzione sociale primaria sul territorio con politiche di coesione sociale locale ed una valorizzazione della responsabilizzazione individuale rispetto ad alcuni strumenti di tutela della sicurezza.

In particolare, per quanto riguarda gli apparati di sicurezza appare ormai urgente un passaggio strutturale ed organizzativo in termini di semplificazione dei ruoli e delle competenze dei corpi di polizia, che eviti sovrapposizioni, duplicazioni, diseconomie di vario genere.

Tanto più che la territorializzazione della domanda di sicurezza è ormai un dato acquisito ed è capace di neutralizzare politiche ed interventi standardizzati, costruiti esclusivamente con logiche nazionali e “paracadutate” in ambito locale.

Con riferimento alle politiche di prevenzione sociale esse non possono che assumere il carattere di politiche di coesione a livello locale, con il ricorso al partneriato tra tutti i soggetti operanti sul territorio e l'attivazione di una pluralità di soggetti e figure professionali che vanno dagli assistenti sociali agli educatori, dagli operatori di strada sino ai volontari impegnati sul campo.

Il terzo aspetto di un modello rinnovato di offerta di sicurezza non può che puntare ad una valorizzazione della responsabilizzazione individuale, favorendo l'acquisizione di comportamenti che operano, nei fatti, come prevenzione della criminalità e incentivando (anche fiscalmente) chi si finanzia forme di sicurezza "tagliate" sulle proprie specifiche esigenze.