Da Le monde Diplomatique - Luglio 2002

Da Jules Ferry a Massu, per il diritto di dominio delle «razze superiori»


Maurice T. Maschino
Il dovere di memoria non ha limiti, così come la conoscenza del passato.
È normale quindi che per spiegare la guerra d'Algeria gli storici risalgano alla sua conquista, come ha fatto Guy Pervillé nel suo ultimo libro Pour une histoire de la guerre d'Algérie (1), ma tutto ciò non basta. Sicuramente con le sue stragi, le sue ruberie (il furto delle terre), con l'istituzione di una società fondata sullo sfruttamento e sul disprezzo, la conquista ha preparato la rivolta di un popolo derubato. Ma non spiega tutto: anch'essa si inserisce in una storia che comincia molti secoli prima.
Se si isola questa conquista, se non la si inserisce in un contesto più vasto, se non la si mette in relazione con l'occupazione di altri territori, di altre rivolte, si rischia di avere una visione troppo limitata e si perdono di vista gli elementi essenziali: la volontà dell'Occidente, per almeno quattro secoli, di sottomettere i cosiddetti popoli «selvaggi» per sfruttare meglio le loro ricchezze, definendoli ipocritamente paesi «in via di sviluppo». La conquista dell'Algeria, i massacri e le rivolte che provocò sono solo l'illustrazione particolare di un evento molto più generale: l'espansionismo delle potenze europee, con tutto ciò che ha comportato su due terzi dell'umanità in termini di violenza nei rapporti sociali, di negazione dell'umanità, di disprezzo e di miseria.
È quello che hanno messo in evidenza alcuni giovani storici nel corso di un convegno che si è svolto a Parigi nel 1998. Alcuni dei loro interventi sono stati pubblicati in un libro dal titolo eloquente: Périssent les colonies plutôt qu'un principe (2). Ma di fatto da Santo Domingo all'Algeria è stato il principio a rimanere lettera morta: votata il 26 agosto 1789 la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino non fu applicata agli schiavi, che sotto la guida di Toussaint Louverture si ribellarono. In seguito a questo avvenimento il 4 febbraio del 1794 la Convenzione decretò l'abolizione della schiavitù. Ma i coloni fecero in modo che la schiavitù rimanesse - il codice nero fu abolito solo nel 1848. E uno dei sostenitori dell'abolizione, Louis Milscent-Créole, vittima di un complotto del partito coloniale, fu ghigliottinato per aver preteso che gli «indigeni», anche se «neri», fossero uomini e avessero il diritto di essere liberi.
Tuttavia la Dichiarazione poneva un problema. Come dichiarò Milscent al legislatore, «si estende la libertà sulle terre del Belgio, della Germania, dell'Italia, ma si lascia gemere nell'orrore del dispotismo i più bei possedimenti dell'impero francese!» Ma ecco che al principio della libertà veniva contrapposto un altro principio, immaginato per le esigenze della causa da Jules Ferry.
«Se la Dichiarazione dei diritti dell'uomo è stata scritta per i neri dell'Africa equatoriale, allora con quale diritto si potranno imporre loro gli scambi e i traffici? Essi non vi hanno certo chiamato».
Bisogna quindi stabilire che la Dichiarazione dei diritti dell'uomo, universale in teoria non lo fosse nella pratica: poiché esistono delle «razze superiori» e delle «razze inferiori», «le razze superiori possono accampare un diritto nei confronti delle razze inferiori».
Un diritto che giustifica la conquista. E che fonda un dovere: quello di «civilizzarle».
Da ciò deriva la necessità di convincere l'opinione pubblica che questi popoli sono dei «selvaggi». Questa sarà la funzione degli zoo umani. Non si può certo accusare il legislatore di aver espressamente architettato questo piano diabolico. Ma di fatto ha sfruttato al meglio una situazione che non aveva creato.
Come riferisce un gruppo di storici in Zoos humains, XIXe et XXe siècles (3) - un libro fondamentale che chiunque dovrebbe leggere - gli europei frequentano assiduamente, fin dal Settecento, i giardini zoologici, dove scoprono «esotiche» specie vegetali e animali. Poi ben presto varietà della specie umana... Parigi, Milano, Basilea, Amburgo, Bruxelles - non c'è grande città europea che non abbia esposto in gabbie «mostri», pazzi e «selvaggi»: «negri», lapponi, tuareg, malgasci, aborigeni. Abbastanza per convincere gli europei della loro «superiorità»: «Così attraverso lo spettacolo e il gioco, senza neanche dover enunciare o affermare questa pretesa superiorità, si producono razzisti e colonialisti». E una volta create le condizioni, si spediscono queste persone oltremare a conquistare e trucidare i «selvaggi». In nome della «civiltà».
Probabilmente, come afferma Gilles Manceron, «non è in Francia che la teorizzazione della differenza razziale si è espressa nelle sue peggiori perversioni. Al contrario, è stata uno dei paesi dove il razzismo è stato più combattuto. [Ma] la vergognosa realtà degli zoo umani è sintomatica della vera cancrena dell'ideale repubblicano di cui ha sofferto la "Repubblica reale", tanto distante dai suoi ideali fondatori quanto lo è stato il "socialismo reale" dell'Unione Sovietica».
Questo «socialismo» è morto, ma la cancrena è ancora presente: negli anni '90 gli abitanti di Nantes hanno potuto «ammirare» un villaggio africano, i belgi un villaggio masai, i clienti di una discoteca di Berlino una coppia di neri chiusa in una gabbia nella quale gettare banane e milioni di spettatori gli «specimen» del Grande Fratello.
Per non parlare poi degli «zoo» della vergogna - quelle periferie dove si fabbricano migliaia di giovani «selvaggi», nuovi «indigeni» dimenticati dai democratici.



note:


(1) Editions Picard, Parigi, 2002.

(2) Société des études robespierristes, Parigi, 2002.

(3) A cura di Nicolas Bancel, Pascal Blanchard, Gilles Boëtsch, Eric Deroo, Sandrine Lemaire, La Découverte, Parigi, 2002.
(Traduzione di A.D. R.)