Interventi di accoglienza abitativa nella provincia di Bologna

di María Adriana Bernardotti
Osservatorio Comunale delle Immigrazioni.


Il lavoro è stato possibile grazie alla proficua collaborazione di Rossella Gualandi che ha svolto presso il nostro servizio il periodo di tirocinio al termine del corso di "Operatore delle Relazioni Interculturali", organizzato da Intercultura presso il Centro Galileo di Formazione di Bologna.


La domanda abitativa degli immigrati si è innestata su una situazione già difficile nel mercato della casa, nel quale come affermava l'Assessorato alla Casa del nostro comune nel 1991 "esiste una forbice che non si riesce a chiudere perchè permane un forte squilibrio fra struttura della domanda e struttura dell'offerta"; infatti "ci troviamo ad operare alla fine di un ciclo nel quale la casa, da diritto fondamentale dei cittadini, è diventata sempre più un bene di investimento, un rifugio del capitale finanziario".

Agli inizi del 1991, appena ultimata la regolarizzazione dei lavoratori stranieri tramite la sanatoria della legge 39/90, un'indagine svolta dal CRESME per conto dell'Iacp di Bologna evidenziava "che sarebbero oltre 10.000 le persone che considerano la loro situazione alloggiativa "precaria" in quanto legata a procedure di sfratto in corso o pendenti; circa 34.000 sono le famiglie che cercano un nuovo alloggio, un terzo più orientato all'affitto, il resto più interessato all'acquisto. Ancora più vaste le necessità di mobilità abitativa che formano una domanda potenziale stimata in 46.000 nuclei familiari, proprietari e affittuari di ogni fascia di reddito." Di fronte a una tale situazione, si proponevano già allora al Consiglio Comunale misure per rivitalizzare il mercato privato dell'affitto, ad esempio un regime di tassazione penalizzante per chi aveva alloggi sfitti o, al contrario, riduzione delle tasse per chi offrisse alloggi in locazione (in Comune di Bologna, Ass. alla Casa, Tributi, Patrimonio, La casa a Bologna: realizzazione e proposte. Relazione presentata dall'ass. Claudio Sassi al C.C. nella seduta del 25 marzo 1991).

La situazione negli anni successivi diventa ancora più drammatica. Secondo i dati del Censis nel 1993, vi sono in Italia 926.800 nuclei familiari in condizioni di grave disagio abitativo (4,7% della popolazione), di cui oltre la metà sono famiglie di anziani e 306.480 nuclei di stranieri che rappresentano il 33,1% del totale.

La domanda generata dalla popolazione straniera è soprattutto concentrata nel Centro Italia, mentre nel Meridione è forte l'incidenza degli anziani. Nella città di Bologna, su 17.080 famiglie in condizioni di grave disagio abitativo, il 44,6% (7.610 famiglie) è costituito da nuclei di stranieri.

Secondo la stima realizzata da Antonio Tosi (Indagine Irs-Caritas, 1994), le cifre del disagio abitativo salgono a 2/3 milioni di persone in Italia, sommando un secondo segmento di popolazione composto da famiglie residenti in aree di forte degrado urbano, edilizio, ambientale e di forte marginalità sociale. Di questo totale, mezzo milione di unità sarebbero le persone che soffrono di "esclusione abitativa", cioè che sono privi di una sistemazione abitativa vera e propria e tra questi circa 200.000 sono persone immigrate.

Nella stima di Tosi, l'esclusione abitativa raggiungerebbe tra il 18% e il 24% della popolazione immigrata in Italia: considerando la presenza immigrata in un milione di unità, avremmo almeno 60.000 immigrati in coabitazione forzata e 50.000 in sistemazioni estremamente precarie inidonee. I senza-casa vengono calcolati in 20-40.000 ai quali si devono aggiungere altre 50-90.000 persone in dormitori e centri di prima accoglienza. Si raggiunge così un totale di 180-240.000 immigrati in situazione di esclusione abitativa.

La precarietà abitativa di ampi strati della popolazione si contrappone al fatto che l'Italia è il paese della Cee con maggiore presenza di proprietari della casa in cui si vive (tra il 70-75% della popolazione). Dall'altro canto, la componente di edilizia pubblica raggiunge le percentuali più basse della Comunità Europea: se nel 1991 rappresentava il 13% dello stock abitativo, rispetto al 60% della Germania, al 65% dell'Inghilterra, al 60% della Svezia, gli ultimi dati evidenziano che l'edilizia residenziale pubblica in Italia costituisce attualmente solo il 5% del parco degli alloggi, con una tendenza ad un'ulteriore riduzione dovuta all' attuale politica di vendite. Anche a Bologna, e prendendo in considerazione i dati relativi alle nuove costruzioni, si nota che nel 1985 l'edilizia sovvenzionata e agevolata rappresentavano rispettivamente il 5,2% e il 17,5%, nel 1990-91 le percentuali si erano ridotte al 3,3% e al 14,1%.

Per completare il quadro ricordiamo che le cooperative edilizie, dal 1978 in poi (Legge n° 457 dei piani decennali di abitazione), hanno costruito in Italia più del 10% delle nuove abitazioni ma la loro funzione sociale si è gradualmente snaturata fino a rispondere ai soli bisogni delle fasce medie. Inoltre, gli ultimi dati indicano anche che l'incidenza media dell'affitto è salita al 16,5% del budget familiare.

A fronte di problemi strutturali di questa portata, le risposte sono state indirizzate, per lo più, a tamponare l'emergenza: lo stato stanziò finanziamenti per la predisposizione dei centri di prima accoglienza e il privato sociale mise a disposizione le sue strutture e i suoi volontari.

Mancando informazione statistica al riguardo, l'Osservatorio Comunale delle Immigrazioni ha effettuato una rilevazione sulla situazione esistenti al 31/12/94 nella provincia di Bologna, i cui risultati sono pubblicati nei prossimi paragrafi.

L'intervento degli enti locali

La legge 39/90 prevedeva finanziamenti di 90 miliardi (DM Tesoro n. 224/90) per il triennio 1990-92, a disposizione delle regioni per l'istituzione di centri di servizi e strutture per l'accoglienza abitativa temporanea, completati con altri 30 miliardi disposti dal D.L. del 30 dicembre 1992 (decreto Boniver) per l'anno successivo. Nella definizione di legge, i centri di accoglienza erano "strutture che provvedono alle immediate esigenze allogiative ed alimentari degli immigrati, per il tempo strettamente necessario al reperimento di un'autonoma sistemazione e comunque per non oltre 60 giorni".

La distribuzione dei "centri di accoglienza" non è stata uniforme sul territorio nazionale, dipendendo dall'interesse dei singoli comuni ad utilizzare i finanziamenti. Così, in ampie zone dell'Italia la questione immigrazione è stata abbandonata al volontariato, mentre in regioni come l'Emilia Romagna hanno avuto un ruolo fondamentale gli enti locali nella gestione delle politiche del settore (1). Anche se, dove i centri sono stati realizzati, la loro funzione è stata snaturata dalla permanenza di una utenza che, non trovando opzioni per un inserimento abitativo 'normale', è diventata stanziale della 'prima accoglienza'.

Dalla ricerca realizzata dalla Gandalf per conto dell'Osservatorio del Mercato del Lavoro della Regione Emilia Romagna nel 1992, sull'attuazione di politiche per l'immigrazione, si evinceva che la maggioranza dei comuni della provincia di Bologna erano intervenuti nel campo dell'accoglienza abitativa: 25 di essi approntando centri di prima accoglienza e altri comuni minori (10) attivandosi "per cercare sul mercato delle soluzioni abitative di emergenza, ponendosi come 'mediatori' tra gli immigrati ed i proprietari di case"(2).

Al 31 dicembre 1994, strutture adibite a questo scopo funzionano in 20 dei 60 comuni della provincia (Tav. 4.1.1), considerando centri di prima accoglienza e altri interventi definiti dai rispettivi comuni come di seconda accoglienza. La tavola permette il confronto tra la disponibilità di posti-letto nelle strutture pubbliche negli anni 1994 e 1991 (3) ed evidenzia un leggero calo dei posti di prima accoglienza (da 1.675 a 1.627), senza considerare le strutture di accoglienza per rifugiati esistenti sul territorio. Questo calo in parte è spiegato dal fatto che alcuni comuni hanno chiuso i loro centri: i casi più rilevanti sono Granarolo e Calderara (quest'ultimo, però, ha avviato in compenso interventi di seconda accoglienza). D'altra parte altri comuni hanno messo a punto delle nuove strutture (ad es. Bazzano, Castenaso, Medicina, Monteveglio).

Tutti i comuni della provincia interpellati per il nostro rilevamento hanno popolazione straniera di immigrazione recente e la maggioranza di quelli che non hanno disposto l'apertura di strutture dichiarano che i nuovi arrivati avrebbero trovato sistemazione senza difficoltà nel proprio territorio.

Nella maggior parte dei casi si tratta di fabbricati di proprietà pubblica ristrutturati, soprattutto ex-scuole, per alloggiare stranieri riuniti in gruppi estesi di convivenza. In 8 comuni le amministrazioni sono riuscite a mettere a disposizione anche alcuni appartamenti, tra cui il comune di Bologna con lo stabile di via Stalingrado. Un'altra opzione scelta sono stati i prefabbricati leggeri e le sistemazioni in campo sosta per roulottes (ad es. territorio di Imola). Quasi inesistente l'utilizzo di strutture non appartenenti al patrimonio pubblico, ad eccezione di qualche casa colonica. (Tav. 4.1.2)

E' predominante la gestione diretta da parte dell'ente pubblico (assessorati e servizi sociali), tramite operatori comunali o contrattati a questo compito (Tav. 4.1.3). E'interessante rilevare che nella metà delle realtà impegnate su questo fronte, sono stati avviate esperienze di autogestione da parte degli utenti stessi delle strutture, esperienze riuscite in piccole strutture della provincia ma di difficile realizzazione nei grossi "centri" del capoluogo. Le due amministrazioni che ospitano quote maggiori di popolazione immigrata in situazione di accoglienza (il comune di Bologna e la Usl di Imola alla quale fanno capo i comuni del comprensorio imolese) hanno appalti con cooperative sociali per la gestione del servizio. E' invece minimo l'appello alle forze del volontariato, dato che conferma la centralità dell'intervento pubblico per tutta la provincia.

Difficile invece appare l'avvio di politiche di seconda accoglienza, intese come interventi mirati ad un inserimento stabile sul territorio e, in specifico, in campo abitativo il passaggio da una situazione di precarietà a una sistemazione con maggior grado di autonomia. In un percorso 'normale' la seconda accoglienza costituisce una fase di passaggio tra la prima accoglienza (4) e l'integrazione piena nella società o l'eventuale rientro. Dal punto di vista abitativo la seconda accoglienza dovrebbe contemplare un'offerta variegata di soluzioni, in funzione del progetto migratorio e dei bisogni del soggetto (singoli o famiglie, progetto a breve-medio-lungo termine, disponibilità economica, ecc), soluzioni valide anche per altre categorie sociali in situazione più o meno transitoria sul territorio (ad es. studenti, lavoratori in trasferta).

Soltanto 4 dei comuni interpellati avevano avviato al 31/12/94 un qualche intervento di questo tipo (5). Si tratta in tutti i casi di piccoli interventi (49 persone sistemate per tutta la provincia) che rispondono a diversi criteri, data la molteplicità di percorsi possibili per una seconda accoglienza. I comuni di Calderara di Reno, San Giovanni in Persiceto e Monteveglio hanno assegnato appartamenti di proprietà comunale a nuclei familiari ma anche a gruppi di singoli. Per il comune di Medicina si tratta invece di una ex-scuola concessa in comodato a una convivenza allargata di uomini pakistani: in questo caso quello che determina il carattere di seconda accoglienza della struttura non è l'autonomia delle unità abitative ma l'autofinanziamento da parte degli utenti, riuniti contrattualmente in un'associazione o "circolo di alloggio" che autogestisce la struttura e copre tutte le spese. La struttura di Medicina ospita anche uomini italiani in situazione di disagio abitativo.

Il comune di Castel Maggiore, invece, ha in progetto la sistemazione di mini residence in strutture prefabbricate (8 - 12 appartamenti per 32-36 posti-letto).

Questi minimi interventi sono stati approntati dai singoli comuni e non sono da confondere con il programma di edilizia agevolata per immigrati avviato dalla Regione Emilia Romagna, del quale parleremo più avanti.

L'accoglienza nel privato sociale

Oscurato forse dal massiccio impegno delle amministrazioni ma non per questo secondario, è stato il ruolo del volontariato nel fornire soluzioni di emergenza per la prima accoglienza abitativa.

Si tratta di una realtà difficile da raggiungere e da indagare, specie se si pensa alla rete capillare e sommersa di risorse delle singole parrocchie e gruppi di volontariato.

Nel corso della rilevazione abbiamo comunque individuato, nella provincia di Bologna, 10 organizzazioni che hanno assunto l'accoglienza abitativa degli immigrati come un loro obiettivo esplicito. Per lo più si tratta di organizzazioni di area cattolica legate alle diverse confraternite religiose, come si evince dalla Tav. 4.1.4. In maggioranza si tratta di istituzioni tradizionalmente attive nel campo dell'assistenza ai bisognosi, che hanno accolto la nuova utenza immigrata. Vi sono poi anche alcune realtà nuove, nate per affrontare l'emergenza abitativa degli immigrati e che fanno della soluzione di questo problema il loro obiettivo specifico: l'Associazione "Arc en ciel" promossa dalla congregazione dehoniana e la cooperativa A.S.A.S della Caritas Diocesana sono senza dubbio le esperienze più interessanti.

Il numero totale di posti letto, per le dieci strutture visitate, è vicino ai 350 (considerando alloggi di emergenza e appartamenti per la seconda accoglienza), dei quali più di 200 sono occupati attualmente da immigrati stranieri (6) e che complessivamente hanno ospitato negli ultimi anni circa 1.000 persone (Tav. 4.1.4).

Le strutture visitate hanno caratteristiche diverse a seconda delle loro funzioni (alloggio di emergenza, seconda accoglienza, casa protetta), delle caratteristiche dell'utenza (maschi, femmine, famiglie, solo minori, presenza o meno di italiani) e del modello di organizzazione e gestione della convivenza. A partire da quest'ultimo elemento, possiamo dividere le realtà studiate in quattro tipi:

1- Modello pensionato: Offrono camere ammobiliate per lavoratori o studenti dietro pagamento di una rata. La pensione Savena della parrocchia di San Lazzaro, accoglie solo lavoratori e viene gestita come una struttura alberghiera il cui regolamento prevede una quota massima del 30% per stranieri. Ha in parte caratteristiche di pensionato la Casa di ospitalità "San Petronio" (Villa Pallavicini) che offre vitto e alloggio a lavoratori e studenti; tuttavia vengono accolti gratuitamente anche disoccupati e dispone di un centro per l'emergenza.

2- Comunità-alloggio: basate su vita e lavoro di gruppo per l'autofinanziamento della comunità. Rientrano in questa tipologia le strutture religiose "Opera di Padre Marella" e "Cena di Emmaus": ambedue accolgono i disoccupati che collaborano nel lavoro interno di riciclaggio e accettano norme rigide di vita in comune (7). Un altra esperienza, da sottolineare per la sua originalità, è quella del gruppo di famiglie in vita comunitaria "Maranathà", orientato originalmente all'affido di minori con disagio e spinto dopo verso l'accoglienza temporanea di nuclei di stranieri o singoli immigrati.

3- Case-protette: piccole strutture per l'accoglienza di particolari categorie in situazione di rischio. Rispondono a questo modello gli alloggi di emergenza per donne disoccupate (ed eventualmente bambini) del Centro ascolto immigrati della Caritas e il Centro "San Petronio" gestito dalle suore. Includiamo anche il Gruppo Appartamento Emergenza "Casa dell'Amicizia", che accoglie minori in difficoltà per brevi permanenze e che ha vissuto una crescita di utenza straniera notevole negli ultimi anni (fondamentalmente nomadi slavi).

4- Cooperative e associazioni per l'abitazione: Rispondono a formule nuove, inventate allo scopo di compensare i problemi degli immigrati nel mercato privato dell'affitto, proponendo soluzioni orientate verso la seconda accoglienza. "Arc en ciel" è organizzata sotto forma di un'associazione che si fa intestataria dei contratti di locazione degli appartamenti trovati e si impegna nella gestione degli stessi. Gli utenti stranieri contribuiscono al capitale sociale e l'associazione ha anche una struttura di prima accoglienza gestita da un capo-comunità (sacerdote). Simile meccanismo di sostituzione nell'intestazione dell'affitto e garanzia sugli ospiti degli alloggi è quello utilizzato dalla cooperativa A.S.A.S, fondata dalla Caritas diocesana nel 1991: gli immigrati si associano alla cooperativa che trova appartamenti in foresteria o patto in deroga e si responsabilizza del pagamento delle rate (oggi l'ASAS ha sospeso la ricerca di nuovi appartamenti per i problemi finanziari dovuti alle inadempienze nei pagamenti dei canoni di affitto).

Molte delle difficoltà nella gestione delle strutture, alle quali si accenna nella Tav. 4.1.4, sono comuni all'esperienza dell'ente pubblico. Sembrano tuttavia riscontrarsi maggiori problemi per la convivenza in alcune strutture che per propria tradizione impongono un modello di vita comunitario impostato sui valori della religione cattolica, quando accolgono ospiti di altre confessioni. Difatto abbiamo riscontrato una certa specializzazione tra accoglienza abitativa del pubblico e del privato, la prima orientata prevalentemente ai maschi lavoratori di origine magrebina mentre quella del volontariato appare più aperta alle famiglie e più composita riguardo alle nazionalità di provenienza (si veda il capitolo sull'abitazione nella prima parte della rivista, che completa questo articolo).

Concludendo si può segnalare che l'attività del privato sociale è stata complementare a quella fornita dal servizio pubblico, soprattutto ha riempito gli spazi vuoti o più trascurati da quest'ultimo. Metà delle organizzazioni visitate accolgono anche immigrati irregolari e finora solo nel privato sociale c'è ospitalità per donne sole (è prossima la realizzazione del centro delle ex-scuole Merlani del comune di Bologna).

Dall'alloggio alla casa: i programmi di seconda accoglienza e le prospettive attuali

Dopo la legge 39/90 e i finanziamenti per l'emergenza, nessuna altra normativa è stata elaborata a livello nazionale per favorire l'integrazione, anche abitativa, della popolazione immigrata e superare gli ostacoli oggettivi per l'accesso al mercato della casa. Come si segnalava nel documento di sintesi del Gruppo II "Abitazione" della Commissione di studio per una legge organica sulla condizione giuridica dello straniero in Italia, istituita dall'ex ministra per gli Affari Sociali Fernanda Contri:

"Occorre prevedere sistemazioni alloggiative diverse attraverso una differenziazione dell'offerta. (...)E'quindi necessario prevedere che finanziamenti analoghi a quelli della legge 39/90 vengano destinati a tutti i tipi di soluzioni. La prima cosa da fare è "scorporare" una serie di funzioni che tendenzialmente si sono confuse nella nozione e nella tipologia di 'centro di prima accoglienza' ".

"Il concetto di emergenza è ancora pertinente: ma sembra opportuno pensare -più che (oltre che) alle tipologie alloggiative da mettere a disposizione -a strutture di intervento in grado di affrontare efficacemente l'emergenza nei momenti e nei luoghi in cui si verifica. Al fine di evitare forme eccessivamente "specializzate" e quindi di fatto segregatrici di intervento, occorre "normalizzare" gli accessi degli immigrati all'offerta residenziale, quindi prevederne l'accesso a tutte le provvidenze e facilitazioni offerte dallo Stato in campo abitativo".

..."si può ipotizzare la costituzione di una "agenzia sociale" per la casa che comprenda funzioni di informazione sulla disponibilità di alloggi e di intermediazione nella stipula dei contratti. Una possibile evoluzione di questa proposta potrebbe prevedere la costituzione di un'agenzia commerciale autonoma specializzata in abitazioni per fasce sociali a basso reddito (...) Non sono da escludere anche quelle misure di carattere finanziario che possono agevolare l'iniziativa autonoma dei soggetti".

Le nuove esigenze create dall'immigrazione sono servite in Italia per portare in primo piano il bisogno di sperimentazione e innovazione nella ricerca di risposte abitative per le fasce deboli. Il dibattito attuale è centrato sui ruoli del pubblico e del privato nella progettazione e messa in atto di soluzioni al problema.

Si va consolidando in Italia la corrente di pensiero che propone l'intervento del cosiddetto "terzo settore abitativo", cioè la partecipazione nell'edilizia sociale di nuovi attori capaci di riunire competenze di imprenditorialità e competenze di intervento sociale in grado di superare la dicotomia stato-mercato.

Seguendo le esperienze europee di realizzazione di "progetti locali integrati", nati con la crisi del sistema di welfare -tradotto in campo abitativo con la pianificazione centralizzata di interventi di edilizia pubblica-, l'accento si pone più sugli aspetti sociali dell'intervento che su quelli edilizi (organizzazione della comunità, processi partecipativi nella costruzione dell'abitat, accompagnamento sociale, auto-costruzione per l'occupazione e la formazione professionale, risanamento ambientale), in modo di far diventare la politica abitativa uno strumento strategico nella lotta contro l'emarginazione. In questa prospettiva, in alternativa alla centralità dello Stato, acquistano rilievo come soggetti attivi delle politiche il comune e gli enti locali, in grado di concertare interventi con gli operatori disponibili sul territorio e con una funzione di facilitazione e sostegno della loro attività.

Questo "terzo settore" è costituito in Italia da associazioni, cooperative, gruppi di volontariato che negli ultimi anni hanno tentato, con diverso successo, di avviare progetti di intermediazione per l'affitto, l'autocostruzione e acquisto di unità abitative per i nuclei di immigrati. Per coordinare e potenziare i loro interventi, molti di loro partecipano della "Rete per l'iniziativa dell'alloggio sociale" (Rias), costituita a Verona nel 1992.

Le principale esperienze in atto riguardano il Nord d'Italia. Nel Piemonte, dove si erano sviluppate diverse associazioni per l'intermediazione nell'affitto, il Cicsene (ong che si occupa di problemi di habitat nei pvs) ha promosso la costituzione di un fondo di garanzia ("Diogene 1") per coprire i rischi della morosità, per fornire prestiti per la ristrutturazione e mutui per l'acquisto, con la partecipazione della Regione e del comune di Torino e con il sostegno della Ue.

Altre esperienze conosciute sono state sviluppate nel Veneto (la "Cooperativa Recupero Alloggi Interetnica - Coralli" di Padova, orientata verso l'autocostruzione e promossa dell'Unione Inquilini, la "Cooperativa edilizia la casa per gli extracomunitari" di Verona, promossa dal Cestim - Centro Studi Immigrazione del Sindacato Scuola e Università e nata con una iniziativa popolare di raccolta di prestiti) e nella Liguria (la "Cooperativa Dar" di Genova, nata dallo sforzo della "Federazione di Cooperative"). La caratteristica comune a tutte queste è che si tratta di iniziative partite dal privato-sociale, di piccola portata, e che solo in un secondo tempo hanno ottenuto il sostegno del pubblico che si traduce in collaborazione finanziaria o nella consegna di unità abitative per la gestione.

A Bergamo, invece, la strada scelta è stata la costituzione di un'associazione pubblico-privata (l'Agenzia "Casa Amica", nata all'interno della Consulta provinciale con la partecipazione di diversi comuni della provincia, associazioni di immigrati, la Caritas, ecc), in modo tale di poter accedere ai finanziamenti della legge Martelli. Anche la Regione Toscana ha messo da parte fondi della Martelli per la costituzione di un "fondo sociale di garanzia" e di una "agenzia di intermediazione" con partecipazione degli enti locali.

Per quanto riguarda il nostro territorio, come si era verificato per la prima accoglienza, sono stati gli enti locali ad esercitare il ruolo promotore e trascinante nelle iniziative, chiamando in campo, prima che altrove, le forze del mercato e del privato sociale ma con risultati con non hanno finora soddisfatto le aspettative create. D'altra parte, le iniziative nate autonomamente trovano difficoltà a decollare in un terreno che sembra meno fertile per le operazioni non garantite in partenza dai finanziamenti pubblici.

Nel maggio 1991, la Giunta Comunale di Bologna ha interpellato i soggetti privati, le forze del volontariato e le associazioni del settore, organizzando una "Istruttoria Pubblica Speciale per l'avvio della seconda fase delle politiche di accoglienza". In quell'occasione sono state presentate e dibattute diverse proposte riguardanti la seconda accoglienza abitativa che implicavano diverse forme di interazione tra il pubblico e gli operatori privati (del mercato e del terzo settore). Uno dei progetti, orientato verso la nuova costruzione in ampia scala, proponeva la costituzione di una SpA mista pubblico-privata o di un holding di società a livello provinciale, che operasse nel settore dell'edilizia privata: i comuni avrebbero dovuto fornire i terreni e gli altri azionisti la liquidità necessaria, garantendo agli enti pubblici la quota di maggioranza. Veniva poi affrontato il problema della riscossione delle rate (che prevedevano una quota di sussidio pubblico) e si studiavano diverse forme di trattenuta alla fonte (ad es. la riscossione tramite gli istituti previdenziali per salvare l'intermediazione del datore di lavoro) o contratti legati alla formazione professionale per i disoccupati.

Un'altra delle proposte si orientava verso il mercato dell'affitto (l'"Agenzia Casa", presentato dalle coop. sociali Nuova Sanità-Dolce-Metoikos) e proponeva la costituzione di un'agenzia di intermediazione che assumesse la responsabilità contrattuale e gestionale sugli immobili, consegnati in uso a prezzi sovvenzionati dall'ente pubblico. Il progetto Ca'Bo (presentato dalla Cgil e dalla coop. di immigrati Metoikos), metteva invece l'accento sui processi partecipativi, organizzando gli immigrati in "circoli di alloggio" -associazione mutualistica o cooperativa in grado di rinforzare la capacità contrattuale dei soggetti deboli- in grado di firmare contratti di affitto e convenzioni per la gestione degli immobili; in un secondo livello di associazione, i circoli potevano costituire consorzi o aziende miste, con la partecipazione degli enti locali, di singole aziende, di associazioni, di cooperative, in modo tale di intraprendere lavori di ricupero e auto-costruzione.

Malgrado la vivacità del dibattito, non è stata realizzate nessuna di queste proposte a causa dei limiti e i rischi giuridici e/o economici che in ognuna di loro ha visto l'Amministrazione: la costruzione di quartieri per immigrati nella SpA, la partecipazione del comune in attività di intermediazione immobiliare nell'Agenzia Casa, la difficoltà di accedere al mercato privato nel caso dei "circoli" (l'esperienza è stata avviata nel comune di Medicina con la concessione in comodato di un fabbricato di proprietà pubblica).

Esperienze simili alle ultime due, sono state realizzate nel nostro territorio dal volontariato cattolico, come abbiamo già indicato. La "coop. Asas" della Caritas che ha sperimentato la strada dell'intermediazione per l'affitto e l'associazione "Arc en Ciel", più orientata verso i processi partecipativi. Abbiamo segnalato anche le difficoltà nella gestione economica della prima iniziativa (problema delle morosità), malgrado le maggiori possibilità del volontariato cattolico di accedere ai proprietari utilizzando la rete capillare di parrocchie sul territorio.

Per quanto riguarda l'edilizia pubblica, la Regione Emilia Romagna ha avuto un ruolo di avanguardia creando il primo programma di edilizia agevolata per immigrati. Con la legge regionale 14/90 la Regione promuove la realizzazione di accordi tra Enti locali, enti pubblici, imprese, cooperative, istituti di credito ed associazioni, rivolti a favorire soluzioni abitative per i lavoratori extracomunitari e con la legge regionale 5/91 vengono inclusi gli extracomunitari tra le categorie sociali con svantaggi abitativi, per i quali possono essere concessi contributi aggiuntivi rispetto ad altri finanziamenti statali a soggetti pubblici o privati che realizzino su immobili o aree in proprietà alloggi o unità abitative da destinare in uso o in locazione. Quest'ultima legge regionale ha di fatto anticipato la legge nazionale n. 179/92 che attribuisce alle Regioni la facoltà di individuare particolari categorie di alto disagio abitativo destinando loro risorse, sia di edilizia sovvenzionata che di edilizia agevolata, nella misura del 15% dei fondi a loro disposizione. Così, con la copertura finanziaria di risorse statali derivanti dai fondi residui della legge nazionale 457/78 (piano decennale della casa) e i contributi aggiuntivi stanziati dalla Regione, è stato presentato un progetto sperimentale formulato con la collaborazione delle tre associazioni regionali delle cooperative di abitazione maggiormente rappresentative.

Il progetto originale prevedeva la realizzazione in regione di 300 unità abitative, pari a circa 1.500 posti-letti, da destinare prevalentemente a lavoratori singoli (8).

A livello regionale sono stati presentati 72 progetti per la realizzazione di 694 unità abitativi per complessivi 3.129 posti-letto. Le proposte provenivano in massima parte da Comuni e da Cooperative di abitazione, generalmente sulla base di varie forme di integrazione. Hanno avuto anche un ruolo importante le associazioni sindacali e quelle che si occupano specificamente dei problemi degli extracomunitari. Talune proposte, non molte però, vedevano il coinvolgimento di imprese, talvolta in forma associata, per consentire la soluzione dei problemi abitativi dei loro dipendenti. Sono stati proposte prevalentemente interventi di nuova costruzione; i comuni, invece, hanno in genere proposto progetti di recupero edilizio.

All'aprile '92 (delibera 936/92) erano stati accettati -come rispondenti ai primi criteri di selezione- progetti al livello regionale per 408 unità abitative e 1.806 posti letto. Nel caso specifico della provincia di Bologna erano stati approvati 9 progetti per interventi in 8 comuni (Medicina, Bentivoglio, Castello d'Argile, Bologna, Argelato, Calderara, Castelmaggiore e Granarolo), comprendenti 173 unità abitative per 729 posti-letto. Dei 9 progetti, 6 erano di nuove costruzioni e 3 di recupero edilizio. I soggetti interessati erano l'IACP provinciale (in origine per costruire sui terreni a Castelmaggiore), la Coop Nuovo Mondo di proprietà indivisa e il Consorzio Copalc per i comuni di Bologna e Castello d'Argile, il Consorzio imprenditoriale Carea per Argelato, Bentivoglio e Calderara di Reno e la coop. di immigrati Metoikos associata ai rispettivi comuni di Medicina, Calderara e Bentivoglio per interventi di recupero edilizio.

Da una verifica dello stato di attuazione dei progetti rileviamo che sono in corso di realizzazione in tutta la regione 188 alloggi per un totale circa di 1.000 posti-letto, di cui sono già ultimati o prossimi alla fine 112 unità abitative: 12 in provincia di Piacenza (60% dei progetti rispettivi), 40 a Parma (62,5%), 21 a Reggio Emilia (31%), 27 a Modena (56%), 10 a Ravenna (24%) e 2 a Forlì (14%).

La provincia di Bologna, che aveva circa il 40% dei progetti approvati, mostra invece risultati più che deludenti. E'in corso di realizzazione il progetto del Copalc (16 alloggi) sul territorio di Castello d'Argile (4 unità abitative sono finite e pronte all'assegnazione). Sono in forte ritardo gli interventi di cui sono titolari i comuni di Bentivoglio (20 posti) e Medicina (28 posti-letto) mentre si cerca una rilocalizzazione del progetto Iacp su terreni del comune di Bologna. Sono decaduti invece i progetti sul territorio di Granarolo, Calderara e Argelato.

Ci sono invece notizie interessanti sul fronte dell'edilizia residenziale pubblica. Conosciamo il problema dell'accesso degli immigrati alle graduatorie nei precedenti bandi di concorso che, se da un lato correttamente privilegiavano gli sfrattati, dall'altro non tenevano indebita considerazione la situazione di chi non aveva avuto ancora accesso al mercato della casa.

I dati forniti dall'Ufficio Casa del Comune indicano che dal 1990 ad oggi (sett. 95) sono stati assegnati alloggi popolari a 37 famiglie straniere, di cui 34 di extracomunitari (1 nel 1990, 9 nel 1991, 7 nel 1992, 4 nel 1993, 8 nel 1994 e 5 nel 1° semestre 1995). Neanche il meccanismo della riserva del 15% (legge 179/92) è stato sufficientemente utilizzato per questa categoria sociale: da 50 nuclei assegnatari per il 1995 solo 4 sono extracomunitari.

La nuova normativa regionale apporta importanti modifiche che faciliteranno l'accesso delle famiglie immigrate, soprattutto di quelle alloggiate in strutture di accoglienza pubblica o del volontariato.

La legge regionale 13/95, del 16 marzo 1995, stabilisce che può richiedere l'assegnazione "il cittadino di Stato non aderente alla Unione Europea, residente in Italia, iscritto nelle liste degli Uffici provinciali del lavoro, o che svolga in Italia una attività lavorativa debitamente autorizzata". Tuttavia la principale novità riguarda la tabella dei punteggi per la graduatoria, secondo la quale ricevono 6 punti le situazioni di grave disagio abitativo, accertato da parte dell'autorità da almeno due anni dalla data del bando, quando esistono condizione di "sistemazione in spazi che per dimensione, struttura, impianti, funzionalità possono essere adibiti, se pure impropriamente, ad abitazione oppure in spazi procurati a titolo precario dall'assistenza pubblica o dalle cooperative sociali iscritte nell'apposito Albo regionale".

La nuova legge potrebbe quindi diventare uno strumento per favorire una parziale uscita dalla prima accoglienza, soprattutto per quanto riguarda i nuclei familiari numerosi. Anche se, per affrontare il complesso disagio abitativo esistente, sono chiaramente necessarie ulteriori elementi di flessibilizzazione degli attuali strumenti e soluzioni nuove, in modo da rispondere ai differenziati bisogni che impongono le nuove povertà.


Note

1- Le realizzazioni della prima accoglienza pubblica nella sola città di Bologna (circa 1.200 posti-letto) non hanno paragone a livello nazionale. Ad esempio, la città di Torino con 15.000 residenti stranieri nel 1994 ha 2 centri comunali con 150-160 posti-letto, che sommati a altre strutture pubbliche gestite dai privati e ai centri delle comunità religiose raggiungono al massimo 700 posti per persone senza fissa dimora (inclusi italiani). Nella città di Milano, prima della politica di chiusura dei centri iniziata nel giugno 1994, c'erano 9 strutture con 1.300 utenti a fronte a oltre 60.000 immigrati residenti. A Firenze, su 14 strutture di accoglienza solo 2 sono state approntate dall'ente pubblico; i finanziamenti della Legge 39/90 -secondo la ricerca realizzata dalla Fondazione Michelucci nel 1994- sono serviti, in tutta la Regione Toscana, per completare 350 posti-letti e sommando gli interventi ancora in programma e le altre strutture messe a disposizione autonomamente dagli enti pubblici è improbabile che si raggiungano 1.000 posti-letto per tutta la Regione.

2- Si veda Pietro Pinto, "Le politiche per gli immigrati in Provincia di Bologna: un quadro d'insieme", in Società Multietnica, n° 4, febbraio 1993 e Michele Bruni Pietro Pinto, "Enti locali e politiche per gli immigrati in Emilia Romagna" in n.4 Quaderni di Ricerca, maggio 1993.Bologna, Osservatorio del mercato del Lavoro della Regione Emilia Romagna.

3- Per il 1991 si veda Valter Baldassari - Vanna Valentini, "Indagine sulla presenza di cittadini extracomunitari e di strutture di accoglienza nei comuni della Provincia di Bologna. Sintesi.", in Società Multietnica, n° 3, agosto 1992.

4- Prima accoglienza che non può essere intesa soltanto come alloggio di emergenza, ma come un processo complesso che comporta anche l'acquisizione della lingua, la dimestichezza con la cultura e l'acquisizione delle altre risorse necessarie per muoversi autonomamente nel territorio di approdo.

5- Nel Comune di Bologna sono stati attivati interventi di seconda accoglienza nel primo semestre del 1995. Si veda il cap. 5 nella prima parte di questo numero.

6- In molte di queste strutture convivono stranieri con italiani in situazione di disagio.

7- Ultimamente la "Cena di Emmaus" ha smesso di ospitare stranieri per i problemi riscontrati nella convivenza. Probabilmente il carattere fortemente confessionale del regolamento interno è stato di ostacolo per il dialogo interculturale.

8- Si invitava a costituire società consortile di tipo cooperativo, che assicurassero la progettualità e gestione economica e finanziaria degli interventi, con l'aggregazione di cooperative, imprese, enti pubblici, sindacati, datori di lavoro, ecc, come lo strumento operativo più idoneo per affrontare il problemi di legislazione connessi all'assegnazione delle unità abitative.