Da Il Corriere della Sera di domenica, 23 marzo, 2003
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«Io, lavorando come un cavallo alla fabbrica dei maccarone»
DIARI DAGLI USA
di Franzina Emilio

Il successo arriso non senza merito, in queste settimane, al romanzo Vita di Melania Mazzucco (Rizzoli), si spiega certo con l' abilità dell' autrice e con il fascino di una trama felicemente intessuta fra l' Italia e New York nell' arco del «secolo breve» mettendo al centro le vicende esistenziali di due bambini del Sud, appunto Vita e Diamante, approdati a Ellis Island cent' anni fa, nel 1903. La storia, che segue poi e rispecchia una varietà di esperienze immigratorie al nuovo mondo, riesce accattivante e credibile ed è stata additata da più parti come una (tardiva) incursione della nostra narrativa nell' universo frastagliato dell' emigrazione. Si son fatti i nomi, per elogiarla, di molti scrittori italoamericani cimentatisi un po' più per tempo con il problema e si sono messi giustamente in risalto il valore estetico dell' opera e il sapore di autenticità che promana dalle sue pagine, in effetti fra le migliori comparse da noi negli ultimi anni. Altre consimili ve ne sono però se solo andassimo a cercare nel vasto repertorio delle autobiografie dei nostri emigranti, di regola assai poco conosciute e anzi misconosciute dai più: «Mai vidi così tanti uomini, donne e bambini, sporchi e maleodoranti, ciascuno parlava un dialetto diverso, non riuscivo a capire nemmeno una parola d' italiano... Io mi sentivo umiliato». Con queste parole Pompeo Coppini, originario di Moglia nel Mantovano e divenuto poi in Texas un famoso scultore, descrive nel suo From Dawn to Sunset (Dall' alba al tramonto, 1949) il proprio impatto, a Manhattan nel 1896, col groviglio di strade tra i Five Points e Mulberry Street. Lo stesso in cui è stato ambientato da Scorsese Gangs of New York e dove, al posto degli irlandesi che lo avevano affollato per primi al tempo della guerra di secessione, erano venuti ad abitare gli immigrati italiani. È una fotografia nitida e impietosa dell' antica Little Italy newyorkese fatta da uno che in America c' era andato anche lui per lavorare. La fatica e, appunto, il lavoro, più che non la vergogna, campeggiano al centro delle memorie popolari scritte di pugno dai nostri emigranti come insegna, fra mille, un brano di rara efficacia di Tommaso Bordonaro ne La spartenza (1991). Bordonaro, nato in Sicilia nel 1909 ed espatriato in Usa, a Garfield, 50 anni dopo l' arrivo di Coppini, racconta di sé: «...in quel periodo ero ancora giovane; e pur lavorando come un cavallo poi da un lavoro all' altro: sabato e domenica allavorare con la Città afare scave di fognature per l' acquidotte e per l' acqua da bere, in corso della settimana al cemetero, la sera delle volte tre opure quattro ore alla fabrica dei maccarone La Perla, e non potevo mai fare sufciente per mantenere la famiglia un po' discreta». Poche esperienze come l' emigrazione e i processi di ambientamento all' estero sollecitano dunque, in chi li abbia vissuti, il desiderio di ricordare e, in chi ne ebbe notizia da lontano, l' esigenza di rimuovere e «dimenticare». Il viaggio, gli effetti dello spaesamento iniziale e i contatti con altre culture, resi necessari dal bisogno o sperimentati per scelta, si ritrovano comunque alla base di «testimonianze» a cui non sono estranee, quasi mai, finalità e preoccupazioni d' ordine letterario, nella denuncia postuma di vessazioni o di umiliazioni subite, come anche, del resto, di successi conseguiti e di soddisfazioni pagate a caro prezzo. In un' opinione pubblica incuriosita attualmente dalle vicissitudini degli emigranti di casa propria e, dopo l' avvento qui dell' immigrazione straniera, un po' spaventata dalla «scoperta dell' altro» e dai problemi che il suo arrivo e la sua presenza comportano, queste voci d' «italiani nel mondo» si potrebbero recuperare e proporre, forse, quale antidoto ai mali correnti della intolleranza, della xenofobia e del razzismo. Peccato che si tratti più di una speranza che di una ipotesi praticabile. Le scritture degli uomini incolti o «semi-colti» di cui si comincia a disporre in Italia, (ad esempio, presso l' Archivio diaristico nazionale di Pieve S.Stefano), non aspiravano, del resto, a tanto, anche se vengono allo scoperto sempre più numerose rivelandosi per niente marginali. Dallo Straniero indesiderabile del ligure Pietro Riccobaldi (1987) a La spartenza sopra ricordata si snoda infatti, nel corso dell' ultimo decennio, una serie consistente di testi, fra editi e inediti, sottratti al magro destino della circolazione privata. L' America del Nord e in genere i Paesi d' oltreoceano vi offrono lo sfondo costituendo il nerbo della memorialistica d' emigrazione al momento meglio conosciuta, quella degli «italiani del Sud»: da The Soul of an Immigrant di Constantine Panunzio del 1921 a Son of Italy di Pascal D' Angelo, comparso in Usa tre anni più tardi, ma tradotto solo assai di recente in Italia, su su fino alle autobiografie, tra «grandi» e «piccole», di Francesco Ventresca, Pietro Greco, Edward Corsi, Fiorello La Guardia, Jerre Mangione, Carmine Biagio Jannace, Antonio Margariti, Joseph Tusiani ecc. Ovunque si riscontra l' importanza attribuita dagli scriventi alle descrizioni nostalgiche del «mondo di prima» e a quelle del viaggio di avvicinamento ai nuovi lidi di approdo. Circostanza, quest' ultima, comprensibile rispetto ai tragitti da compiersi via mare per tutti coloro che avessero scelto le Americhe (o l' Australia), ma presente anche nelle rievocazioni di chi la propria meta d' emigrazione l' aveva raggiunta, come spesso accadeva fra ' 800 e ' 900, per ferrovia o addirittura a piedi, e poi per tutti coloro che, fuori dallo spazio geografico strettamente inteso, continuavano il proprio cammino all' interno delle società «ospiti». Un incunabolo di questa trama narrativa che descrive l' immigrazione dall' interno, le memorie di Adolfo Rossi, nativo di Lendinara e futuro giornalista del Corriere della Sera, fu anche tra i pochi testi del «genere» ad ottenere, in quanto tempestivamente pubblicato, una qualche visibilità. Un italiano in America, questo il suo titolo, comparve nell' anno centenario della scoperta colombiana, il 1892, e dà un' idea di come le visioni dirette e «dal basso» avrebbero potuto orientare sin dall' inizio una lettura corretta dell' esperienza di straniamento e di «rinascita altrove» degli emigranti (la scelta di partire, le catene migratorie, le reti di collegamento etniche, gli ambienti di lavoro, la xenofobia, le parlate miste ecc.): non senza segnalare, lungo una strada che sarebbe stata illuminata più tardi dalla letteratura dei romanzieri italoamericani di successo (Di Donato, Fante, Pagano ecc.), le potenzialità di una scrittura votata a raccontare le vite in bilico fra due mondi e, perché no?, le curiosità (e i vantaggi) dello scambio culturale in atto. Come quando a Denver, nel Colorado, intorno al 1883, Rossi, tragicamente in bolletta, s' imbattè assieme a un amico nella bottega d' un venditore di liquori che aveva fatto scorta di 60 bottiglie d' ottimo vino. L' aneddoto chiude l' autobiografia e mette in scena il dialogo col negoziante, un «corpulento tedesco» che aveva rilevato la partita snobbata dagli indigeni interessati solo al whiskey e ai liquori: «...Barbera 1870; Grignolino, 1870; Chianti, 1871... - Come l' aveste? - Le comperai tredici anni fa da un italiano che aveva aperto qui uno spaccio e che andò poi a stabilirsi nell' Est. Se volete, ve le do a un dollaro la bottiglia per sbarazzarmene...».