il manifesto - 12 Febbraio 2005
LECCO
Il non senso comune sugli zingari
LUCA FAZIO
Dopo sei secoli di persecuzioni, e a sessant'anni dal loro sterminio programmato, le cronache di questi giorni ripropongono il medesimo slittamento della questione zingara alla zona stregonesca. Gli zingari rubavano e rubano i bambini e si cibavano (si cibano ancora?) di esseri umani. Chiunque dotato di buon senso, come il giudice che ha rilasciato le tre presunte rapitrici, sa che a Lecco i bambini non sono in pericolo perché nessuno cerca di rapirli. E a questo punto non è importante ribadire che la destra sta solo attaccando la magistratura senza nemmeno premurarsi di leggere le carte, o guardare la realtà. Importante, cioé spaventoso, è osservare che «il comune sentire del popolo», che il ministro della giustizia Castelli agita contro i magistrati e vorrebbe iscritto nel codice penale, si nutre ancora delle stesse assurde convinzioni. Il luogo comune degli zingari ladroni cannibali e rapitori di bambini è presente in letteratura e nel melodramma. Dalla Gitanilla di Cervantes (1613) al Trovatore di Verdi (1853), dove la vicenda parte proprio dal presunto tentativo di rapimento commesso da una zingara che poi viene messa al rogo - «abbietta zingara, fosca veliarda».

La storia della persecuzione degli zingari è piena di esempi edificanti del «comune sentire del popolo». In Turchia e in Albania si credeva che gli zingari scoperchiassero le tombe per cibarsi di cadaveri. Nel 1782 in un processo per antropofagia vennero accusati 200 zingari, e solo dopo feroci torture e 40 uccisioni un'ulteriore indagine dimostrò che i presunti divorati erano altrove, vivi e vegeti. L'ultimo processo per cannibalismo è molto più recente: 1927, in Slovacchia. Poi, l'olocausto.

La storia è ricca anche di interventi legislativi che potrebbero ispirare i colleghi leghisti del ministro Castelli, che in questi giorni stanno facendo a gara per proporre leggi più severe contro gli zingari (un tal Boni, per ora, si limita a chiedere l'abrogazione della legge regionale lombarda «per la tutela delle popolazioni tradizionalmente nomadi»). Negli stati tedeschi, tra il 1416 e il 1774, ne furono promulgate 148. Nel 1554, Elisabetta I d'Inghilterra emanò un decreto che prevedeva la pena di morte non solo per gli zingari ma anche per chi si intratteneva con loro. Quasi ovunque, tra il 1471 al 1637, furono emesse sentenze di morte contro gli zingari: da Lucerna a Brandeburgo, in Spagna, Germania, Olanda, Portogallo, Inghilterra, Danimarca, Francia, Fiandra, Boemia, Polonia, Lituania e Svezia. Più moderno - basterà un altro presunto rapimento... - l'esempio del governo francese che dal 1765 istituì una ricompensa in denaro per chi catturava gli zingari. Nel XIX, in Danimarca, la caccia allo zingaro era addirittura una specie di sport: nel 1835, un nobile, dopo una battuta di caccia annotò «uccisa una donna con il piccolo». In Boemia si tagliava l'orecchio destro alle zingare, in Moravia quello sinistro. E così via, fino a Birkenau.

Non sono solo vecchie storie se «il comune sentire del popolo», dopo quattro secoli, è ancora in sintonia con l'inquisitore Pierre De Lancre (XVII secolo): «Gli zingari vagabondi sono mezzi diavoli...imbroglioni senza patria...nascono in ogni luogo, camminfacendo e traversano le nazioni; e nei campi e sotto gli alberi fanno danze e si comportano a metà tra saltimbanchi, come al sabba». Altrimenti non si spiegherebbe perché se per un meschino calcolo politico c'è chi ripropone la streghizzazione degli zingari, dall'altra parte, a sinistra, chi dovrebbe conoscere questi meccanismi non ha il coraggio di aprire bocca e al massimo non sa far altro che richiamarsi all'indipendenza della magistratura.